mercoledì 10 aprile 2019

Il nudo accademico e la sua messa in crisi

Antonio Canova, Amore e Psiche giacenti,1787-93, Louvre.

A partire dall’arte greca, la raffigurazione del corpo nudo è tra i soggetti principali della cultura visiva occidentale. Il nudo è la forma privilegiata per esprimere l’idea del bello e riguarda prevalentemente le rappresentazioni di allegorie, di episodi celebrativi o mitologici. E’ così che appare per gran parte del XIX secolo, relegato a una idealizzazione storica del passato, secondo i dettami della morale borghese.
In particolare, la copia del nudo dal vero costituisce la disciplina più importante tra quelle praticate nelle Accademie, fulcro di ogni apprendistato di chi volesse intraprendere la carriera artistica. Questo tipo di rappresentazione comprende un insieme di schemi stilistici e di stereotipi iconografici che si tramandano da secoli, improntati all’immagine del corpo idealizzata della tradizione classica.
Li elenca efficacemente Paolo Fabbri in questo brano:
“L’idealtipo del Nudo accademico (il suo Type) privilegia la fissità contro il processo (la posa più del movimento transitorio ed evolutivo); la sintesi statica più del processo regolativo; la distinzione e la discontinuità rispetto all’indistinto e il continuo (il contorno più dello sfumato); l’articolazione delle parti piuttosto che il corpo inarticolato; la concordanza delle membra piuttosto che la loro discordanza; una gerarchia somatica definita piuttosto che l’informe; la simmetria, esterna ed interna, più che l’asimmetria. Una gerarchia fissa degli involucri (pelle, velo, ornamento, veste) e una purificazione delle escrescenze sugli involucri (peli ed altre imperfezioni). Il Nudo prototipo è isolato nello spazio – fino a contenere la propria ombra – e sottratto al tempo, piuttosto che contestualizzato e inserito nella durata.” (l’intero articolo lo trovate qui: https://www.paolofabbri.it/nudo/)

Jacques-Louis David, Patroclo, 1780, Musée Thomas-Henry, Cherbourg-Octeville.

Si tratta, dunque, di un corpo immobile, ben contornato, articolato e armonico nelle parti, liberato di ogni impurità, isolato nello spazio e fuori dal tempo o, quantomeno, fuori dal tempo presente. L’idealizzazione spesso si ottiene ispirando la figura umana a un modello antico – l’Apollo del Belvedere, l’Ercole Farnese o le varie versioni della Venere ellenistica -, che ha la funzione di nobilitare e di legittimare, attraverso la citazione storica, la nudità. Ad accentuare il rimando al passato classico, spesso queste immagini vengono inserite in un contesto scenico che comprende ruderi, piedistalli, sfondi architettonici che evocano quell’epoca storica. Lo spazio e il tempo in cui sono collocati, pertanto, sono anch’essi ideali, lontani dalla contemporaneità.
Questa pratica accademica determina l’imporsi di un gusto e di un modo di concepire la rappresentazione del corpo umano che entra a far parte dell’immaginario non solo degli addetti ai lavori, ma anche della gente comune, sedimentandosi nella cultura dell’uomo occidentale come apparato morfologico imprescindibile e come modello ideale.

Jean Auguste Dominique Ingres, Studio di nudo maschile (1801). All'École nationale supérieure des beaux-arts.

Jean-Auguste-Dominique Ingres, La Grande Odalisca, 1814, Louvre.

Ma nella seconda metà dell’Ottocento accade qualcosa di dirompente, che provoca grande scalpore e scandalo nella società benpensante di allora. Appaiono alcuni dipinti di nudo che sconvolgono tali precetti. Si tratta del celebre Déjeuner sur l’herbe (1863) e dell’Olympia (1863), realizzati da Eduard Manet, e dell’Origine del mondo (1866) di Courbet. Non si tratta più di pittura allegorica ed accademica, ma di rappresentazioni di un nudo realistico, per nulla idealizzato, esibito all’interno di un contesto contemporaneo. Quelle raffigurate, infatti, non sono allegorie o divinità fuori dal tempo o eroine del passato, ma sono donne vere e proprie, che ostentano la propria nudità. Il dipinto di Courbet, poi, che introduce all’esplorazione quasi scientifica del corpo superando la censura degli organi sessuali femminili, è reso con un realismo quasi fotografico, che provoca all’opera il marchio di immagine pornografica.

Édouard Manet, Déjeuner sur l'herbe, 1863, Musée d'Orsay, Parigi. 

Fonte di grande clamore e scandalo presso il pubblico e la critica ad esso contemporanei, le Déjeuner sur l’herbe rappresenta uno dei simboli che incarnano la rivoluzione artistica del XIX secolo. Intitolato in un primo tempo Le Bain, il quadro fu respinto dalla giuria del Salon del 1863. Quell’anno, le opere rifiutate dall’esposizione ufficiale furono molto numerose; così, per contenere le proteste degli artisti, Napoleone III ordinò che i quadri respinti fossero esposti in alcune nuove sale del Palais de l’Industrie, sede del Salon. Nacque così il “Salon des Refusés”, di cui la grande tela di Manet divenne il principale motivo di attrazione, a causa delle polemiche suscitate dalla sua esposizione. I critici e il pubblico giudicarono l’opera volgare e oscena, non solo a causa del soggetto (la presenza di nudi femminili in compagnia di giovanotti borghesi), ma anche per la modernità dello stile cromatico e compositivo. La stessa corte imperiale dichiarò il quadro “un’offesa al pudore”. Questo episodio fu il primo atto d’una battaglia destinata a protrarsi per circa trent’anni. Manet divenne di colpo il pittore più noto in tutta Parigi, un rivoluzionario suo malgrado, in quanto non era certamente quella la celebrità cui aspirava.
La tela raffigura un gruppo di quattro persone in un bosco nei pressi di Argenteuil (un comune non lontano da Parigi), dove scorre la Senna. In primo piano vi è una donna completamente nuda, seduta su un panno azzurro, che, con una mano sotto il mento, guarda verso lo spettatore. I due giovanotti in sua compagnia sono invece completamente vestiti, con abiti borghesi alla moda del tempo. Più lontano, sullo sfondo, una donna in sottoveste sta facendo il bagno nelle acque di un ruscello. Le figure sono disposte a piramide, e spiccano per via dei nitidi contrasti cromatici con cui è composto il quadro.
Apparentemente nelle opere di Manet non c’è niente di rivoluzionario; anzi, molte sue opere rivelano con chiarezza l’impianto compositivo di matrice classica e il riferimento ai grandi maestri del passato (Tiziano, Raffaello, Goya, Ingres), studiati nei maggiori musei. Il tema iconografico della “conversazione” tra figure nude e vestite in un paesaggio era già stato svolto nel Concerto campestre (oggi attribuito per lo più a Tiziano, all’epoca ritenuto opera del Giorgione), mentre la composizione e le pose delle figure centrali si ispirano allo schema del gruppo di divinità fluviali presente nel Giudizio di Paride di Raffaello (conosciuto tramite alcune incisioni di Marcantonio Raimondi del 1520).
Il quadro del Tiziano aveva un preciso significato allegorico, ben integrato nella cultura aulica, neoplatonica, del Cinquecento. La scena mostrava due donne nude e due uomini vestiti nei costumi dell’epoca. La nudità delle donne le contraddistingueva come personaggi divini, probabilmente due muse, nell’atto di far dono agli uomini delle arti della poesia e della musica. Concerto campestre metteva sulla tela la summa della visione cinquecentesca, rappresentando un mondo ideale caratterizzato dall’equilibrio e dall’armonia degli opposti (umanità e divinità, esseri umani e natura, spirito e corpo), dove la nudità era emblema di virtù, di purezza, di unione con la natura. Il quadro di Manet non cela alcun significato allegorico. Il pittore francese sostituisce i personaggi del mito con uomini e donne del suo tempo; i nuovi dei sono dei gentiluomini borghesi vestiti alla moda e la donna in primo piano, i cui abiti moderni sono ammucchiati per terra e il cui sguardo si rivolge sfrontatamente allo spettatore, sembra più una prostituta che una dea o una ninfa.
Lo scandalo nasceva non dalla scelta del tema, ma dalla sua trasposizione in età moderna. Ciò che suscitava maggiormente indignazione non era solo lo sguardo licenzioso e la nudità della donna, resa con crudo realismo e ritenuta inspiegabile e inutile nel complesso della scena, ma soprattutto il fatto che quella nudità fosse stata maliziosamente collocata in un contesto contemporaneo. L’arte accademica era infarcita di nudi femminili, ma la nudità era sempre idealizzata e nobilitata dalle finalità celebrative o allegoriche delle opere e dall’ambientazione mitologica o storica delle stesse, molto lontana nel tempo e nello spazio.

Le Déjeuner sur l’herbe costituiva la prosaica rappresentazione di un’ineluttabile “perdita dell’innocenza”, dove la nudità, lungi dal richiamare alti e nobili ideali di purezza, si mostrava come una sfacciata provocazione alla morale e al decoro. Il formato di grandi dimensioni, tra l’altro, era tradizionalmente riservato alla pittura di storia, non a scene di genere come una colazione all’aperto. In pratica si rimproverava a Manet di aver sporcato e stravolto il linguaggio accademico della mitologia e delle allegorie e di aver sfacciatamente rappresentato delle comuni prostitute e altri personaggi perfettamente identificabili in rappresentanti dell’élite borghese parigina. E’ questa collocazione nella contemporaneità ciò che rendeva quella tela inverosimile e oscena agli occhi del pubblico francese. L’opera, priva di qualsiasi giustificazione metatestuale, appariva pertanto come una deliberata provocazione e un’offesa alla morale borghese.

Édouard Manet, Olympia, 1863, Musée d’Orsay, Paris.

A un altro quadro del Tiziano (la famosa “Venere di Urbino”) sembra ispirarsi anche l’altro quadro-scandalo di Manet, “Olympia”. Ma se la figura di Venere è casta e innocente e, accanto a lei il cane è un simbolo di fedeltà, lo sguardo di Olympia è invece freddo e disinibito e fissa lo spettatore con sfrontatezza, mentre un gatto nero ha preso il posto del fedele cagnolino. La donna ci guarda con espressione provocante e non sembra prestare alcuna attenzione ai fiori che le reca la cameriera. Anche qui si è rotta la convenzione di rappresentare il nudo femminile in un contesto lontano nel tempo. In questo dipinto, inoltre, la figura di donna è altamente individualizzata, il che contraddice il tradizionale obbligo all’idealizzazione.
La polemica provocata da quest’opera fu ancora più acuta di quella innescata da le Déjeuner. Lo spettatore borghese si sentiva disturbato dal quadro, in quanto osservato a sua volta e trasformato in un voyeur. La tela gli rinviava indietro un’immagine di sé che probabilmente non voleva accettare pubblicamente. Anche questo elemento spiega il perché vengano rinvenute nella pittura di Manet le origini dell’arte contemporanea.

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