domenica 2 giugno 2019

Le metamorfosi del corpo surrealista

Paul Delvaux, L'aurora, 1937

L’arte del ventesimo secolo ha espresso in vari modi il disincanto del corpo, che è fondamentalmente una crisi dell'Umanesimo. Il primo ventennio porta con sé l’immane tragedia della prima guerra mondiale e una ristrutturazione dell’assetto sociale dai risvolti drammatici; in campo filosofico e scientifico si assiste a un ripensamento radicale del dualismo soggetto-oggetto di matrice cartesiana mentre la nascita della psicanalisi mette in crisi il principio dell’unità del soggetto, dissolvendola in una molteplicità di istanze consce e inconsce. Anche l’arte, minando i codici figurativi tradizionali, aggredisce la tradizionale rappresentazione della figura umana, restituendone un'immagine dislocata, geometrica, distorta, sfigurata, ben lontana dall’ideale winchelmanniano di “nobile semplicità e pacata grandezza”.

Il Surrealismo trae ispirazione dalla Metafisica di de Chirico e dal Dadaismo di Duchamp, attingendo all’universo del pre-cosciente, del sogno, del mito, delle libere associazioni. La mutazione, la metamorfosi, il paradosso, diventano il “terrain vague” su cui lo sdoppiamento tra realtà e surrealtà può agire per far emergere le illimitate possibilità dell’inconscio. L’arte surrealista rappresenta soprattutto corpi ibridi, luoghi di metamorfosi tra uomo e animale o pianta, tra uomo e oggetto inanimato, tra uomo e creatura fantastica, dando vita al “mostro”, al corpo polimorfo, meraviglioso e terribile al tempo stesso, che crea nello spettatore uno shock psichico e visivo, conducendolo nel regno dell’inconscio. Ecco allora la Chimera di Max Ernst, i Minotauri di Picasso, le Metamorfosi di Mirò e di André Masson, i corpi ibridi di Magritte, il Narciso e le Veneri con i cassetti di Salvador Dalì.

Paul Delvaux, L'appel de la nuit, 1938

La metamorfosi compare anche nell'opera di Paul Delvaux. I suoi quadri, in cui lo spazio metafisico dechirichiano si compone con lo straniamento di Magritte, sono popolati da inquietanti figure femminili, immerse in mondi onirici e fuori dal tempo, spesso coinvolte in processi di metamorfosi vegetali. Così, ad esempio, nel suo dipinto “L’Aurora” dove, in uno spazio surreale, quattro enigmatiche figure sono poste a semicerchio intorno a un’ara classica. Esse hanno la testa e il busto di donna ma la parte inferiore del corpo è costituita dal tronco scabro di un albero, le cui radici penetrano nel suolo, imprigionando le figure e costringendole all’immobilità. Queste donne ci appaiono creature arcane, vestali che abitano un universo sospeso tra il sogno e la mitologia, icone dalla sensualità congelata nei grandi occhi spalancati e immoti.

La vestizione della sposa (1940), Venezia, Collezione Peggy Guggenheim

Mostri da incubo sono quelli che abitano l’opera più celebre di Max Ernst, La vestizione della sposa (La Toilette de la mariée, 1940), in cui predomina una figura mostruosa dal corpo nudo di donna e testa di uccello rapace dalle piume rosse come il fuoco. A sinistra si scorge un altro essere mostruoso di colore verde, con arti umani e testa di uccello, la cui mano destra stringe una grande freccia spezzata. A destra un’altra figura femminile con il corpo nudo e la chioma di capelli che si apre verso l’alto a ventaglio. In basso, a destra, sul pavimento notiamo un altro piccolo essere verde, con piedi palmati, genitali maschili, ventre gonfio e quattro mammelle.



 


Spesso i personaggi di Max Ernst, che appartengono quasi sempre a universi fantastici, sono figure femminili ibridate con animali. Le immagini, rese con molto realismo, risultano caratterizzate da una verosimiglianza che spiazza maggiormente l’occhio dell’osservatore. La sua Chimera (1928) occupa un posto centrale nel fantastico bestiario dei surrealisti. Il mostro, che emerge dall’oscurità della notte, è anch’esso un ibrido di donna e uccello, tema particolarmente caro all’artista, che aveva come alter ego il Loplop, definito “Uccello Superiore”.


Anche l’arte di André Masson è permeata dal principio della mutazione delle forme, che sono spesso cruente metafore erotiche, come il dipinto “Metamorfosi degli amanti”, in cui il tema dell’estasi erotica si fa violento e raccapricciante: corpi, piante, conchiglie si fondono insieme, formando un viluppo rigoglioso e perverso di vita e distruzione. Due figure, probabilmente un uomo e una donna, impegnate nel duello erotico, avvinte dal desiderio primordiale e dalla brama di possesso, si trasformano, rigenerandosi in forme primarie. Dalle loro carni lacerate si originano nuovi germogli e nuova vita, attuando il perenne ciclo naturale, dalla germinazione alla divorazione. Il tutto è racchiuso in un ambiente caldo, animato da colori violenti e contrastanti, dove il bianco della purezza confligge con il rosso orgiastico della passione. Così Masson associa l'unione carnale alla fusione dei regni di natura, animale, vegetale e minerale, senza alcuna distinzione, dove ogni forma si tramuta in un’altra, in un eterno conflitto e ricomposizione, dove esplode la paradossale esuberanza distruttrice della vita.

André Masson, La metamorfosi degli Amanti

Segnato pesantemente dai traumi della guerra, compresa una pallottola presa in pieno petto, tormentato dall’insonnia e dagli incubi, per Masson la vita e la morte sono come due facce della stessa medaglia. Eros e Tanatos, violenza erotica e morte, metamorfosi e caos, tormento ed estasi: tutto, nell’opera di questo artista, si fonde insieme all’interno di un immaginario sconvolto e allucinato, fatto di follia, erotismo e perversione. E per esprimere il proprio inconscio sulla tela, per liberarsi dal controllo razionale e dipingere in una condizione ridotta di coscienza, spesso Masson sceglie di dipingere sotto l'influenza di droghe o sottoponendosi a lunghi periodi di digiuno o di deprivazione dal sonno.

André Masson, Metamorfosi di Gradiva

“Metamorfosi di Gradiva” riprende il tema del romanzo di Jensen (che verrà analizzato da Freud e avrà grande fortuna presso i surrealisti), in cui il giovane protagonista è ossessionato dalla figura di donna di un bassorilievo romano che, nei suoi sogni, si trasforma in una creatura in carne e ossa. Anche qui si declina il tema, caro a Masson, dell’unione di creazione e distruzione. Il dipinto raffigura il momento della metamorfosi di Gradiva, mentre in fondo intravediamo il Vesuvio in eruzione. Mostra, infatti, una donna, metà carne e metà marmo, con le braccia e le gambe separate, accovacciata su un piedistallo di marmo la cui base si sta sgretolando. Parti del corpo femminile sono state smontate e ricostruite simbolicamente. Così i genitali femminili sono stati staccati dal corpo e rappresentati nella forma di una grande conchiglia (motivo ricorrente nella pittura dell’artista), che ricorda la vagina dentata, una nozione creata da Freud e che tematizza l'ansia di castrazione dell'uomo. Gradiva è una figura che oscilla tra carne e pietra, tra la vita e la morte e, come il mito di Galatea, si impone come una figura che incarna il mito della creazione stessa.

André masson, Pigmalione, 1938

André Masson, Goethe e la metamorfosi delle piante, 1940.


Per i surrealisti la realtà ha uno statuto plurimo, sfuggente e inafferrabile, in cui la materia è soggetta ad una perenne metamorfosi, dove le forme mutano costantemente le une nelle altre oppure si nascondono sotto altre spoglie. Anche l’uomo è coinvolto in questa universale trasmutazione, nell'enigma dell'incessante divenire, nel turbamento della materia metamorfica che abita i recessi inconsci della nostra psiche, dove non valgono le leggi della logica tradizionale, basate sui principi di identità e di non contraddizione, ma dove tutto è contemporaneamente anche altro da sé.
Il nascondimento e la mimetizzazione delle forme naturali, il loro incessante trapasso l'una nell'altra è anche il tema dell’arte di Salvador Dalì, il quale, tra il 1936 e il 1937, dipinge la Metamorfosi di Narciso, quadro ricchissimo di simboli e suggestioni visive, che impiega il metodo “paranoico- critico” elaborato dall’artista, ossia la ricreazione del delirio onirico in modo oggettivo e sistematico.

Salvador Dalì, Metamorfosi di Narciso, 1937.

Dalì ci mostra la trasformazione del personaggio del mito, raccontato da Ovidio, partendo da sinistra verso destra. Inizialmente, il giovane ci viene presentato ripiegato su se stesso , con la testa posata sul ginocchio in una posizione malinconica, perché la mano immersa nello specchio d’acqua cerca invano di afferrare la sua immagine riflessa. A seguire la metamorfosi: il giovane diviene la sagoma di una mano pietrificata, che regge un uovo crepato da cui fuoriesce il fiore del narciso. Secondo le dichiarazioni dell’artista catalano, guardando l’opera alla giusta distanza e per il giusto tempo, la figura a sinistra scompare alla vista, lasciando vedere solo la figura di destra, che mostra la trasformazione di Narciso da uomo in oggetto di pietra, insidiato dalle formiche.
Il quadro è nettamente diviso in due, riproponendo la drammatica frattura che caratterizza l’essere umano quale emerge dalla psicanalisi freudiana, diviso tra istanze plurime, consce e inconsce, e che mette in crisi tutte le visioni razionaliste fondate sulla centralità dell'Io come garante della coscienza. Da notare come la linea orizzontale che nella immagine di sinistra traccia il confine tra il corpo di Narciso e il suo riflesso, nell’immagine di destra diventi una linea di frattura alla base delle dita, una crepa che annuncia l’imminente crollo di quella scultura che rappresenta la reificazione dell’Io, quell’Io che si è chiuso in se stesso, rinunciando a dirigere verso il mondo esterno, cioè verso l’Altro, quelle pulsioni erotiche che consentirebbero il perpetuarsi in vita del soggetto.

S. Dalì, Venere di Milo con cassetti, 1936.

Il tema della metamorfosi è il centro di gravitazione dell'opera del genio catalano. Ogni oggetto che viene investito dalla sua arte viene trasformato in qualcosa di altro da sé. Persino le icone immortali della tradizione, come la Venere di Milo, emblema della perfezione del corpo apollineo. La sua versione della statua è forse una delle citazioni dell’arte classica più sconcertanti. L’opera, del 1936, è formata da un calco in bronzo ricoperto in gesso, riproducente su scala dimensionale ridotta il capolavoro della statuaria ellenistica del II secolo a.C. conservato al Louvre di Parigi. La versione daliniana è però arricchita da una variazione inquietante: nel corpo della statua, in corrispondenza di alcune parti anatomiche, sono inseriti dei cassetti apribili, chiari simboli dei luoghi reconditi del nostro inconscio, in cui si nascondono paure, traumi, tabù.
La figura della dea, emblema iconico della bellezza, viene così trasformata in un oggetto, un mobile con cassetti. Ma questo spostamento di significato sembra suggerire un’implicazione profonda: la ricerca del bello, che ha attraversato tutta la storia dell’arte, ci restituiva solo un’apparenza, una forma vuota. Ora l’arte ha bisogno di esplorare l’interno, i territori dell’inconscio, andando oltre l’esteriorità del corpo
Il tema della donna a cassetti viene affrontato dall’artista in numerosi quadri e disegni: sia la figura femminile in primo piano ne La giraffa in fiamme, che quella a terra ne Il mobile antropomorfico, entrambi del 1936, hanno anch’esse dei cassetti che stravolgono lo schema razionale, unitario e chiuso, del corpo umano. Al contrario della Venere di Milo, qui si tratta di due immagini fortemente drammatiche, in cui il contenuto oscuro dei cassetti crea alle figure un pericoloso squilibrio. Nel primo caso, a nulla valgono le stampelle (tema iconografico ricorrente) che dovrebbero fungere da sostegno. La donna è senza volto e, nonostante la posa aggraziata ispirata a quella delle mannequin dell’alta moda, genera nell’osservatore una sensazione di ansia e inquietudine. La stessa provocata dall’altra opera, Il Mobile Antropomorfico, in cui vediamo una donna il cui busto è interamente squarciato da numerosi cassetti aperti, drammatica visualizzazione dell’emersione irrefrenabile dell’inconscio.

Salvador Dalì, Giraffa in fiamme, 1936-37.

Salvador Dalì, Il mobile antropomorfico, 1936.


L’ibridazione uomo-animale è un tema molto frequentato dall’arte surrealista. Gli artisti di questo movimento di avanguardia rigettano il carattere metaforico tradizionale della rappresentazione animale, dando vita a un bestiario interiore, onirico, corroborato dall’evoluzionismo darwiniano basato sulla contiguità tra specie animali diverse, in opposizione alla rigida tassonomia di Linneo in cui ogni specie è autonoma e non parte, insieme alle altre, di un divenire organico unico. L’animale, il bestiale, fa parte dell’uomo, è dentro di lui, emerge nei sogni e assedia il mondo della ragione e della civiltà. Questo sembra anche il risvolto profondo della figura picassiana del Minotauro, che si ricollega in particolare al periodo surrealista dell’artista. Lui stesso si rappresentava e percepiva come quella figura mitologica, ibrido tra uomo e toro, tra razionalità e istinto, archetipo della doppia natura dell’essere umano, sempre teso a dominare gli istinti brutali per affermare il proprio raziocinio.

Pablo Picasso, Minotauromachia, 1935

Pablo Picasso, Minotaure et jument morte devant une grotte face a une jeune fille au voile, 1936.

Il toro della tauromachia è un simbolo di lotta ed espiazione, della forza del mostro e della sua vulnerabilità, vittima sacrificale ed al contempo potenza distruttrice. La tauromachia è una cerimonia che riconduce all’eterno conflitto tra vita e morte, mettendo in scena la danza passionale che conduce alla tragedia.
L’accostamento tra uomo e animale è uno dei temi fondamentali dell’opera pittorica (e letteraria) di Alberto Savinio (fratello di Giorgio de Chirico), come mostra la sua predilezione per rappresentazioni ibride (gli uomini con testa d’animale). Ma queste immagini escludono qualunque sfumatura caricaturale o fabulistica o ironica. La presenza animale veicola, più che altro, delle verità psicologiche. Lo stesso Savinio scrive: “E io pure, come tu sai, disegno e dipingo uomini e donne con teste di animali ; nei quali gli uomini del comune vedono delle caricature, perché non sanno quello che sappiamo noi, che in queste forme apparentemente ibride […], è l’espressione del carattere umano più profondo e sacro.”

A. Savinio, En visite, 1930.

Molto originale è la sua “Annunciazione” dove compare una Madonna dal corpo umano e dalla testa di pellicano (tema iconografico ricorrente nella pittura di Savinio, che raffigura così anche la propria madre). Una credenza medievale, infatti, venerava questo animale, ritenuto in grado di lacerarsi le carni con il becco per dissetare i figli con il proprio sangue, facendone un simbolo del sacrificio di se stessi per gli altri. Nel dipinto, pertanto, questa iconografia diventa un potente emblema della maternità.

Savinio, Annunciazione, 1932.

Attraverso la raffigurazione animale, Savinio persegue la ricerca della verità più profonda dell’uomo, che in esso risiede nascosta. Per questo, Savinio considera queste figure dei ritratti veri e propri: “Perché il ritratto – il « vero » ritratto – è la rivelazione dell’uomo nascosto. Il quale ora è un gatto, ora un cervo, ora un maiale. Più di rado un leone. Ancor più di rado un’aquila. Spesso un animale senza vita ma ugualmente nocivo e mortifero, ossia una carogna.” Le figure umane con teste bestiali non sarebbero altro che «la ricerca del carattere, di là dagli eufemismi della natura, di là dalle correzioni della civiltà, di là dagli abbellimenti dell’arte»; la presenza animale sarebbe dunque lo sciamano che evoca ciò che è dentro di noi, traendolo dall’oscurità profonda della nostra psiche e dai sedimenti della cultura.





Alberto Savinio, I genitori, 1931.


Alberto Savinio, Niobe.


Queste figure ibride  incarnano letteralmente l’empatia tra uomo e animale come sovente è stata rappresentata nel Novecento, in Kafka per esempio, ovvero come empatia dell’uomo con la propria materia psichica e opacità interiore. La vocazione “animista” dell’arte di Savinio porta a estreme conseguenze il dinamismo del modello evoluzionista darwiniano; gli uomini con testa di animale fanno parte di un processo di metamorfosi, all’interno del quale sfumano i confini tra specie come le separazioni tra animato e inanimato, organico e inorganico.

Il corpo umano ha ormai perduto la sua unità organica e la sua integrità metafisica, divenendo uno strumento concettuale, un artificio, un’immagine mentale, un oggetto tra oggetti. Tutta l’arte moderna, liberata dall’obbligo della verosimiglianza con il reale, rivoluziona il nostro rapporto con la figura umana introducendo un’estetica della distanziazione dal corpo reale. La sua metamorfosi, la sua ibridazione con animali, piante, oggetti, materia organica e inorganica, fa parte di questo processo di reificazione, che sottomette il corpo a tutte le derive plastiche dell'oggetto e a tutte le fantasie dell’immaginario.

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