Insieme agli affreschi di Ercolano e Pompei e a pochi altri esempi, i ritratti del Fayum formano l'eredità pittorica pervenutaci, in buono stato di conservazione, dall'antichità. Pur essendo state scoperte già da tempo, solo alla fine dell'Ottocento vennero effettuati degli scavi massicci nelle necropoli di quelle regioni. I ritratti furono staccati dalle mummie e trasportati in Europa, dove suscitarono grande clamore. In particolare stupiva la grande naturalezza e immediatezza espressiva, in poche parole la modernità di questi ritratti, così simili agli stili europei post-impressionisti di quegli anni, al punto da far sorgere a volte il sospetto che si trattasse di vere e proprie falsificazioni. E notevole fu l'influenza esercitata da queste tavole sullo sviluppo dell'arte moderna.
I ritratti sono stati ritrovati in forma di pannelli dipinti (a encausto o a tempera) nella regione egizia del Fayum, ad Hawara, Marina-el-Alamein e Antinoopolis, mentre altri ritratti eseguiti sui sudari provengono per la maggior parte dagli scavi condotti nelle località di Saqqara, Asyut e Tebe.
Sia le tavole che i sudari, realizzati tra il I e il III secolo d.C., erano stati applicati alle mummie dei defunti appartenenti all'élite locale, in base al costume diffuso di utilizzare ritratti dipinti per onorare o ricordare determinate persone. Queste tavole, tuttavia, si presentano in tutta la loro originalità, come il frutto di quel sincretismo culturale della società egitto-greco-romana della regione del Fayum. Oggi, di questi ritratti, se ne conoscono circa seicento, sparsi nei musei di tutto il mondo.
La ritrattistica del Fayum è posteriore all’arrivo dei romani e costituisce una sintesi di usanze funebri romano-egizie. Queste mummie sono saldamente ancorate alle pratiche religiose della tradizione egiziana e contemporaneamente se ne discostano, proprio a causa del ritratto, che aveva preso il posto della tradizionale maschera. Queste tavole, infatti, dallo sconcertante realismo, poco hanno a che fare con l'antica maschera funeraria egizia, mostrando invece quella fedeltà al vero che caratterizzava la ritrattistica romana.
Nell'antica Roma era un privilegio del ceto patrizio l'uso di ricavare delle maschere di cera degli antenati (imagines maiorum) dal calco preso sul volto del defunto, per fissarne la fisionomia, e poi di conservarle nell’atrium domestico, in apposite edicole lignee (armaria), identificate ognuna con il nome dell’antenato. Questi ritratti non erano dei semplici manufatti ma oggetti quasi di culto. Essi avevano una funzione dichiaratamente “paradigmatica”: sia quando venivano portate nelle strade durante la processione funebre, che dopo l’allestimento nello spazio domestico, queste immagini costituivano dei veri e propri sistemi simbolici, concepiti per attribuire identità alle persone che non erano più in vita, certificandone la presenza e garantendone il perdurare dell’influenza e del prestigio.
Rispetto all’uso delle imagines maiorum dei romani, i ritratti del Fayum non avevano la funzione sociale di tramandare, privatamente e pubblicamente, la memoria. Le tavole trovate in Egitto, infatti, non venivano conservate nelle case dei discendenti, ma venivano nascoste nel buio di una sepoltura e pertanto sottratte allo sguardo dei viventi.
Se il ruolo delle maschere e delle imagines pictae dei romani era quello di “sostituto dell’assente”, nel senso che l’immagine conservata nello spazio domestico aveva il compito di sostituirsi magicamente al morto, i morti dell’Egitto non vivono nell’immagine; la loro sopravvivenza è garantita esclusivamente attraverso la conservazione del corpo, credenza legata alle antiche pratiche funerarie degli egizi.
Paradossalmente, i ritratti del Fayum acquisteranno valenza ontologica, come presenze in absentia e memoria di chi era vissuto molti secoli prima, solo alla fine dell'Ottocento, quando verranno separati dalle mummie ed esposti come oggetti autonomi.
I ritratti del Fayum presentano varie tendenze stilistiche, dal realismo iniziale a una forma di stilizzazione delle ultime pitture. Caratteristiche comuni, tuttavia, sono l'intensa espressività dei volti concentrata nello sguardo dei grandi occhi sbarrati, spesso con le pupille eccentriche rispetto all'iride. I ritratti del Fayum, con la loro stupefacente e “moderna” forza espressiva, sembrano guardare dall’aldilà verso il mondo dei viventi.
Nella pittura vascolare greca tutti i personaggi sono rappresentati di profilo, in relazione fra loro, essi non guardano lo spettatore perché immersi in una narrazione compiuta nel tempo e nello spazio, quella che ruota attorno alla vita comunitaria della polis. Ogni volta che un personaggio ci fronteggia, invece, rompe i rapporti visivi con il suo spazio di rappresentazione, ed è a noi che si rivolge, con il procedimento che in retorica si chiama apostrophè.
La rappresentazione frontale determina un contatto visivo reciproco con lo spettatore, che può avere valenze rituali, coinvolgendolo nel tempo e luogo del personaggio raffigurato. E un'apostrophè muta sembrano rivolgerci i ritratti del Fayum.
I ritratti furono da subito percepiti come autonomi rispetto ai corpi, per l’immensa presenza che sprigionava dalle immagini. Per questo motivo i primi scopritori li strapparono sistematicamente dalle loro mummie, estirpandoli dall’ingombrante presenza dei corpi imbalsamati e avvolti nelle bende. I ritratti vennero isolati e considerati come opere autonome, per un giudizio puramente di valore, fondato sul “gusto” del tempo. L'attenzione si è dall'inizio concentrata sull’essenzialità dei tratti e dell’espressione, sulla malinconia che sembra avvolgerli, sulla soglia sospesa, senza tempo né spazio, da cui questi volti ci guardano, una soglia che separa la vita dalla morte, la memoria dall'oblio, la presenza dall'assenza.
Ma non si può dimenticare che questi dipinti facevano parte di un complesso apparato, ancora attuale a quell'epoca, che avrebbe dovuto garantire la sopravvivenza delle spoglie del defunto oltre la morte del corpo e assicurargli così la possibilità di compiere il lungo viaggio verso l'aldilà. Un apparato che prevedeva che la mummia, e il volto dipinto ad essa applicato, venissero sepolti insieme e dunque nascosti al resto del mondo. “Questi ritratti, pertanto, costituivano l'espediente necessario per assicurare anche all'aspetto della persona che era stata, alle sue fattezze corporee e alla sua fisionomia che si riteneva parte della sua “essenza”, una vita ulteriore, la stessa di quella che noi chiamiamo “anima”. Il loro sguardo franco, dolce, sospeso, sigillato nel buio della tomba lontano da occhi umani era destinato agli dei, era la prima “cosa” che li avrebbe accolti e che essi avrebbero “visto” nel momento in cui il nuovo arrivato sarebbe stato ammesso alla loro presenza. Allo stesso modo, grazie ai suoi occhi innaturalmente spalancati, il morto avrebbe potuto “contemplare” la vita ultraterrena. Questi sguardi morbidi e inequivocabilmente diretti o, al contrario, vacui e assenti come si conviene a chi sia ma sia altrove, sono dunque destinati a un osservatore altro, trascendente. Benché fenomenicamente simili, l'intenzione artistica e rituale che li anima è completamente diversa da quella che sostanzierà di lì a poco gli sguardi delle icone cristiane, sguardi di una divinità trascendente ma al tempo stesso umana, che si rivolge ai viventi”. (Martina Corgnati, I quadri che ci guardano)
La direzione dello sguardo è inversa: se nelle icone cristiane è Dio che guarda l'uomo e il suo mondo, nei ritratti del Fayum è l'uomo che guarda l'aldilà, mostrando l'essenza del proprio essere racchiusa nel volto. Malgrado tutta l'empatia che noi osservatori proviamo per questi uomini e donne, che sembrano voler chiedere, a noi che li guardiamo, un ultimo anelito di vita o invitarci a riflettere sul mistero del passaggio che loro hanno intrapreso, malgrado i loro occhi sembrino cercare i nostri per stabilire un contatto e sostare insieme su una soglia senza tempo, come fanno le fotografie sulle tombe dei nostri cimiteri, ebbene, non a questa reciprocità essi erano destinati. Le loro pupille spalancate mirano da sempre una realtà preclusa a noi mortali.
I primi occhi che ci fisseranno intenzionalmente, che cercheranno un contatto con noi e il nostro tempo, saranno quelli delle icone cristiane. Ma di questo parleremo la prossima volta.
Fonti bibliografiche
In rete:
In libreria:
J. C. Bailly, L’apostrofe muta. Saggio sui ritratti del Fayum, Parigi 1997.
Paolo Fundarò, Lo sguardo eterno. Storia e tecnica dell'encausto dalle origini ai ritratti del Fayum, Espera, 2012.
Fayum. Misteriosi volti dall’Egitto, Roma Fondazione Memmo, 22 ottobre 1997-22 febbraio 1998, Catalogo della mostra.
Martina Corgnati, I quadri che ci guardano, Editrice Compositori 2011.
Estremamente affascinanti, sembrano proprio sguardi eterni, espressivi ed inespressivi allo stesso tempo.
RispondiEliminaLieta di essere capitata su questo blog, molto interessante!
Scusa il ritardo con cui rispondo, ma mi ero dimenticata che non arriva nessuna notifica dei commenti rilasciati dai visitatori :)
EliminaSei la benvenuta in questo blog Anna!