Il film di Michelangelo Antonioni, Blow-up (1966), mette in scena il meccanismo della fotografia e dell'atto fotografico.
La storia sembra dipanarsi come un giallo, per poi implodere in implicazioni di tutt'altro tipo, di carattere soprattutto filosofico.
Thomas, egocentrico ed inquieto fotografo professionista della Swinging London anni Sessanta, scatta alcune fotografie a una coppia di amanti in un parco pubblico deserto. La donna se ne accorge e lo rincorre per farsi consegnare i negativi. Più tardi lo raggiunge addirittura nel suo studio fotografico, disposta ad offrirsi pur di riavere la pellicola.
Insospettito dal comportamento della donna, Thomas sviluppa, stampa e ingrandisce (con la tecnica del blow-up) le foto scattate nel parco e, mettendole in relazione le une con le altre, scorge tra la vegetazione una mano che impugna una pistola. Di notte, il fotografo ritorna nel parco e sotto un albero trova infatti il cadavere dell'uomo che aveva visto insieme alla donna. Tornato nel suo studio, scopre che i negativi e le stampe sono stati rubati. Il mattino successivo, Thomas ritorna nel parco, ma anche il cadavere è ormai scomparso. L'unica stampa che si è salvata dal furto è troppo sgranata dagli ingrandimenti per costituire una traccia valida.
Come scrive Ruggero Eugeni (Semiotica e fotografia, Documento di lavoro), il film sembra avverare un'affermazione di Benjamin, il quale, nel suo celebre L'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica, scriveva: “... non è forse vero che ogni punto delle nostre città è il luogo di un delitto? Che ogni passante è un delinquente? E il fotografo – successore degli auguri e degli aruspici -, con le sue immagini, non è forse chiamato a rivelare la colpa e indicare il colpevole?” Ogni punto di una città è pertanto la scena di un evento criminoso possibile. Compito del fotografo è quello di riprenderla per provarlo, perché la fotografia preleva una traccia, ritaglia un frammento, lo amplifica, lo rende visibile allo sguardo di tutti.
Blow-up è un film che mette in scena proprio il meccanismo della fotografia, soffermandosi in particolare sulle azioni legate allo sviluppo e all'ingrandimento delle foto, che occupano tutta la parte centrale della pellicola. Thomas sviluppa il rullino, stampa, esegue ingrandimenti sempre più approfonditi e li appende sulla parete del suo studio. Solo in questo modo si accorge di essere stato involontariamente testimone di un crimine. Ciò che i suoi occhi non hanno visto, la sua macchina ha registrato. E qui il fotografo subisce il suo primo smacco: lo sguardo rivolto all'immagine prelevata intravede più particolari di quelli che aveva colto il suo sguardo di operatore al momento dello scatto.
Nella prima parte del film il protagonista era stato presentato in una veste completamente diversa: come il fotografo che impone un rapporto di potere e di possesso nei confronti del soggetto che riprende e che ghermisce con la sua macchina, impugnata come un'arma di offesa. Mentre esegue degli shooting prima a una modella (Veruschka) e, successivamente, a un gruppo di esse, l'atto fotografico si svolge “come un gesto imperioso di controllo del visibile, che assume i tratti dell'appropriazione del reale e del dominio degli sguardi” (R. Eugeni).
Nel momento in cui stampa e ingrandisce le foto, invece, si rende conto che i particolari più importanti sono quelli che erano sfuggiti al suo controllo, frutto del caso, o meglio della “capacità di vedere” della sua macchina.
La facoltà del meccanismo automatico di agire in autonomia è l'oggetto di studio di Franco Vaccari il quale, nel suo Fotografia e inconscio tecnologico, sostiene che, durante la ripresa, “tutto avviene come se la macchina fosse un frammento di inconscio in attività” e che, quindi, “non è importante che il fotografo sappia vedere, la macchina fotografica vede per lui”. Un trentennio prima che Antonioni realizzasse il film, il già citato Benjamin scriveva che “la natura che parla alla macchina fotografica è una natura diversa da quella che parla all'occhio; diversa specialmente per questo, che al posto di uno spazio elaborato consapevolmente dall'uomo, c'è uno spazio elaborato inconsciamente”. L'occhio meccanico, libero da qualsiasi volontà che sarebbe portata a operare scarti e selezioni, registra la realtà con fedeltà e senza lasciarsi sfuggire nulla. Le intenzioni dell'autore non determinano totalmente una fotografia, la quale è da riportare piuttosto a quella che Sontag definisce “una libera cooperazione (quasi magica, quasi accidentale) tra fotografo e soggetto”, mediata dalla macchina.
La fotografia, inoltre, frammenta la continuità temporale, imbalsamando l'istante e rendendolo accessibile a sguardi futuri. Proprio grazie a questa funzione “congelante” della fotografia, Thomas può disporre sotto i suoi occhi l'immagine della misteriosa realtà incontrata nel parco, ridurla a oggetto di indagine minuziosa.
Blow-up è un film che ruota intorno all'universo irrequieto e contraddittorio della visione e delle immagini: con i mezzi della cinematografia, fa parlare essenzialmente queste ultime, riducendo il sonoro e i dialoghi all'essenziale. La teoria dell'atto fotografico, seppur venga fuori in modo netto, non è chiaramente lo scopo del film. L'interesse del regista si concentra soprattutto sul rapporto tra individuo e realtà (l'oggetto cardine della filosofia da millenni), ma a questo fine fa emergere un discorso sulle possibilità conoscitive del mezzo fotografico e cinematografico.
La pellicola termina con una emblematica sequenza: la pantomima di una partita di tennis da parte di alcuni mimi (gli stessi che compaiono all'inizio del film), alla quale prende parte lo stesso fotografo. Il confine tra realtà e apparenza, tra verità e illusione si è dimostrato incerto e permeabile.
Non è possibile attingere e possedere l'oggetto fino in fondo: quando il protagonista ha provato a ingrandire sempre di più le sue foto, l'immagine si è smaterializzata in una serie di chiazze astratte e incomprensibili: più ci si avvicina alla realtà, quindi, più questa perde di chiarezza e diventa sfuggente. L'individuo, per quanto si sforzi di coglierla, non potrà mai arrivare alla sua vera essenza. Scrive lo stesso Antonioni:
"La realtà ci sfugge, muta continuamente. Quando crediamo di averla raggiunta, la situazione è già un’altra. Io diffido sempre di ciò che vedo, di ciò che un'immagine mi mostra, perché "immagino" quello che c'è al di là; e ciò che c'è dietro un' immagine non si sa. Il fotografo di 'Blow up', che non è un filosofo, vuol andare a vedere più da vicino. Ma gli succede che, ingrandendolo troppo, l'oggetto stesso si scompone e sparisce. Quindi c'è un momento in cui si afferra la realtà, ma il momento dopo sfugge."
L'immagine non può riprodurre esattamente la realtà, può solo imitarla, mostrarne le apparenze: in questo senso è interpretabile la sequenza finale con i mimi: questi giocano una finta partita a tennis, cioè imitano una vera partita, proprio come l'immagine fotografica imita la realtà. Il fotografo alla fine sceglie di partecipare a questa partita e rilancia una pallina immaginaria; decide, cioè, di mettere da parte ogni pretesa di oggettività e di accettare il fatto che viviamo in un mondo di apparenze, di finzione, di immaginazione. Blow-up è pertanto un film sulle possibilità e sui limiti dell'immagine: benché parziale e ambigua, essa è la sola possibilità di conoscenza che abbiamo, l'unica forma di oggettivazione concreta della realtà a nostra disposizione, in quanto soggetti distinti e distanti dal nostro oggetto di indagine, il quale può darsi al nostro sguardo solo attraverso una opaca e imperfetta rappresentazione.
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