Una delle domande più comuni che circola a proposito dell'intelligenza artificiale generativa è: possono le macchine algoritmiche essere creative? È possibile parlare di creatività automatica computazionale? Chi è l’autore delle opere generate dalle reti neurali: l’artista umano o l’algoritmo? Questo contributo, riprendendo il libro di Joanna Zylinska (AI Art. Machine Visions and Warped Dreams, London 2020), si pone l'obiettivo di dimostrare che questa non è la domanda corretta. Invece di contrapporre l'uomo alla macchina, con l'ansia che questa un giorno possa sostituirci in ogni attività che abbiamo considerato finora una nostra esclusiva prerogativa, il discorso che seguirà si propone di vedere invece le diverse forme di attività umana, inclusa l'arte, come se fossero sempre state tecniche e dunque - in qualche modo - artificialmente intelligenti. La domanda se i computer possono essere creativi - è questa la tesi che ci si propone di argomentare - è piuttosto fuorviante perché si fonda su un'idea pretecnologica dell'essere umano come soggetto autonomo di pensiero e di azione. Piuttosto che domandarsi se l'intelligenza artificiale sia capace di creatività, bisognerebbe piuttosto chiedersi come l'umano possa essere creativo con l'intelligenza artificiale.
Quando una nuova tecnologia invade i territori che fino a quel momento sembravano appannaggio esclusivo della nostra specie, la prima reazione è quella di fissare demarcazioni, di cristallizzare definizioni e competenze, stabilendo una volta per tutte cosa si intenda per "essere umano", individuando le sue caratteristiche specie-specifiche. Da questo punto di vista, dopo i passi da gigante fatti dall'informatica e dalla robotica nell'ambito sia delle abilità manuali che di quelle cognitive, il campo dell'arte appariva come l'estrema fortezza inespugnabile di umanità non delegabile alla macchina. Poi sono arrivati i modelli generativi e anche quest'ultimo baluardo ha cominciato a vacillare, generando ansie e timori. Oggigiorno artisti, poeti, scrittori, designers possono sentirsi preoccupati per i programmi generativi dell’intelligenza artificiale che invadono il loro spazio. Ciò è comprensibile e inevitabile: è davvero snervante rendersi conto che l’intelligenza artificiale può replicare non solo i risultati della nostra creatività, ma anche i processi creativi stessi. Varrebbe la pena ricordare che non si tratta di una condizione inedita: circa due secoli fa, ad esempio, l’invenzione della fotografia aveva causato livelli simili di insicurezza nel mondo dell’arte e aveva fatto gridare alla morte della pittura. Invece la fotografia ingenerò un’esplosione di nuovi modi di vedere e creare immagini, comprese quelle dipinte.
Prima di tentare di affrontare le domande poste all'inizio, sembra necessario fare qualche passo indietro e cominciare col chiedersi innanzitutto alcune cose: cosa intendiamo per umano? Cosa intendiamo per arte? Che rapporto c'è tra arte e tecnica? Chiaramente non si tratta di farne un'impossibile trattazione, ma di fissare un quadro di partenza. Ciò che si nasconde dietro le attuali domande sulla creatività meccanica è un’ansia più profonda sui modi in cui gli esseri umani possono continuare a essere creativi, per quanto tempo e a quale costo. L'incontenibile diffusione di artefatti visivi, testuali e sonori consentiti dall’intelligenza artificiale, ci costringe a riflettere su ciò che intendiamo per creatività, per produzione ed esperienza artistica. Ancora più in generale, la sfida insita già nell'espressione "intelligenza artificiale" ci porta a chiederci cosa sia quella specie del tutto particolare che abita questo pianeta e che chiamiamo Homo Sapiens.
L'uomo artificiale
La Science fiction ha spesso subito il fascino del gioco degli scacchi. Sia in Blade Runner che in 2001 Odissea nello spazio si gioca una partita tra l'intelligenza artificiale e l'umano e in entrambi i film la macchina vince sull'uomo. Come accadrà realmente qualche anno dopo l'uscita di queste pellicole, l'11 maggio 1997, nella storica partita tra Deep Blue "vs" Kasparov. E la stessa retorica competitiva si ripeterà ancora per il gioco del Go, per cui alla fine la vittoria dell'uno determina la sconfitta dell'altro.
L'immaginario comune riguardante il rapporto 'uomo - macchina' si è costruito da sempre contrapponendo i due termini in una relazione avversativa. Dove l'uno è contro l'altro, non unito all'altro in un rapporto di cooperazione. A maggior ragione quando le macchine hanno preteso di prendere il posto del suo creatore non solo nelle azioni che sostituiscono la forza muscolare, ma anche in quelle che simulano le sue facoltà cognitive e creative.
Se si aggiunge che il test di Turing si fonda sulla possibilità della macchina di simulare il ragionamento dell'essere umano e di 'ingannarlo', si capisce come quell'immaginario si sia imbevuto fin dalle origini di un senso di sfida, di un clima di sospetto e sensazione di minaccia. Nutrito di quel versus che campeggia sullo striscione nella fotografia della storica partita del 1997.
Nello stesso modo si cerca di definire l'intelligenza artificiale contrapponendola a quella umana e lo stesso dicasi per ciò che concerne la creatività. Lo schema è sempre quello oppositivo, dell'uno vs. l'altro, come se l'umano e la macchina fossero due soggetti separati e antagonisti. Per cui l'intelligenza della macchina è giudicata inferiore oppure superiore (e quindi una minaccia) a quella umana; la creatività algoritmica non è vera creatività oppure è arte a tutti gli effetti e dunque finirà per sostituire la creatività umana. Uno schema dualistico incoraggiato dal linguaggio che tende ad antropomorfizzare e biologizzare le componenti e le funzioni della macchina, per cui si parla di 'intelligenza', 'addestramento', 'allucinazioni', 'reti neurali', ecc.
Questa visione del rapporto tra essere umano e tecnica non è certo una caratteristica esclusiva della nostra contemporaneità; si tratta, piuttosto, della secolare tendenza da parte di certa filosofia e del senso comune di contrapporre i due elementi della questione, intendendo la tecnica come un ostacolo al pensare e al divenire umano. Se si parla dell’uomo - di quel vivente che ha elaborato sistemi sofisticati di adattamento come il linguaggio, le varie modalità di reperimento e trasformazione delle risorse, la costruzione di utensili, la messa a punto di strutture sociali, e così via - occorre invece riconoscere che la téchne non può essere intesa come qualcosa che viene ad aggiungersi dal di fuori, a contaminare o a corrompere un rapporto col mondo che si sarebbe potuto mantenere nella sua purezza originaria. Altri filosofi, da Arnold Gehlen a Bernard Stiegler (per citarne solo alcuni) affermano chiaramente che non esiste un essere umano anteriore alla tecnica. L'umano, in quanto tale, è un essere artificiale.
La comparsa dell’uomo è la comparsa della tecnica […]. Leroi-Gourhan dice in effetti che è lo strumento, ossia la techne, che inventa l’uomo, e non l’uomo che inventa la tecnica. O ancora: l’uomo inventa sé stesso nella tecnica inventando lo strumento – «esteriorizzandosi» tecno-logicamente. Se però il chi è inventato (o si inventa) dal cosa, la sua interiorità può costituirsi solo dopo la sua stessa esteriorizzazione. L’interno è inventato da questo movimento: non può perciò precederlo. Interno ed esterno si costituiscono di conseguenza attraverso un movimento che inventa, al tempo stesso, l’uno e l’altro: un movimento in cui si inventano l’uno nell’altro, come se ci fosse una maieutica tecno-logica di ciò che chiamiamo uomo. (Stiegler, La Tecnica e il Tempo 1, La colpa di Epimeteo, 2023).
Paolo Benanti parla a questo proposito di condizione tecnoumana:
"Condizione tecno-umana" si riferisce più in generale al modo con cui l'uomo ha da sempre capito e attuato il suo esistere: una interazione con l'ambiente mediata tramite degli strumenti, gli artefatti tecnologici. (Human in the loop, 2022).
"The Electrician", la foto con cui Boris Eldagsen aveva partecipato e vinto nella categoria "Creative" del concorso "Open" dei Sony World Photography Awards |
Non è mai esistito un umano primigenio, anteriore alla tecnica. Essa non si aggiunge all’uomo, al suo organismo, dall’esterno, ma inerisce essenzialmente al suo stesso costituirsi, al suo divenire “umano”. Quando si espone all'azione della tecnica, l'umano non sta andando contro la sua natura, poiché tale esposizione l'ha plasmato fin dall'origine della sua storia (tecnogenesi). L'irruzione della tecnica non è un fenomeno (o un cataclisma) della modernità, ma ci accompagna fin dagli inizi del nostro cammino sulla Terra. Parlare di intelligenza artificiale in contrapposizione a un'intelligenza naturale sembra pertanto portare il discorso in un edificio con scarse fondamenta. La vera intelligenza artificiale è quella umana, in quanto frutto di un'evoluzione non naturale, ma socio-culturale.
E la cosiddetta intelligenza artificiale? Espressione infelice, che ci ostacola la comprensione. Non si tratta in ogni caso di un soggetto autonomo, l'altro polo inquietante di quel dualismo antagonista e che si evolve al fine di scalzare e sostituire il genere umano, un dualismo ben rappresentato dall'iconografia più utilizzata per illustrare e pubblicizzare molti contributi teorici, convegni, conferenze, pubblicazioni che riguardano l'intelligenza artificiale, compresa questa: due mani, una umana l'altra robotica, le cui dita si sfiorano come nell'istante supremo in cui scocca la scintilla della vita nell'affresco della Creazione di Adamo alla Sistina. A voler ribadire il rango dell'umano quale creatore e la condizione della macchina quale creatura a cui è stata finalmente infusa la vita, trasformandola in soggetto vivente e autonomo. Il processo di mistificazione è qui quello che occulta il fatto che queste nuove tecnologie - per quanto inedite per la loro spinta a una potente agentività automatizzata - sono in realtà nient'altro che un nuovo livello della nostra mediazione tecnica (e dunque anche sociale, economica, politica) con il mondo. "La cd. intelligenza artificiale - scrive Cosimo Accoto - non è mai tale ‘in sé’ e ‘per sé’ (puro artefatto strumentale), ma sempre ‘con altri’ (assemblaggio sociotecnico) e ‘per altri’ (costruzione sociomorfica)" (La Potenza della Latenza: tre studi sull’intelligenza artificiale generativa, 2023). Un assemblaggio sociotecnico, dunque (non un'entità autonoma), in quanto nodo di una rete che connette insieme umani, macchine, poteri e strutture socio-economico-politiche. Accoto stigmatizza come "approcci ingenui e miopi" quelli che riducono l'AI a mere tecnicalità (reificazione) oppure assegnano loro intelligenza, coscienza, senzienza (antropomorfizzazione) e così non ne "colgono l’articolazione assemblativa" (https://cosimoaccoto.com/2023/04/02/lai-non-e-prodotto-o-servizio-ma-fabbrica-accoto-2023/).
Jason Allen, Theatre d'Opera Spatial, immagine generata con Midjourney, vincitrice a una gara d'arte della Colorado State Fair per la categoria "Arte Digitale / Fotografia Modificata Digitalmente" |
L'opera d'arte nell'epoca della sua producibilità algoritmica
Stabilito il legame dell'umano con la tecnica, passiamo ora a focalizzare l'attenzione su quello tra tecnica e arte, visto che nelle narrazioni basate sul dualismo polarizzato, esposte in precedenza, questi due ambiti vengono parimenti contrapposti: da una parte il determinismo meccanicista, che caratterizza l'ambito dei manufatti tecnici e l'azione delle macchine, dall'altra l'arte come espressione suprema di libertà, genialità, autonomia creatrice e individuale.
Per trattare la questione della creatività dell'intelligenza artificiale occorre, quindi, uscire fuori dalla narrazione dualista polarizzata per assumerne una che invece interroga l'azione umana in quanto azione da sempre sociotecnica. Se accettiamo questa ipotesi, allora tutte le manifestazioni artistiche, a partire dalle pitture rupestri del Paleolitico, sono dovute ad artefatti tecnici, protesi corporee ed estensioni cognitive. Da questo punto di vista, non è mai esistita una creatività puramente umana, nel senso di libera dall'apporto di strumenti e tecnologie. L'intelligenza artificiale e i modelli generativi, tuttavia, sembrano offrire più che nuovi strumenti operativi con i quali realizzare creazioni artistiche. Vengono presentati e vengono percepiti essi stessi come creatori autonomi di artefatti che, se riferiti all'umano, definiremmo creativi. La retorica del marketing, da questo punto di vista, si sta dimostrando molto efficace. Un esempio per tutti la messa all'asta da Christie’s del Ritratto di Edmond Belamy, firmato con il nome dell'algoritmo di intelligenza artificiale che l'aveva prodotto. Ed è quantomeno curioso notare come, nel momento in cui si propone un'agency creativa non umana, l'idea di arte che si cerca di realizzare sia proprio quella più antropocentrica di tutte, il ritratto.
Dopo la vittoria dei computer a scacchi e a Go, dopo che le macchine si sono dimostrate di saper battere l’uomo in molte competizioni che richiedono all’umano notevoli abilità cognitive, la produzione di linguaggio e di elaborati creativi da parte di un soggetto umano identificato come “autore” restava l’ultima prerogativa esclusiva della nostra specie. Poi sono arrivati i modelli generativi e la loro sintesi veloce, credibile e “creativa” di testi e immagini ha messo in discussione anche quest’ultimo bastione, obbligandoci a scendere ulteriormente nell’uncanny valley. Le reazioni di inquietudine di chi continua a sentirsi scalzato dalle proprie posizioni di vertice della piramide evolutiva non si sono fatte attendere. Ancora una volta si è imposto il paradigma dualistico e antagonista umano vs. macchina, dove la vittoria dell’uno determina la sconfitta dell’altro o dove la produzione da parte del non umano è da etichettare sotto lo stigma della simulazione, dell’inganno, dell'inautenticità. Tanto che, oltre che per testare l'intelligenza, si è proposto una sorta di test di Turing anche per sondare la creatività delle macchine.
"Si può immaginare una cultura dove i discorsi circolerebbero e sarebbero ricevuti senza che la funzione-autore apparisse mai. Tutti i discorsi, qualunque sia il loro statuto, la loro forma, il loro valore e qualunque sia il trattamento che si fa loro subire, si svolgerebbero nell'anonimato del mormorio. Non si ascolterebbero più le domande così a lungo proposte: 'Chi ha realmente parlato? È veramente lui e nessun altro? Con quale autenticità o con quale originalità E che cosa ha espresso dal più profondo si se stesso nel suo discorso?' Ma altre come queste: 'Quali sono i modi di esistenza di questo discorso? Da dove viene tenuto, come può circolare e chi può appropriarsene? Quali sono le ubicazioni predisposte per dei soggetti possibili? Chi può riempire queste diverse funzioni del soggetto?' E dietro a tutte queste domande non si capterebbe altro che il rumore di un'indifferenza: 'Cosa importa chi parla?'" (Scritti Letterari, Feltrinelli 2004).
Memo Akten, Distributed Consciousness, Installation view, 2023 |
L’irrompere dei modelli generativi, pertanto, viene a ravvivare un dibattitto annoso e forse, più radicalmente che in passato, potrebbe arrivare a ridefinire in modo definitivo ciò che intendiamo per autore, proprietà intellettuale e così via. Nel caso della vendita all'asta del Ritratto di Edmond Belamy, immediatamente si è acceso il dibattito su chi doveva esserne considerato l'autore: l'algoritmo o il collettivo Obvious, che aveva utilizzato l'algoritmo di Robbie Barrat e ideato il progetto? Per alcuni, l’esistenza di un’arte prodotta in questo modo mette in discussione il rapporto univoco che esiste tra autore e opera, creata dall’ingegno di quest’ultimo. Alla domanda se le immagini create da un’intelligenza artificiale possono essere considerate arte, per essi la risposta è no: il contributo di un artista nella creazione di un’immagine sintetica è pressappoco nullo, in quanto è l’algoritmo che lavora assemblando elementi più o meno riconducibili agli input testuali che gli vengono forniti. Secondo questi è scorretto chiamare arte qualcosa che è stato generato in pochi secondi da un programma, senza alcuna tecnica, sforzo o abilità da parte dell’artista.
Mario Klingemann. Memories of Passersby I |
The Next Rembrandt, progetto finanziato da Banca ING, nato dalla collaborazione tra Microsoft, il Politecnico di Delt, la Rembrandt House Museum di Amsterdam e il Muritshuis |
Kate Crawford e Trevor Paglen, Training Humans, Osservatorio Prada, 2019 |
Siamo dunque nell'era del post-human o stiamo vivendo una declinazione epocale di un nuovo livello dell'umano, che si trova ancora una volta immerso in un contesto reticolare di co-creazione, arricchitosi di nuovi soggetti aventi alto grado di agentività e di autonomia? Come scrive ancora Zylinska, l’arte guidata dall’intelligenza artificiale può essere intesa come un’altra svolta nella storia intrecciata dell’uomo e della tecnologia. Sfidando la nozione di arte come espressione di creazione divina ex nihilo, si vuole portare avanti il concetto che l'arte è sempre già emergente nel e con il mondo, nel contesto intrecciato dei molteplici apparati tecnici e culturali che lo modellano. Si potrebbe allora ridefinire il nostro concetto di creatività - continua Zylinska - lungo le linee di pensiero sviluppate dal filosofo della scienza Whitehead e basate su "modelli biologici e sociali" della creatività'. Per Whitehead, la creatività è il cambiamento che avviene nel modo in cui gli organismi agiscono sul loro ambiente. Ciò ci permetterebbe di aprirci a un modello più interrelato e meno agonistico, in cui tutti i soggetti concorrono a produrre arte in quanto non prodotto individuale ma oggetto sociale e relazionale.
Si tratta, dunque, di fare il salto nel postumano o di portare l'evoluzione dell'umano ad aprirsi ad altre forme di intelligenza e di percezione, di riconoscere il nostro coinvolgimento intrinseco con creature e macchine, mettendo da parte la pretesa di una nostra supremazia gerarchica che fa da alibi alla nostra propensione al dominio del mondo? Il problema non è l'umano; semmai - scrive ancora Zylinska - lo è il nostro secolare umanesimo antropocentrico, che attinge a valori costruiti culturalmente e poi li spaccia per universali, velando allo stesso tempo l’atto stesso della loro costruzione, con tutti i meccanismi di potere coinvolti nel processo. Il coinvolgimento di intelligenze altre può allora creare una spinta oltre gli orizzonti ideologici centrati sull’umano. In questo senso, forse, si può parlare di postumano. Una storia dell'arte postumanista - continua l'autrice - vedrebbe invece tutte le opere d’arte, dalle pitture rupestri fino alle opere dei cosiddetti Grandi Maestri e agli esperimenti contemporanei con tutti i tipi di tecnologie, come se fossero stati prodotti da artisti umani in un assemblaggio con una pletora di agenti non umani: pulsioni, impulsi, virus, farmaci, vari agenti organici e sostanze e dispositivi non organici, nonché tutti i tipi di reti, dal micelio fino a Internet.
Gli usi critici dell’intelligenza artificiale nell’arte digitale possono essere ideali per disturbare il tradizionale modello umanista liberale con i suoi cliché dell’opera d’arte compiuta, con le sue idee di creazione ex nihilo, di originalità, di paternità, della figura dell’artista individuale, le cui attività si allineano ai modelli di proprietà dominanti, delle prospettive antropocentriche sulla creatività in quanto tale. L’arte basata sulle nuove tecnologie delle reti neurali può quindi stimolare delle riconfigurazioni critiche dell’agire creativo – e quindi potenziali destabilizzazioni dei paradigmi dominanti - e proporsi come pratica relazionale, decentrata e plurale, ripensandosi oltre la centralità e la supremazia del soggetto umano come autore singolare e proprietario. Non si tratta di espungere il soggetto umano, ma di ricalibrarlo in relazione alle ecologie multiagente di cui è parte.
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Zylinska, Joanna (2020), AI Art: Machine Visions and Warped Dreams. London: Open Humanities Press.
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