Abstract
L’ingresso dell’intelligenza artificiale nei processi creativi segna un passaggio storico: dalla dimensione ottica a quella algoritmica dell’immagine. Se nella cultura visiva moderna la metamorfosi richiedeva una forzatura della materia — trucco, artigianato, effetti speciali, CGI — oggi, nell’era dei modelli generativi, l’ibridazione è diventata la grammatica nativa della produzione visiva. L’articolo esplora questo cambiamento di paradigma, analizzandone le implicazioni estetiche e antropologiche: il corpo non è più rappresentato come oggetto, ma ricombinato come codice.
Parole chiave: metamorfosi, ibridazione, intelligenza artificiale, estetica postumana, immagine algoritmica, corpo.
1. Dall’ottico all’algoritmico
È facile constatare che molte delle immagini e dei video generati da modelli di intelligenza artificiale sono popolati da corpi e oggetti che si ibridano, si contaminano, trapassano da una forma a un’altra. Figure umane che si trasformano in strane creature, animali che si fondono con macchine, volti che oscillano fra identità differenti: tutto accade come in un flusso continuo di metamorfosi. Ciò che un tempo appariva come un effetto speciale o un espediente narrativo - la trasformazione, il morphing, la mutazione - diventa ora una modalità naturale di esistenza visiva.
L’intelligenza artificiale non si limita a produrre immagini: ridefinisce il modo stesso in cui vediamo, pensiamo e sentiamo le immagini. Il mutamento più profondo dell’immaginario contemporaneo si gioca nel passaggio da una dimensione ottica a una dimensione algoritmica dell’immagine. Se la modernità visiva si era fondata sull’occhio - sulla capacità di catturare, manipolare e riprodurre la realtà visibile attraverso strumenti ottici, pittorici o fotografici - l’attuale paradigma si costruisce su un’altra logica: quella del calcolo, dell’interpolazione, della probabilità. Non si tratta più di registrare la luce o di costruire un’illusione ottica, ma di generare forme a partire da dati, da correlazioni numeriche, da apprendimenti statistici. Ogni frame risulta da una serie di interpolazioni statistiche che fondono milioni di pattern visivi appresi dai dati. L’AI non riproduce la realtà ma la attraversa, generando un continuum in cui la distinzione fra figura e sfondo, soggetto e ambiente, interno ed esterno tende a dissolversi.
Per ottenere metamorfosi e ibridazioni nella sfera ottica, era necessario intervenire sulla materia: deformare il corpo con trucchi, sovrapporre pellicole, manipolare la luce o ricorrere a tecnologie costose come la CGI. In quella logica, la trasformazione era un evento eccezionale, spettacolare, visivamente costruito, il frutto di una forzatura della materia o della visione, un tentativo di superare i limiti fisici dell’immagine e del corpo. Nella dimensione algoritmica, invece, metamorfosi e ibridazione non sono più effetti, ma una condizione originaria: costituiscono la modalità di produzione delle immagini. I modelli generativi - dalle GAN ai modelli di diffusione - non “guardano” il mondo, ma lo inter-polano: fondono insiemi di dati, attraversano spazi latenti, producono immagini come punti di transizione fra altre immagini.
In questo senso, la metamorfosi non è più soltanto una categoria estetica, ma la grammatica operativa del visivo algoritmico. Non si limita a rappresentare il cambiamento delle forme: è la condizione stessa in cui le forme nascono. Ogni immagine prodotta dall’intelligenza artificiale è, in senso tecnico e simbolico, il risultato di una transizione: un passaggio continuo tra corpi, texture, memorie visive. Laddove la modernità visiva si fondava sull’ottica - sulla luce, la messa a fuoco, la prospettiva, la registrazione del reale - l’immagine algoritmica nasce da spazi latenti, da processi di interpolazione. Essa non cattura la realtà, ma la sintetizza statisticamente, muovendosi in un campo di possibilità più che di evidenze. La metamorfosi, in questo contesto, non è un effetto applicato, bensì il modo stesso in cui l’immagine “accade”.
L’intelligenza artificiale non “vede” il mondo: combina, fonde, riassesta. Nei modelli di generazione (GAN, diffusion models), la metamorfosi è inscritta nel codice stesso. Ogni pixel è il risultato di un compromesso fra infinite configurazioni possibili, ogni volto un equilibrio instabile tra migliaia di volti precedenti. Il morphing, un tempo effetto spettacolare del cinema, è oggi la struttura stessa della visione algoritmica. Il mondo visivo non si dà più come dato, ma come processo dinamico, come soglia permanente tra stati. Ogni immagine è un istante provvisorio di stabilità all’interno di un campo di mutazioni potenziali. Da qui deriva la qualità ipnotica e perturbante dei video generativi, in cui la materia visiva sembra respirare, mutare, sfuggire a ogni fissazione formale. L’occhio dello spettatore si trova così di fronte a una visione che non può più essere interpretata nei termini classici della rappresentazione. La metamorfosi diventa esperienza percettiva, un modo di vedere che abolisce la fissità della forma e accoglie il divenire come stato naturale dell’immagine. L’identità visiva non è più legata alla riconoscibilità di una forma stabile che perdura nel tempo, ma alla transizione: ciò che importa non è più chi o che cosa vediamo, ma come qualcosa si trans-forma davanti a noi. Ogni immagine è una fusione statistica, una transizione continua fra forme latenti. L’immagine non è più l’ombra di un referente, ma il risultato di una negoziazione tra pattern. La metamorfosi rappresenta una condizione originaria: tutto è già mescolato, ibridato, attraversato da logiche di fusione. Il corpo umano, che nella fotografia era referente, e nel cinema era attore, diventa qui dato, materiale di calcolo, nodo in una rete di trasformazioni. Ne risulta un’estetica della fluidità, in cui l’immagine perde il suo statuto di superficie per diventare processo. Il morphing, la mescolanza, la mutazione non sono più effetti speciali, ma modalità di sintesi. In questo senso, il paradigma ottico della rappresentazione cede il passo a un paradigma morfogenetico, in cui la visione è un processo computazionale, una variazione infinita nello spazio dei dati. L’immagine non riflette più il reale: lo ricompone.
L’intelligenza artificiale non si limita a produrre immagini: ridefinisce il modo stesso in cui vediamo, pensiamo e sentiamo le immagini. Il mutamento più profondo dell’immaginario contemporaneo si gioca nel passaggio da una dimensione ottica a una dimensione algoritmica dell’immagine. Se la modernità visiva si era fondata sull’occhio - sulla capacità di catturare, manipolare e riprodurre la realtà visibile attraverso strumenti ottici, pittorici o fotografici - l’attuale paradigma si costruisce su un’altra logica: quella del calcolo, dell’interpolazione, della probabilità. Non si tratta più di registrare la luce o di costruire un’illusione ottica, ma di generare forme a partire da dati, da correlazioni numeriche, da apprendimenti statistici. Ogni frame risulta da una serie di interpolazioni statistiche che fondono milioni di pattern visivi appresi dai dati. L’AI non riproduce la realtà ma la attraversa, generando un continuum in cui la distinzione fra figura e sfondo, soggetto e ambiente, interno ed esterno tende a dissolversi.
Per ottenere metamorfosi e ibridazioni nella sfera ottica, era necessario intervenire sulla materia: deformare il corpo con trucchi, sovrapporre pellicole, manipolare la luce o ricorrere a tecnologie costose come la CGI. In quella logica, la trasformazione era un evento eccezionale, spettacolare, visivamente costruito, il frutto di una forzatura della materia o della visione, un tentativo di superare i limiti fisici dell’immagine e del corpo. Nella dimensione algoritmica, invece, metamorfosi e ibridazione non sono più effetti, ma una condizione originaria: costituiscono la modalità di produzione delle immagini. I modelli generativi - dalle GAN ai modelli di diffusione - non “guardano” il mondo, ma lo inter-polano: fondono insiemi di dati, attraversano spazi latenti, producono immagini come punti di transizione fra altre immagini.
In questo senso, la metamorfosi non è più soltanto una categoria estetica, ma la grammatica operativa del visivo algoritmico. Non si limita a rappresentare il cambiamento delle forme: è la condizione stessa in cui le forme nascono. Ogni immagine prodotta dall’intelligenza artificiale è, in senso tecnico e simbolico, il risultato di una transizione: un passaggio continuo tra corpi, texture, memorie visive. Laddove la modernità visiva si fondava sull’ottica - sulla luce, la messa a fuoco, la prospettiva, la registrazione del reale - l’immagine algoritmica nasce da spazi latenti, da processi di interpolazione. Essa non cattura la realtà, ma la sintetizza statisticamente, muovendosi in un campo di possibilità più che di evidenze. La metamorfosi, in questo contesto, non è un effetto applicato, bensì il modo stesso in cui l’immagine “accade”.
L’intelligenza artificiale non “vede” il mondo: combina, fonde, riassesta. Nei modelli di generazione (GAN, diffusion models), la metamorfosi è inscritta nel codice stesso. Ogni pixel è il risultato di un compromesso fra infinite configurazioni possibili, ogni volto un equilibrio instabile tra migliaia di volti precedenti. Il morphing, un tempo effetto spettacolare del cinema, è oggi la struttura stessa della visione algoritmica. Il mondo visivo non si dà più come dato, ma come processo dinamico, come soglia permanente tra stati. Ogni immagine è un istante provvisorio di stabilità all’interno di un campo di mutazioni potenziali. Da qui deriva la qualità ipnotica e perturbante dei video generativi, in cui la materia visiva sembra respirare, mutare, sfuggire a ogni fissazione formale. L’occhio dello spettatore si trova così di fronte a una visione che non può più essere interpretata nei termini classici della rappresentazione. La metamorfosi diventa esperienza percettiva, un modo di vedere che abolisce la fissità della forma e accoglie il divenire come stato naturale dell’immagine. L’identità visiva non è più legata alla riconoscibilità di una forma stabile che perdura nel tempo, ma alla transizione: ciò che importa non è più chi o che cosa vediamo, ma come qualcosa si trans-forma davanti a noi. Ogni immagine è una fusione statistica, una transizione continua fra forme latenti. L’immagine non è più l’ombra di un referente, ma il risultato di una negoziazione tra pattern. La metamorfosi rappresenta una condizione originaria: tutto è già mescolato, ibridato, attraversato da logiche di fusione. Il corpo umano, che nella fotografia era referente, e nel cinema era attore, diventa qui dato, materiale di calcolo, nodo in una rete di trasformazioni. Ne risulta un’estetica della fluidità, in cui l’immagine perde il suo statuto di superficie per diventare processo. Il morphing, la mescolanza, la mutazione non sono più effetti speciali, ma modalità di sintesi. In questo senso, il paradigma ottico della rappresentazione cede il passo a un paradigma morfogenetico, in cui la visione è un processo computazionale, una variazione infinita nello spazio dei dati. L’immagine non riflette più il reale: lo ricompone.
2. Un nutamento antropologico
Questo mutamento ridefinisce il rapporto tra immagine, corpo e identità. Il corpo che si fonde o si espande oltre i propri confini è una costante della modernità. Dalla fantascienza meccanica di inizio Novecento al body horror di David Cronenberg o Shinya Tsukamoto, il corpo ha rivelato la propria fragilità e permeabilità tecnologica. Gli artisti del secondo Novecento - Stelarc, Orlan - hanno radicalizzato questa visione: la metamorfosi non è più rappresentazione ma pratica, gesto, incorporazione. Le protesi, le mutazioni, gli innesti non servono a simulare un’alterità, ma a renderla abitabile.
Se nel Novecento l’immaginario della metamorfosi esplorava i confini dell’umano in chiave provocatoria o distopica, oggi l’ibridazione diventa condizione normale dell’immagine digitale. L’intelligenza artificiale produce corpi e volti che non appartengono a nessuno, ma che sono composti da frammenti di molti: una collettività sintetica si inscrive nella superficie visiva. Dalla manipolazione fisica dei corpi si è così passati alla manipolazione dei dati che li rappresentano.
Nell’immaginario visivo contemporaneo, l’idea di un soggetto stabile, centrato, definito dal proprio corpo o dalla propria immagine viene progressivamente sostituita da una logica di relazione, di mescolanza, di flusso. L’intelligenza artificiale, operando per interpolazione e non per imitazione, genera figure che sono al tempo stesso molte e nessuna: volti senza referente, corpi compositi, entità che esistono solo come esiti temporanei di un calcolo.
In questo scenario, l’identità non coincide più con l’immagine che la rappresenta, ma con il processo che la genera. Ogni soggetto visivo è il risultato di un insieme di dati, un equilibrio provvisorio tra memorie digitali e configurazioni statistiche. Il corpo perde la sua coerenza visiva, la forma non ha confini stabili, ma si dissolve in una costellazione di segni e di potenzialità visive: è una funzione temporanea, un’espressione di relazioni variabili tra algoritmi, dispositivi e archivi visivi.
L’identità figurativa, cioè l’idea che esista una corrispondenza tra il corpo visibile e il soggetto, entra in crisi. Ciò che appare non è più una figura che rappresenta qualcuno, ma una figura che performativamente si fa e si disfa, come un organismo di dati. Le implicazioni culturali sono profonde. Se il ritratto, per secoli, ha definito l’identità come riconoscibilità, l’immagine generativa la ridefinisce come differenza permanente, come movimento senza origine. In un ambiente in cui ogni volto può essere prodotto, alterato o fuso con altri, il concetto stesso di somiglianza perde consistenza. L’identità diventa un campo di probabilità, una configurazione emergente all’interno di un ecosistema visivo in costante mutazione.
In questa prospettiva, parlare di “identità” significa parlare di processi di co-emergenza: tra dati e desideri, tra algoritmi e affetti, tra immaginazione e controllo. L’immagine non rappresenta più il soggetto, ma ne diventa la condizione. È qui che l’ibridazione algoritmica non solo modifica l’estetica del corpo, ma produce implicazioni più profonde. L’arte, in questo scenario, agisce come sonda antropologica: osservatorio privilegiato dei modi in cui l’umano si ridefinisce.