lunedì 27 luglio 2020

This person does not exist. Il fondo oscuro di una tecnologia moderna



Se fate clic su questo sito https://thispersondoesnotexist.com/ vi troverete di fronte a quello che, a prima vista, vi sembrerà un ritratto in tutto e per tutto.
Penserete dunque che si tratta dell'immagine di una persona che vive ed abita da qualche parte del mondo, una persona che un giorno è nata e ha vissuto una sua storia, che ha una famiglia e delle relazioni. Ma il nome del sito parla chiaro: this person does not exist.
Si tratta, infatti, di ritratti sintetici, molto credibili, elaborati da sistemi di machine-learning, algoritmi alquanto sofisticati che elaborano dati provenienti da archivi vastissimi formati da ritratti veri, milioni di ritratti che anche noi, ogni giorno, affidiamo ai social o ad applicazioni come Faceapp. E, via via, tali sistemi 'apprendono' il modo di sintetizzare e generare ritratti in maniera sempre più perfetta e credibile. 
Qual è la particolarità di questo sito?
Quella che ad ogni refresh della pagina si origina un ritratto unico, che non si ripeterà mai più (come irripetibili siamo noi esseri umani, che tuttavia - a differenza di questi ritratti - preesistiamo alla nostra immagine).
Pertanto, il ritratto che avete sotto i vostri occhi, lo vedete solo voi e nessun altro potrà mai vederlo, a meno che voi stessi non decidiate di salvarlo e condividerlo.
Le immagini offerte da questo sito, dunque, non sono preesistenti e non sono oggetto di condivisione. Non sono salvate in alcun supporto e i ritratti a cui date vita con il tasto del refresh non sono stati visualizzati da nessun altro, prima di voi. Voi ne siete gli evocatori, a guisa di quegli antichi sciamani che facevano apparire le immagini sulle superfici d'acqua, e gli unici destinatari.
Ma possiamo dire di più.
Queste immagini, che sembrano in tutto e per tutto delle fotografie, e come tali potrebbero essere fruite dalla nostra percezione, contravvengono al noema barthesiano: non sono originate dalla presenza, in un certo istante e in un certo spazio, di un oggetto davanti all'obiettivo della macchina.
Scriveva Barthes:

“La foto è letteralmente un’emanazione del referente. Da un corpo reale, che era là, sono partiti dei raggi che raggiungono me, che sono qui." 

E’ questo, secondo Barthes, il “noema” della fotografia, ciò che la differenzia dalla pittura e dal discorso verbale, e cioè il fatto che il referente non è la cosa facoltativamente reale, a cui rimanda un’immagine pittorica o un segno, «bensì la cosa necessariamente reale che è stata posta dinanzi all’obiettivo». Per quanto riguarda la fotografia, non si può “mai negare che la cosa è stata là”.

Queste immagini sintetiche, invece, non sono l'emanazione di alcun referente. Non sono, pertanto delle impronte; sembrerebbero più vicine alla pittura, anche se hanno l'aspetto di fotografie. Delle pitture iperrealistiche, insomma.
Tuttavia, come si diceva, le immagini offerte da questo sito non sono preesistenti: si creano all'istante, come risultato random tra gli infiniti calcoli possibili, e non sono ripetibili. Sono dunque un tipo di immagine sintetica molto particolare, sganciata da ogni a priori spazio-temporale della percezione. 
E' un'immagine che non pre-existe alla sua visibilità e fruizione. E' l'immagine in atto; l'immagine non come cosa ma come atto puro, in quanto non esiste al di fuori del gesto che la visualizza su uno schermo.
Paradossalmente questi ritratti sono più vicini alla performance che alla fotografia o alla pittura.
Ma, dobbiamo farcene una ragione, si tratta della performance di una macchina, non di un uomo.

Ogni tanto capita che si generi un ritratto con evidenti errori di sintesi, che opacizzano l'immagine, evidenziando la sua origine artificiale e producendo un effetto di straniamento.


D'altra parte si tratta di 'ritratti' che in realtà non sono altro che la sintesi di porzioni discrete di pixel estrapolate da un numero sterminato di fotografie (che tutti noi affidiamo alla rete), le quali vengono classificate, etichettate e processate. I risultati, pertanto, hanno un po' la valenza di ideal-tipi morfologici, che tracciano i contorni di una sorta di normalità antropologica. E che ci ricollegano alla volontà positivistica, mai sopita, di effettuare misurazioni antropometriche e di classificare le persone in base ai loro tratti esteriori, di stilare delle tassonomie che non vogliono solo inquadrare gli aspetti somatici, ma con questi anche quelli razziali, emotivi e perfino caratteriali.
Attenzione, dunque, ai volti sintetici creati dall'AI, dall'aspetto così pacifico e rassicurante. Hanno dentro una parte oscura, inquietante: provengono da una tecnologia che cataloga, classifica, processa e studia questi intervalli di valori per affinare una pratica di controllo sul volto e sul corpo delle persone. Un algoritmo “addestrato” a interpretare certi tratti visivi, certe espressioni del volto e ad etichettarli sì in maniera automatica e autonoma, ma in base a bias forniti dalla cultura e dall'estrazione sociale di colui che quegli algoritmi li ha compilati. 
Le classificazioni presuppongono sempre delle categorie stabilite da umani. I parametri attraverso cui i sistemi raccolgono ed etichettano le immagini rispecchiano, e dunque reificano, delle forme culturali e delle relazioni sociali.

Questi ritratti sintetici realizzati dal computer fanno venire in mente le Composite Photographs di Galton. L’antropologo britannico, inventore dell’eugenetica, porta avanti dal 1877 il tentativo di elaborare le fisionomie di modelli antropologici tipo, derivati da studi statistici. A tal fine espone più ritratti individuali su una stessa lastra fotografica, in modo tale che il volto che viene fuori non è un individuo reale ma una sintesi di molti, la visualizzazione di un ideal tipo, di un modello antropologico ("L'ebreo", “L’inglese”, "Il criminale", “Il tisico”, “L’ufficiale” “Il grande uomo”). I composite portraits hanno lo scopo di permettere di cogliere i tratti comuni, cioè i particolari dei diversi visi che restano ancora nitidi al termine delle sovrapposizioni. Il suo scopo è di cogliere nell’individuo non ciò che lo rende unico, ma ciò che è ricorrente. Se Bertillon disaggregava le classi per arrivare al singolo, Galton riaggrega gli individui, dissolvendone l’identità negli insiemi, cercando, nelle sovrapposizioni, le configurazioni tipiche e le costanti visive, una sorta di minimo comun denominatore visuale del tipo studiato, una statistica in forma di ritratto.
I ritratti compositi di Galton seguono filtri diversi: la razza, la nazione, la classe sociale, il mestiere, la malattia, il comportamento deviante, l’appartenenza a un gruppo o famiglia. Tramite le sovrapposizioni, egli cerca di trovare un profilo grafico a questi tipi sociali. Ciò che Galton cerca di fotografare, pertanto, non sono individui, ma idee, astrazioni, classi logiche. E tuttavia, i suoi ritratti compositi non sono altro che insiemi di ritratti individuali, cioè di impronte uniche. Per la sua natura di indice, la foto è sempre un enunciato iconico particolare e contingente e infatti ogni ritratto singolo che Galton si ritrova tra le mani mantiene ben viva l’individualità del soggetto fotografato, che ostacola il tentativo di giungere al tipo ideale. Occorre liberarsi del soggetto per giungere all’oggetto. La soluzione di Galton è quella di sovrapporre più individualità, più impronte, per ottenere una figura "media" ed escludere le eccedenze particolari. I metaritratti che vengono fuori sono fotografie di fotografie, dove i ritratti di partenza non sono messi a confronto su una linea orizzontale, ma appiattiti letteralmente l’uno sull’altro, condensati in un’unica immagine simultanea che fonde e fa scomparire ogni differenza, ogni residuo di identità personale. L’individuo che ci guarda dalla carta stampata non è altro che un’entità multistrato, la forma umana di un individuo astratto, un fantasma, un pensiero invisibile, l’equivalente iconico di un dato statistico.

L'equivalente iconico di un dato statistico: i ritratti sintetici di persone inesistenti, dopotutto, sono anche questo. Sono dei ritratti che si collocano in zone di medialità, di tipicità, anche se spesso in essi irrompe ancora l'anomalia, l'errore di sintesi che mette in crisi la loro normalità statistica. 
E in quelle statistiche potremmo esserci anche noi, potrebbe esserci la nostra immagine come parte del feed che ha contribuito all'apprendimento e all'immagazzinamento dati. Paradossalmente, se un giorno tutti i nostri volti saranno schedati e sottoposti a controllo e sorveglianza tramite sofisticate e diffuse macchine di riconoscimento facciale, queste immagini saranno gli unici simil ritratti a sfuggire a ogni controllo, perché non associati a nessuna persona realmente esistente e giuridicamente attiva e individuabile. 

Queste immagini derivano da fotografie ma non sono fotografie, sebbene sono da esse indistinguibili e possono comportarsi come tali. E sicuramente impongono un aggiornamento radicale dei discorsi intorno all'immagine fotografica. Perché ci troviamo di fronte a immagini diverse, che non rispecchiano e non mediano un mondo già dato, che è lì di fronte a noi, ma ne creano uno nuovo, che tuttavia conserva dei legami impliciti, oscuri, con quello originale. 




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