lunedì 23 gennaio 2017

L'uomo e la natura - La natura deformata. L'urlo di Munch


E. Munch, Il grido, 1893. Olio, tempera e pastelli su cartone, 91 x 73.5 cm., Oslo Nasjonalmuseet.

«Mi ricordo benissimo, era l’estate del 1893. Una serata piacevole, con il bel tempo, insieme a due amici all’ora del tramonto. […] Cosa mai avrebbe potuto succedere? Il sole stava calando sul fiordo, le nuvole erano color rosso sangue. Improvvisamente, ho sentito un urlo che attraversava la natura. Un grido forte, terribile, acuto, che mi è entrato in testa, come una frustata. D’improvviso l’atmosfera serena si è fatta angosciante, simile a una stretta soffocante: tutti i colori del cielo mi sono sembrati stravolti, irreali, violentissimi. […] Anch’io mi sono messo a gridare, tappandomi le orecchie, e mi sono sentito un pupazzo, fatto solo di occhi e di bocca, senza corpo, senza peso, senza volontà, se non quella di urlare, urlare, urlare… Ma nessuno mi stava ascoltando: ho capito che dovevo gridare attraverso la pittura, e allora ho dipinto le nuvole come se fossero cariche di sangue, ho fatto urlare i colori. Non mi riconoscete, ma quell’uomo sono io.»

Così il pittore Edvard Munch racconta il fatto reale all'origine della sua opera più celebre, emblema di tutto il Novecento, Il grido (nota in lingua italiana anche come L'urlo).
È stata dipinta in tre versioni a olio e tempera realizzate tra il 1893 e il 1910 (conservate due presso la Galleria Nazionale di Oslo, e una al Munch Museum), una versione a pastello (il cui titolo originale è Der Schrei der Natur, Il grido della natura) conservata presso privati e una a stampa litografica.


E. Munch, Der Schrei der Natur (Il grido della natura), 1893, Munch Museum, Oslo, Norway - Wikiart

Fa parte di una serie di opere denominate il “Fregio della vita”, in cui il pittore esplora il destino dell'uomo (l’amore, la paura, la morte, la malinconia, l’ansia), esposta per la prima volta nel 1902, in occasione della quinta edizione della Secessione di Berlino.
Ne Il grido un'esperienza personale si trasforma nella percezione di un sentimento universale, la visione di un tramonto si trasfigura in incubo cosmico, in sintesi visiva del disagio esistenziale comune. L’uomo in primo piano esprime, nella solitudine della sua individualità, il dramma collettivo dell’umanità intera.
In un paesaggio allucinato, una figura attraversa un ponte ripreso in diagonale, senza inizio né fine, che si affaccia su un fiordo. La deformazione del corpo umano, come del paesaggio, ha raggiunto qui un limite fino ad allora sconosciuto alla pittura. L'essere che vediamo frontalmente in primo piano, infatti, ha poco di umano: la sua sagoma è flessuosa e molle come quella di uno spettro, priva di scheletro e di consistenza, realizzata con le stesse pennellate filamentose che compongono il resto della scena. Al posto della testa vi è un enorme cranio, che ricorda una maschera o un teschio, deformato in un urlo insostenibile, così forte da trasfigurare tutta la natura. Le narici sono mostruosamente ridotte a due fori, un occhio sbarrato è fisso mentre l'altro sembra sbirciare ansioso dietro di sé, la bocca, centro compositivo del quadro, è spalancata in uno spasmo innaturale. In lontananza, come indifferenti al dramma che si svolge in primo piano, due figure nere e sottili sembrano continuare imperturbabili la propria passeggiata. L'uomo urla tenendosi le mani strette sulle orecchie come per attutire il suono del grido, che si propaga in terrificanti onde sonore che investono il cielo, la terra e il mare, dando loro l'aspetto di pieghe convulse e vorticose. E' come se l'urlo riuscisse a espandersi nell'aria e nell'acqua, creando un'onda d'urto dagli effetti sconvolgenti, un gorgo spaventoso che risucchia il mondo. Un suono che ha il potere di deformare la natura, ma che implode muto e impotente, restando sordo e inavvertibile dagli altri, i quali rimangono impassibili, chiusi nell'involucro delle proprie impermeabili individualità.

E. Munch, Il grido, 1895, Museum of Modern Art (MoMA), New York City, NY, US - Wikiart

Il paesaggio è reso mediante colori puri ed è appena accennato. Il parapetto divide diagonalmente la composizione e sembra proiettare il ponte addosso allo spettatore, attirandolo pericolosamente nella scena. Manca un piano orizzontale e la figura non ha una base d'appoggio. Ciò contribuisce a creare un forte senso d'instabilità. Questo senso di disagio è accentuato dalle differenze di trattamento tra la parte destro-superiore e quella sinistra del dipinto. La prima è realizzata con impasti cromatici crudi e violenti, quasi magmatici, e con segni dall'andamento curvilineo e vorticoso. Le linee del paesaggio si ripetono con lo stesso andamento nella figura in primo piano, come se quest'ultima facesse parte del dramma cosmico della natura. La parte sinistra è invece realizzata con colori meno violenti e con linee rette. Anche le due sagome lontane sono longilinee, ben diverse dalla figura serpentiforme in primo piano: esse appartengono alla dimensione concreta, rettilinea, della realtà, quella estranea e indifferente alla tragedia del mondo.


L'uso dei colori è ossessivo e irreale; fra tonalità chiare e scure non c'è armonia, ma violenta contrapposizione, in grado di caricare la scena di una forte tensione. I toni caldi come il rosso, l'arancio ed il giallo sono qui contrapposti a quelli freddi come il verde e il blu. Linee, forme e colori non mirano a riprodurre le sembianze del mondo; ogni fine naturalistico è bandito a favore del solo effetto espressivo.
Il filosofo Schopenhauer, nel suo Philosophie der Kunst, aveva dichiarato che il limite della capacità espressiva di un'opera pittorica potesse essere la sua impossibilità di riprodurre il suono di un grido (das Geschrei), quel “grande urlo attraverso la natura” del “Crepuscolo degli dei” di Heine.
Munch, seguendo le contemporanee teorie della sinestesia, cioè della corrispondenza tra suono e colore, traduce in linee e pennellate la violenza di un grido. Quel suono angoscioso, proveniente da una figura che è l'essere umano ridotto alla sua essenza, deforma il paesaggio in onde sonore: “Il grido è il manifesto dell'insicurezza ontologica, vi rimbomba l' “Ur-schrei, il grido originario della coscienza soggettiva di fronte alla realtà dell'esistenza, che risuona nella cultura tedesca dal romanticismo fino all'esistenzialismo di Heidegger. E' il grido della nascita, dell'essere gettati nel mondo e pure già condannati”. (E. Di Stefano, Munch)

E. Munch, La madre morta e la bambina, 1897-99, Oslo, Munch-Museet.

E. Munch, La madre morta, 1899-1900, Kunsthalle Bremen, Bremen, Germany - Public Domain via Wikiart

La figura che urla tappandosi le orecchie ritornerà in altri dipinti e stampe di Munch, come “La madre morta e la bambina” (1897-99), ispirato anche questo alla biografia dell'artista, la cui vita venne sconvolta da numerosi lutti e tragedie, la prima delle quali fu la morte della madre quando il piccolo Edvard aveva solo cinque anni. Anche in questa tela un dolore incomunicabile, anche qui l'incapacità di sostenere l'intensità del proprio stesso grido che risuona da dentro. Forse questo gesto espressivo delle mani che comprimono le orecchie, che isola ancor di più il soggetto in se stesso, fu ispirato al pittore dall'aspetto di una mummia peruviana esposta nel 1889 al Musée de l'Homme a Parigi, la stessa mummia che aveva ispirato Paul Gauguin.

Chachapoya mummy Musee de l'Homme - httpprecolombien.tumblr.com

Quest’opera è diventata il simbolo stesso, delle ansie e delle inquietudini di un'epoca. «Il grido» è stato il terribile sigillo al XIX secolo e l'anticipazione delle tensioni, delle deformazioni, dei drammi psicologici che gli espressionisti faranno esplodere fin dai primi anni del Novecento.
La concezione dello spazio nelle opere di Munch fa di questo un luogo insieme fisico e psicologico: egli associa i personaggi allo spazio che li contiene, facendone la cassa di risonanza delle loro angosce e dei loro conflitti interiori. E, nonostante la rappresentazione sia semplificata, frontale, piatta e bidimensionale, tuttavia riesce a raggiungere vertici inusitati di espressività. Munch adopera lo stesso sfondo per declinare il tema della “Paura di vivere”, che forma una delle sezioni del Fregio della vita.

E. Munch, Despair, 1892, Thielska Galleriet, Stockholm, Sweden

Edvard Munch - Despair (1894), Munch Museum, Oslo, Norway - Public Domain via Wikipedia Commons

Il fiordo, il cielo insanguinato e vorticoso e il ponte fanno infatti da scenografia anche a “Disperazione” (1892), quasi una sorta di preludio narrativo a “Il grido", dove al posto del cranio calvo troviamo un uomo in carne e ossa, gravato dal peso di una natura che gli preme addosso con tutta la sua inclemenza, a Disperazione del 1894, e ad “Angoscia”, sempre del 1894, che unisce lo stesso tumulto convulso della natura con un gruppo di inquietanti personaggi molto simili a quelli già rappresentati in “Sera nel corso Karl Johann”.

Edvard Munch, Angoscia, 1894, Olio su tela, 94×74 cm. Oslo, Munch-museet.

Edvard Munch, Sera sul viale Karl Johan, 1892, Museo d'arte di Bergen - Public Domain via Wikipedia Commons

In questo secondo dipinto il tema dell’angoscia torna a essere un problema collettivo, anche se vissuto da ognuno nella solitudine della propria individualità. I passanti in abiti borghesi, che attraversano il ponte, uomini e donne, hanno volti pallidi e scheletrici, simili a spettri o automi, dall'espressione vacua, involucri chiusi nella propria irrimediabile incomunicabilità.
Anche la pittura di Munch, come quella di Van Gogh, è l'esplosione di un grido interiore che fuoriesce deformando la natura circostante. Con il pittore olandese, l'artista di Oslo condivide lo stesso carattere visionario e antinaturalistico della rappresentazione, ma le tele di Munch sono del tutto prive di quel disperato bisogno di salvezza, di quell'energia vitalistica e di quella ricerca appassionata di una comunione con la natura che ancora animavano i capolavori di Van Gogh. Nell'arte allucinata e torbida del norvegese ogni speranza è bandita. Il grido di Munch è sordo, doloroso, disperato. L’urlo non è proprio solo di un essere umano o dell'umanità; lo dice chiaramente il pittore: è il grido di dolore di tutta la natura. Il suo messaggio informe e cosmico è l'angoscia di vivere nella sua essenza.
Ci troviamo nel momento cruciale del passaggio di secolo: le certezze dell’età ottocentesca entrano in crisi di fronte alle prepotenti istanze del nuovo uomo contemporaneo. La modernizzazione afferma con enfasi l'autonomia individuale, ma il costo di questa conquista è anche una nuova condizione del soggetto fatta di solitudine, incertezza, perdita di controllo su ciò che lo circonda e anche sulla propria interiore. Ecco che l'ansia, malattia dell'uomo contemporaneo, diventa il tema della letteratura e dell'arte. Come i letterati della sua generazione, Strindberg, Ibsen, Kafka, e come il pittore Van Gogh, anche Munch fa dell'interiorità la vera protagonista della sua arte, che trasforma la realtà esterna in simbolo del dramma dell'anima. “E nei suoi quadri non farà altro che 'scrivere' e 'riscrivere' la sua vita: un'autobiografia dell'anima per immagini, o meglio un'anatomia delle catastrofi dell'Io, imprudente nell'intensità, provocante nei mezzi. Chi guarda sbatte contro quell'ansia e vi riconosce la propria: non vi è dubbio che, tra i pittori, Edvard Munch è colui che, più di ogni altro, ha saputo dare volto alla psiche moderna”. (E. Di Stefano, Munch)



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