mercoledì 19 giugno 2019

Leonor Fini. L’enigma della metamorfosi


Anche Leonor Fini, nata a Buenos Aires da madre italiana e padre argentino ma cresciuta a Trieste, fa parte delle artiste che gravitano intorno al Surrealismo, sebbene lontane dal centro e con uno stile del tutto personale e autonomo. Nelle sue tele vivono figure femminili enigmatiche e misteriose, dal volto incantatorio, che sembrano in possesso di segreti oscuri. I loro poteri si manifestano nelle metamorfosi dei corpi; la donna di Fini è soprattutto la sfinge, dallo sguardo ipnotico, emblema dell’enigma e del passaggio. Anche nella pittura di questa artista, come in quella di Carrington e Varo, la donna è colei che possiede il segreto del ciclo della vita e della morte, un ciclo in cui tutto partecipa della stessa energia vitale, che è unica e riconduce a sintesi suprema tutte le opposizioni, come quella tra organico e inorganico, generazione e distruzione.



A questo link trovate un bel saggio di Silvia Mazzucchelli: http://cav.unibg.it/elephant_castle/web/saggi/leonor-fini-l-incanto-dell-ambiguita/133

Leonor Fini, Petit Sphinx gardien, 1943-44


Nei suoi dipinti, come mette in luce il saggio citato, le figure sono caratterizzate dalla ripetitività del volto, che ricorre identico, e dalla varietà delle maschere e dei travestimenti che danno l’idea di un corpo in perenne metamorfosi: guardiane, dee, sacerdotesse, streghe, figure della soglia, di un luogo di confine che conduce verso altre dimensioni. Corpo che incarna il dualismo di vita e morte, che offre alla pulsione scopica il proprio interno, mostrando le ossa dello scheletro normalmente invisibili.




Oltre alla sua pittura, interessante è anche la storia di colei che in Francia viene chiamata l’Italienne de Paris, Lolò, la donna gatto, che ne fa un personaggio enigmatico, uno di quelli che popolano i suoi quadri. Lo possiamo notare dai numerosi ritratti che le scattano tra i fotografi più famosi del Novecento: Lee Miller, Henri Cartier-Bresson, Dora Maar, e poi Veno Pilon, André Ostier, Eddy Brofferio, Richard Overstreet.
Se la figura che emerge dal ritratto di Lee Miller è quella di una donna assorta e determinata, i nudi di Cartier-Bresson ci restituiscono invece un corpo immerso nell’acqua, seducente e bellissimo ma privo di testa e la cui perfezione ed esposizione ci ricordano quello di una bambola. Dora Maar coglie invece una donna dalla bellezza provocante e sicura di sé, che ci guarda ammiccante mentre stringe tra le gambe un gatto nero – il suo alter ego, mentre André Ostier ed Eddy Brofferio preferiscono elaborare il tema della maschera, del travestimento, della figura ibrida, come quella dei personaggi che animano i quadri dell’artista. In queste fotografie, Leonor Fini ha il corpo avvolto da ampi mantelli plissettati, piume, drappi e indossa sontuosi copricapo con fiori e piumaggi, un travestimento che fonde insieme l’elemento artificiale con quello naturale.

Lee Miller, Leonor Fini, Saint Martin-D’Ardèche, 1939, Parigi, Archivio Leonor Fini

Leonor Fini, Paris, 1936, photography by Dora Maar


Leonor Fini, Trieste, 1933, photography by Henri Cartier-Bresson

La figura della Fini, in queste fotografie, incarna la manifestazione dell’ambiguità, della perenne metamorfosi, della trasformazione nella materia che la avvolge. A questo proposito, riporto un brano del saggio della Mazzucchelli che analizza una fotografia del 1932, scattata alla Fini da Cartier-Bresson, che la ritrae vestita di nero accanto a un manichino calvo e nudo, molto simile ad alcune delle figure che popolano i suoi quadri. Il dato interessante è che questa immagine è ben lontana dalla filosofia dell’istante decisivo, cara a Cartier-Bresson, ma è il frutto di una messa in scena,
«in cui vengono generate identità diverse, per cui il medium fotografico, scrive Fabiola Naldi, consente di “addentrarsi nei meandri della finzione e della simulazione, intesi non più come pallidi riflessi dell’autentico ma come veri testimoni del reale” (2003: 11). “Quando ero bambina, detestavo farmi fotografare”, ricorda Leonor, “poi poco a poco, ho trovato interessante avere un viso […]. Da allora mi hanno sempre fotografata: mascherata, travestita, quotidiana. Ma non amo le istantanee, niente è più falso del “naturale” fissato. È la “posa” che è rivelatrice, e io sono curiosa e divertita a vedere la mia molteplicità” (Fini: 32). […] Così accade per i suoi travestimenti in bilico tra umano e vegetale nelle fotografie di Richard Overstreet, Eddy Brofferio e Enrico Colombotto Rosso. Confusa tra foglie e arbusti, o ricoperta di spighe e fiori, sembra che Leonor consideri il paesaggio come un luogo magico, oltre il tempo e lo spazio, terreno dove mettere in scena la propria consapevole mimetizzazione organica. “Travestirsi, è lo strumento per avere la sensazione di cambiare di dimensione, di specie e di spazio”, scrive nel suo Livre, “È potersi sentire gigantesco, immergersi nei vegetali, divenire animale, fino ad arrivare a sentirsi invulnerabile e fuori dal tempo, ritrovarsi oscuramente in rituali dimenticati” (Fini 1975: 41). E ancora: “Mascherarsi, travestirsi, è un atto di creatività […]. È una – o molteplici – rappresentazione di sé, è l’esteriorizzazione in eccesso dei fantasmi che si portano in sé, è un’espressione creatrice allo stato bruto” (Fini 1975: 41).»
Eddy Brofferio, Leonor Fini a Nonza (Corsica), 1965, Parigi, Archivio Leonor Fini
 

E la fotografia, per sua natura, si presta in modo sorprendente a mettere in scena la rappresentazione di sé, a fissare la fugacità di un travestimento trasformandolo in icona, in immagine mediatica che crea un personaggio. Il mezzo fotografico, nonostante la, o grazie alla, sua “maledizione” che immobilizza il divenire e blocca il tempo, riesce a dare l’immagine credibile di una metamorfosi, cioè di forme che mutano e assumono forme diverse.

A questo link, una rassegna di ritratti di Leonor Fini:
http://www.leonor-fini.com/en/biography/photographies/


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