lunedì 29 aprile 2019

Le “femme fatale” della Belle Époque

Franz Von Stuck, Il Peccato- Neue Pinakothek, Munich.

La cultura estetica di fine Ottocento enfatizza il mito delle femme fatale, che dalle liriche di Baudelaire approda ai romanzi decadenti, al teatro, alle correnti artistiche a cavallo tra i due secoli fino al cinema muto.
La storia è attraversata da figure di donne ambigue, seduttrici e pericolose: Eva, Lilith, Salomé, Jezebel, Dalila della Bibbia, la Maga Circe, Medea, Clitennestra, Elena di Troia dell’antica mitologia greca, Cleopatra e Messalina, la fata Morgana, la maga Alcina e Armida della letteratura epico-cavalleresca Rinascimentale, solo per citare gli archetipi leggendari più noti.
La femme fatale, tuttavia, conosce la sua celebrazione in particolare nell'arte e nella letteratura dell’epoca tra Otto e Novecento. Si tratta, infatti, di una costruzione culturale, che riflette i cambiamenti di quel periodo, passato alla storia con l’espressione di Belle Époque, i cui termini sono convenzionalmente fissati tra il 1871 e gli anni subito precedenti la Prima guerra mondiale, periodo caratterizzato da un significativo cambiamento del ruolo delle donne nella società, che avevano conquistato una maggiore indipendenza e consapevolezza del proprio status.


Fernand Khnopff, Le carezze.

La dissoluzione del sistema patriarcale, operata dalla rivoluzione industriale, aveva offerto alle donne la possibilità di emanciparsi e liberarsi dal tradizionale modello femminile, concepito dall’immaginario maschile. Ne è un esempio “Casa di bambola” del 1897 di Ibsen, che racconta la storia di una donna che abbandona i figli e il marito, avendo preso coscienza di se stessa e ribellandosi perciò alla propria condizione di bambola priva di volontà, sottoposta all’autorità del marito e delle convenzioni sociali.
Il venire alla luce di questa nuova donna, più autonoma e forte, che ha maggior accesso all’istruzione e ai ruoli pubblici e che comincia a reclamare il suo diritto all’emancipazione (risalgono a questo periodo i primi movimenti femministi), cioè a essere non solo madre, moglie e angelo del focolare, contribuisce a minare ulteriormente le certezze dell’universo maschile, già messe a dura prova dalle profonde trasformazioni della società industriale.
Non più sottomessa all'uomo, ma capace di operare le proprie scelte e divenuta meno accessibile e gestibile dall’altro sesso, la donna assume, nell’immaginario maschile, le sembianze di un essere inquietante e peccaminoso, desiderato, ma allo stesso tempo misterioso e pericoloso, modellato su basi che inchiodano la donna a ruoli e ad archetipi rigidi e contrapposti.

La donna, in sostanza, è uno dei soggetti privilegiati della Belle Époque, e anche quando viene  rappresentata in modo elegante e luminoso come è proprio dello stile Liberty, viene ricondotta al suo essere corporeo, appartenente al mondo istintivo della natura, alle sue forze oscure o vitalistiche, mentre l'uomo occupa la sfera cerebrale della cultura.

Aubrey Beardsley - Illustrazioni per la Salomé di Oscar Wilde

Negli stessi anni, Freud, nei suoi scritti, si riferiva ai miti della letteratura greca con le sue figure di femmine castratrici e vendicatrici, da Clitennestra a Medea, da Atena a Circe. Nel 1896, al Teatro dell’Oeuvre di Parigi, viene rappresentata la “Salomè” di Oscar Wilde, il cui testo viene pubblicato arricchito dalle illustrazioni di Aubrey Beardsley. In esse, Salomè è raffigurata come una donna esotica e sanguinaria, seducente e crudele. Salomè, presentata come la crudele vergine danzante che esige la testa del Battista per soddisfare la propria personale depravazione, incarna nel modo più radicale la figura di donna fatale, il mito di un eros ambiguo e perverso, quintessenza degli umori decadenti fin-de-siècle.
Nel 1909 Richard Strauss mette in scena la Clitemnestra (tratta dall’Elettra di Sofocle), in cui la protagonista sposa Agamennone, l’assassino del primo marito, e in seguito ordisce l’uccisione dello sposo, per il rancore dovuto alla gelosia e al sentimento materno.

Gustave Moreau, Salomè, 1876.

Tipica rappresentazione della femme fatale è il personaggio di Salomè. Del 1876 è “L’apparizione” del simbolista Gustave Moreau, noto come il “pittore delle Salomè”, che rappresenta il personaggio biblico nel suo aspetto perverso e crudele, delineando già quell'intreccio letale tra eros e thanatos che sarà poi distintivo di tutte le “femmes damnées” che avranno grande risonanza nell’arte successiva.
Nell’ultimo decennio del secolo vengono alla luce alcune opere di Edvard Munch, come “La donna vampiro” del 1893, in cui il soggetto femminile è presentato come demone predatore che succhia il sangue dell’uomo soggiogato dal suo potere di seduzione, e la sacrilega “Madonna” (1984-95) in cui la Madre di Cristo è raffigurata seminuda, inquadrata dal basso, mentre si offre conturbante e sensuale allo sguardo dello spettatore.

Edvard Munch, Il vampiro, Madonna (1894-95)

E’ soprattutto l’Art Nouveau (movimento artistico che in Germania prende il nome di «Jugendstil», in Spagna «Modernismo», in Italia «Liberty», in Austria «Secessione») che elabora queste figure di donne fatali, lasciandoci vere e proprie icone immortali. La Belle Époque respira un clima generale di ottimismo, favorito dal progresso tecnologico e industriale. Tuttavia tensione e oscurità covano sotto lo splendore dei fregi dorati; i più sensibili sentono i prodromi del disfacimento di quel mondo alla moda. Gli artisti leggono “Così parlo Zarathustra” di Nietzsche, il romanzo “A rebours” di Huysmans e ascoltano il “Parsifal” di Wagner. Freud scopre l’inconscio, cioè il lato oscuro della vita umana e proprio l’inconscio, la sensualità e l’eros, il sogno e il mistero della natura sono i grandi temi dell’Art Nouveau.
Durante il periodo della Secessione, gli artisti sono ossessionati dalla figura della “femme fatale”, figura ambigua, infida e letale per il maschio proprio in virtù del suo potere di seduzione. La donna è vista soprattutto come un corpo, da cui sgorga un piacere proibito che può condurre alla perdizione, alla perdita di se stessi; ella è spietata e dominatrice ma anche seducente e irresistibile.


Franz von Stuck

Franz von Stuck, fondatore della Secessione di Monaco, eredita dal clima morboso e decadente del Simbolismo francese i temi dell’erotismo torbido e dissoluto. Il suo capolavoro, “Il peccato”, realizzato in otto diverse versioni, ci mostra la figura di Eva, nuda, immersa in un nero profondo e avvolta dall’enorme serpente che cinge il suo corpo latteo. Il suo sguardo diabolico si rivolge allo spettatore, per ammaliarlo e condurlo alla perdizione. Oltre ad Eva, il mondo pittorico di von Stuck è popolato da altre figure femminili fatali: la Medusa e la Sfinge, Giuditta e Salomè sono ritratte nel loro aspetto più oscuro e perverso.

Félicien Rops

Intorno al tema della donna diabolica ruota anche l’arte estremamente trasgressiva del belga Félicien Rops, molto apprezzato dagli scrittori e poeti del Decadentismo francese, in particolare da Baudelaire, e i cui disegni, dall’erotismo spinto, mescolano sesso, morte, follia e incubi satanici.
Raffinatissimo esponente dell’Art Nouveau francese è il parigino Georges De Feure, artista eclettico, le cui donne fatali, perverse e viziose, ricalcano gli archetipi dell’eterno femminino presenti ne Le fleurs du mal, e sono rappresentate con lo sguardo freddo e sicuro di sé, spesso nell’atto di fumare.

Georges De Feure

La donna è anche il soggetto principale di artisti come Alphonse Mucha, i cui manifesti di donne disinvolte e avvenenti, con corpi flessuosi, abiti svolazzanti e sguardi ammalianti, erano tanto diffusi da diventare popolari, inconfondibili, nel clima sfavillante della Belle Époque. Celebre la sua pubblicità per le cartine di sigarette Job, una delle prime che utilizza il corpo della donna e l’erotismo per scopi pubblicitari: una donna voluttuosa, dallo sguardo languido e dalle labbra socchiuse, regge in mano una sigaretta accesa.

Alphonse Mucha, Manifesto per le cartine delle sigarette Job.

Alphonse Mucha

La figura femminile è sicuramente il soggetto più presente nella pittura di Klimt; essa è la personificazione dell’eros, inteso come amore e morte, salvezza e perdizione.
Nelle sue tele, la donna è sicura di se stessa e del potere che ha sull’uomo; conscia del fatto che è tramite esso che si rinnova in eterno la vita nell’universo.
La sua Giuditta ha appena compiuto il suo delitto e tiene tra le mani, appena visibile, la testa di Oloferne. Ha gli occhi e la bocca socchiusi in un’espressione di torbida voluttà e colma di piacere, quasi godesse del macabro trofeo che tiene tra le mani.

Gustav Klimt, Giuditta (1901), Giuditta II (1909)

Nell’altra versione, conosciuta anche come “Giuditta II” o “Salomè”, Giuditta ha il seno nudo, i capelli sciolti e si sporge in avanti e con le mani ad artiglio trattiene la testa di Oloferne per i capelli. Ancora eros e thanatos, il sesso e la morte, sono indissolubilmente intrecciati. Giuditta II, tuttavia, non ci guarda spavalda e provocante, consapevole del proprio fascino e del potere che esso ha sull’uomo come faceva la Giuditta della prima versione, ma evita il nostro sguardo e fissa un punto lontano come persa nei propri pensieri. Siamo nel 1909, alle soglie del grande disastro della guerra, alla vigilia della dissoluzione di quel mondo dorato e seducente che ha fatto della donna la sua eroina di fascino e perdizione.

Pesci argento (Sirene), ca. 1899, Gustav Klimt, Albertina.

1 commento:

  1. Mi sono approcciata da poco a l'arte,ma trovo interessanti le sue esposizioni,grazie

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