domenica 11 luglio 2021

Verso un ecological turn? La svolta bioculturale degli studi visuali


Abstract:
La rivoluzione delle immagini ha dato vita a scenari inediti, caratterizzati da un’estrema complessità di forme di interazione tra prodotti mediali, forme narrative, ambienti di produzione e di fruizione e pratiche spettatoriali. Per affrontare lo studio di tale complessità si ricorre spesso a categorie mutuate dalle scienze biologiche, come la nozione di ecosistema.
L’approccio ecologico alle immagini è il corollario della logica relazionale che caratterizza la cultura visuale contemporanea, animata da dispositivi e pratiche quotidiane che ibridano, fanno convergere e rimediano una quantità enorme di contenuti visivi e audiovisivi, dando vita a immaginari complessi.
Si tratta insomma di spostare l’asse dello studio visuale dagli oggetti visivi, dalle singole pratiche di produzione, esposizione e fruizione di immagini, al sistema complesso di cui fanno parte, per assumere un punto di vista più ampio, organico, ‘ecologico’, attento soprattutto al contesto e alle relazioni di interconnessione messe in atto dalle agency degli attori coinvolti: i soggetti produttori e fruitori, gli oggetti visivi e i dispositivi che ne consentono la produzione, la fruizione e la circolazione. La sfida che si chiede è forse quella di un superamento della centralità del visuale come oggetto di studio, per estenderlo e integrarlo con altre pratiche di interazione tra soggetti, immagini e ambienti mediali. A tal fine, si cercherà di argomentare l’ipotesi di questo ecological turn incentrando il discorso intorno a tre parole chiave, che indicano gli elementi principali del sistema complesso citato: corporeità, ambiente e agency.



Gli studi di cultura visuale, a partire dagli anni Novanta, hanno inaugurato il cosiddetto pictorial turn, o Ikonische Wendung (svolta iconica), da intendersi in contrapposizione al linguistic turn, cioè alla tendenza a considerare ogni produzione segnica come testo riconducibile a un discorso.

Il pictorial turn ribadisce piuttosto la peculiarità degli studi visuali e richiede un cambiamento epistemologico che pone lo studio delle immagini sullo stesso piano di quello del linguaggio. Si parla di svolta iconica per sottolineare, in particolar modo, il grande effetto che oggi le immagini determinano sulla stessa antropologia dell'Homo sapiens, una constatazione che impone l'impianto di studi appropriati del visuale, di una 'scienza delle immagini' non riducibile alle discipline che si occupano delle analisi semiotiche e testuali.

Negli ultimi anni, tuttavia, sembra profilarsi all'orizzonte un ulteriore turn - o probabilmente si tratta dello sviluppo di traiettorie latenti nei Visual Culture Studies – in direzione di quella che Michele Cometa definisce la «svolta bioculturale della cultura visuale» (Cometa 2020, p. 304), che abborda categorie biologiche per lo studio delle immagini, pur tenendo saldo l'aspetto storico e culturale di queste ultime.
Si tratta, insomma, di rivendicare l’importanza della dimensione biologica (ed ecologica) dell’esperienza visuale, e più in generale il ruolo del bíos, coniugando lo studio delle immagini con quello di diverse discipline, dalle scienze cognitive alle neuroscienze, dall’antropologia all’ecologia dei media, fino alla biologia e alle altre scienze naturali. La conclusione di Cometa, ribadita anche in un’intervista (https://www.lavoroculturale.org/temi-e-metodi-della-cultura-visuale/marco-mondino/2021/), è che «le immagini hanno una loro sostanza biomorfa, rispondono cioè alle nostre aspettative biologiche e come esseri biologici si riproducono, si diffondono, si modificano e lottano per la sopravvivenza. Insomma, c’è più di una ragione per credere che un innesto del sapere biologico, e del bíos, possa aiutare a spiegare molti fenomeni che riguardano la vita delle immagini. Per non parlare ovviamente del fatto che tutte le nostre facoltà cognitive si costruiscono attraverso l’esperienza del vedere».

Le produzioni mediali (cioè veicolate da dispositivi materiali o testuali) sono state sempre inquadrate nell’ambito dell’universo culturale  umano, distinto e separato dall'universo della biologia e delle scienze naturali, nel solco del dualismo occidentale di materia e spirito. La rivoluzione delle immagini ha tuttavia dato vita a scenari inediti, caratterizzati da un’estrema complessità di forme di interazione tra prodotti mediali, forme narrative, ambienti di produzione e di fruizione e pratiche spettatoriali. Per affrontare lo studio di tale complessità si ricorre spesso a categorie mutuate dalle scienze biologiche, come la nozione di ecosistema, “inteso appunto come ambiente composito, capace di integrare i flussi provenienti da utenti, tecnologie e oggetti mediali» (C. Bisoni, V. Innocenti, G. Pescatore 2013, p. 12). Per orientarsi nell’ambito dell’universo della cultura si ricorre, insomma, a strumenti concettuali delle scienze naturali, affinché – scrive ancora Michele Cometa – si «tenga conto anche di ciò che nelle immagini, negli sguardi e nei dispositivi non si lascia spiegare solo attraverso la “storia” ma deve attingere a dimensioni immemoriali come quelle della biologia e, più in generale, delle scienze del bíos» (Cometa 2020, p. 297).

Parlando di biologia e di ecologia è facile dar luogo a fraintendimenti, che rischiano di confondere l’identità degli studi di cultura visuale, già fin dagli esordi accusati di privilegiare un approccio antropologico, e dunque a-storico. Qui non si tratta assolutamente di inquadrare le immagini come fenomeni naturali, né il richiamo all'ecologia serve ad auspicare forme di intervento per contrastare o prevenire quell'inquinamento visuale denunciato da alcuni. Il ricorso a un modello ecologico è piuttosto da intendersi come orizzonte euristico in grado di far valere i seguenti principi:

- Il superamento del dualismo cartesiano tra psichico e corporeo e della separazione tra gli studi della cultura e le scienze della vita.

- La cultura, nella cui sfera rientra la produzione di immagini, costituisce la specificità della biologia di questa creatura particolare che è la specie Homo Sapiens, essere “per natura artificiale” (A. Gehlen), il cui processo di adattamento si è sempre esplicato in senso culturale e tecnologico. La biologia dell'essere umano, cioè, è costituita dalla sua dimensione tecnica e simbolica.

-     Il concetto di ecologia appare uno strumento valido per analizzare e comprendere lo scenario visuale del nostro presente, caratterizzato da una complessità tale da essere assimilabile a quella che contraddistingue le relazioni tra gli organismi e i loro habitat.

Le tecniche e gli artefatti opera dell’uomo costituiscono il suo mondo e producono un nuovo tipo di “natura”, cioè una peculiare necessità dinamica con la quale la libertà umana si trova a essere confrontata in un senso del tutto nuovo, diverso dal determinismo evoluzionistico. Le pratiche espressive, tra cui le immagini, sono forme di interazione con l’ambiente e ritagliano ciò che Giovanni Matteucci definisce “nicchia estetica” (Matteucci  2019). La produzione di immagini, i media e la spettatorialità sono da ricomprendere nello studio più ampio dell’evoluzione e del sistema di vita di Homo Sapiens e dunque all’interno di un’ecologia che spieghi il ruolo che le relazioni che instauriamo con le immagini, i sistemi di sguardo e in generale i regimi scopici e la costruzione di dispositivi hanno avuto nel suo cammino evolutivo.
Si tratta insomma di spostare l’asse dello studio visuale dagli oggetti visivi, dalle singole pratiche di produzione, esposizione e fruizione di immagini, al sistema complesso di cui fanno parte, per assumere un punto di vista più ampio, organico, ‘ecologico’, attento soprattutto al contesto e alle relazioni di interconnessione messe in atto dalle agency degli attori coinvolti: i soggetti produttori e fruitori, gli oggetti visivi e i dispositivi che ne consentono la produzione, la fruizione e la circolazione. La sfida che si chiede è forse quella di un superamento della centralità del visuale come oggetto di studio, per estenderlo e integrarlo con altre pratiche di interazione tra soggetti, immagini e ambienti mediali. A tal fine, si cercherà di argomentare l’ipotesi di questo ecological turn incentrando il discorso intorno a tre parole chiave, che indicano gli elementi principali del sistema complesso citato: corporeità, ambiente e agency.


Una mente embodied

Il pensiero moderno si è costruito intorno al dualismo cartesiano che separava la mente dal corpo, la res extensa dalla res cogitans, considerando la mente come separabile dal corpo e ritenendo le funzioni cosiddette superiori (come il linguaggio) indipendenti da quelle inferiori, come le esperienze senso-motorie e le emozioni. L’impianto cognitivista del secolo scorso ha continuato su questo solco, arrivando a teorizzare l'ipotesi del ‘cervello in una vasca’, secondo lo scenario proposto da Hilary Putnam nel 1981. Secondo i principi su cui si basa questo esperiemento mentale, il cervello di una persona viene equiparato a un computer, che riceve impulsi ed elabora risposte, funzionando in base a una dinamica di input-output attraverso l’uso di operatori logici e computazionali. Il cognitivismo classico marginalizza il ruolo della corporeità, relegandola ad una posizione secondaria. Se la cognizione, infatti, è un processo di elaborazione logico-formale di simboli in base a delle regole algoritmiche (software), non ha nessuna importanza il supporto materiale in cui tali processi hanno luogo (hardware). 
In base a questo paradigma, la mente umana può essere modellata come una macchina di Turing, ovvero come un sistema computazionale e semantico, rispetto a cui la forma e le proprietà dinamiche del corpo non sembrano rivestire alcun ruolo peculiare. Ciò che importa sono i processi logico-computazionali della mente, non le sensazioni soggettive che li accompagnano.
Già agli inizi del secolo scorso, l’approccio fenomenologico aveva messo radicalmente in discussione “l’errore di Cartesio” (A. Damasio 1994), cioè il dualismo alla base della filosofia moderna, e gli assunti delle scienze cognitive dell’epoca. Secondo Merleau-Ponty, in particolare, la comprensione della natura umana, inclusa la cognizione, è possibile solo a partire dal corpo, inteso come mezzo privilegiato sia della conoscenza del mondo sia della comunicazione con esso. Il corpo è il luogo attraverso cui passa tutto ciò che percepiamo ed è il fondamento di tutti i nostri processi cognitivi. Qualsiasi conoscenza del mondo è sempre mediata dal corpo e la forma originaria di tale conoscenza non è teorica, ma pratica. 
Negli ultimi trent’anni hanno preso piede le cosiddette teorie dell’embodied cognition (cognizione incarnata), che restituiscono al corpo un ruolo di primo piano nei processi di cognizione e di significazione. A queste proposte fanno da sfondo delle teorie che mettono il corpo all’origine del processo evolutivo di Homo Sapiens e che ha avuto tra i primi sostenitori l’antropologo André Leroi-Gourhan.
In contrasto con il paradigma del cognitivismo classico, l’embodied cognition nega che i processi cognitivi siano riducibili a processi di tipo simbolico e algoritmico e attribuisce, invece, alle proprietà morfologiche del corpo e alle sue interazioni con l’ambiente un ruolo determinante.
Cosa si prova ad essere un pipistrello?, si chiedeva Thomas Nagel nel 1974, proprio negli anni in cui si affermava il cognitivismo. La conclusione era che, per quanto le nostre conoscenze scientifiche ci mettano nella condizione di comprendere la biologia e di descrivere il funzionamento della vita di un pipistrello, tuttavia non potremo mai assumerne il punto di vista. La prospettiva di ogni essere vivente è sempre incarnata nel corpo e ogni esperienza ha un carattere soggettivo ineludibile. 
Va da sé che nel momento in cui si riconosce al corpo un ruolo di primo piano anche nell'elaborazione del pensiero e nella produzione delle opere della mente e della creatività, ecco che si apre la porta alla collaborazione delle scienze che studiano l'uomo in quanto essere naturale e corporeo.


Ambienti mediali e postmediali

Ma uscire dal cervello e coinvolgere il corpo non basta. Perché ogni organismo è situato in un ambiente (Umwelt ) e con esso interagisce (oltre che embodied, insomma, è anche embedded, situato). In più, ogni organismo umano interagisce con il suo ambiente in un modo del tutto peculiare, che è tecnologico, cioè basato sull’uso di tecniche e artifici, e simbolico.
Homo Sapiens è caratterizzato da un patrimonio extra-genetico che si esplica nella produzione di manufatti ed artifici che si sedimentano formando un ambiente peculiare, un ecosistema variegato, fatto di simboli, produzioni espressive, dispositivi mediali. E se per ecologia intendiamo, secondo l’accezione introdotta nel 1866 dal biologo Ernst Haeckel, la scienza delle relazioni che gli organismi viventi instaurano tra loro e con l’ambiente circostante (ecosistemi), ecco che si può parlare di approccio ecologico allo studio di quelle forme espressive che sono le immagini. Perché le immagini non rispecchiamo un mondo ad esse esterno, ma concorrono a formare il mondo di cui sono immagine.
Questa esigenza si rende più sentita ai giorni nostri, in cui il sistema dei media, i dispositivi tecnologici e le produzioni visuali (e non solo visuali) hanno conosciuto una diffusione esponenziale, ipermediatizzando gli ambienti in cui viviamo, generando e modificando pratiche sociali diffuse e plasmando nuovi spazi di operatività e di interazione. In particolare abbiamo assistito a una proliferazione di nuove tecnologie mediali, alla moltiplicazione di canali di distribuzione dei contenuti e a un drastico abbassamento dei costi di produzione e diffusione, alla possibilità infinita di replicarli, manipolarli ed editarli, alla propagazione di siti e app content aggregator, all’ esplosione degli schermi che ha generato molteplici implicazioni, tra cui l’ “effetto Gulliver” (di Gulliverisation of the visual parla Erkki Huhtamo, per definire il costante passaggio da immagini di piccolo formato, come quelle che fruiamo sui display dei nostri smartphone, a immagini di formato gigante, come ad esempio quelle offerte dai grandi flat screens TV o dagli urban screens), alla modificazione in senso aptico e sinestetico dell’interazione con i dispositivi e a una profonda riconfigurazione e rilocazione dell’esperienza spettatoriale (sulla 'spettatorialità diffusa' si veda Abercrombie, Longhurst 1998). 
Scrive Enrico Menduni: 
«La cultura visuale che è stata propria del XX secolo (il primo in cui la narrazione per immagini è stata prevalente rispetto alla cultura alfabetica-gutenberghiana) è ormai il campo aperto di una profonda riconfigurazione. Da un lato i media novecenteschi (televisione e cinema) e i loro ecosistemi narrativi sono coinvolti in una radicale rimediazione, dall’altra emergono plurime esperienze visuali di tipo partecipatorio (gli UGC, i MMORPG, YouTube, i social network). Queste esperienze di produzione, modifica, diffusione, fruizione di immagini di tipo grassroots contribuiscono largamente a determinare e connotare l’ambiente crossmediale e interattivo che in buona parte (ma non completamente) coincide con la cultura visuale di questo secolo». (E. Menduni 2013).

Gli studi di Cultura Visuale del nostro presente si trovano pertanto di fronte a una realtà profondamente modificata rispetto a quella dei loro esordi negli anni Novanta e, per affrontarla, devono adeguare metodi, strumenti e prospettive. Per la loro diffusione e pervasività e per l'incremento delle pratiche partecipative, i dispositivi e i contenuti mediali si configurano effettivamente come un ambiente complesso (culturale, sociale, economico), che continua ad evolversi e ad organizzarsi in equilibrio dinamico, per cui si rende necessario un approccio sistemico di studio, esattamente come quello che è necessario adottare nei confronti di un organismo vivente in rapporto con il suo ecosistema. 

E così si parla di ecologia estetica, di ecologia delle immagini, di ecologia dei media (o, come preferirebbe Richard Grusin, di ecologia della mediazione), mutuando dalla biologia termini come ‘atmosfere’, ‘diffusione virale’, ‘ecosistema’, 'innervare' (verbo già usato da Benjamin). La disciplina che affronta lo studio dei media in quest’ottica intende il concetto di medium in un’ampia accezione, tale da comprendere non solo i tradizionali media della comunicazione – il linguaggio, la scrittura, la stampa, la radio, la televisione, internet, ecc. – ma ogni tecnica e dispositivo di mediazione percettiva, avvicinandosi alla concezione benjaminiana di milieu in quanto ambiente in cui ha luogo la percezione sensibile mediata da un’Apparatur tecnica in costante evoluzione (A. Somaini, 2013). Lo studioso che, sulla scorta delle teorie di McLuhan, per primo coniò l’espressione ‘ecologia dei media’, infatti, Neil Postman, definiva questa disciplina come «lo studio dei media in quanto ambienti», mentre Paolo Granata, autore anch'esso di un saggio dal titolo Ecologia dei media, definisce il medium come «l'habitat in cui ha luogo l'esperienza umana» (Granata 2015).

Da sempre la specie Homo Sapiens ha mediato il suo rapporto con il mondo attraverso artefatti (techne) materiali o intellettivi, in primo luogo il linguaggio.  Tali artefatti estendono il suo sistema sensoriale e cognitivo, radicandosi nella sua corporeità e nelle strutture di pensiero e di azione e riconfigurando altresì il suo ambiente, creandone uno nuovo, che integra e modifica integralmente quello naturale. L’essere umano, infatti, sente e vive il mondo non solo attraverso i suoi strumenti biomorfi (i sensi), ma anche attraverso quelli tecnomorfi, cioè le protesi tecnologiche che espandono il suo sensorio, «innervandosi» nel corpo ed ampliando le capacità percettive e intellettive.
Gli ambienti nei quali la specie umana si è impiantata e sviluppata ha una consistenza ‘mista’, nel senso che si tratta di ambienti naturali (cioè soggiacenti ai vincoli fisici e biologici della natura) e contemporaneamente culturali, configurati dalle infrastrutture materiali e simboliche caratteristiche di questa specie di viventi.
Rinnovando costantemente le sue forme di mediazione con il mondo, l’uomo ha sempre trasformato il suo ambiente e, per effetto feedback, anche se stesso. La produzione visuale, incarnando un insieme di linguaggi, abitudini, modi d’uso e pratiche sociali, fa parte di questo ambiente complesso e dinamico di interazione. Tale nozione di ambiente costituisce lo strumento euristico da far valere come base di una visione sistemica del mondo che ci circonda, compreso quello iconico, rispetto al quale si rende necessaria la convergenza di diverse discipline, nel solco di quella sinergia già richiesta dagli studi di Cultura Visuale, da sempre attenti a convogliare vari campi di studio, dalla storia all’antropologia culturale, dall’estetica alla storia dell’arte, dalla biologia alle scienze cognitive alle neuroscienze, dalla linguistica alla sociologia, dagli studi sulla comunicazione a quelli sui media. E oggi, con la svolta bioculturale, assistiamo al coinvolgimento di scienze come la geologia, la meteorologia e la climatologia, la geografia e la cartografia, la zootecnologia e persino l’entomologia e la virologia.
Questa azione di organizzazione e configurazione del nostro ambiente operata dai media, negli ultimi anni è diventata sempre più capillare e pervasiva. La caratteristica prevalente dei media digitali, infatti, “sta proprio nella loro intrinseca attitudine a costituirsi come spazi inclusivi, o mediascapes, di diversa estensione e qualità: di volta in volta nicchie ecologiche o vere e proprie forme di vita» (P. Montani, D. Cecchi, M. Feyles 2018, p. 12). 
Francesco Casetti così definisce il concetto di mediascape: «un ambiente che promuove o facilita la mediazione tra individui e tra loro e il mondo grazie a una serie di artefatti, prevalentemente tecnologici, che prendono posto in questo ambiente e letteralmente lo "innervano"» (F. Casetti 2018). Come scrive Paolo Granata, «la sfera dei media che ci circonda è per molti versi impercettibile, perché scontata». Per conoscere questa presenza è necessario pensare i media in modo diverso, e cioè non come degli strumenti da utilizzare semplicemente, ma come degli ambienti, «gli ambienti all'interno dei quali conduciamo le nostre esistenze; gli ambienti in cui si formano le nostre esperienze» (P. Granata 2015). 

Il refrain ricorrente della nostra epoca è quello secondo cui viviamo in un mondo di immagini, in una iconosfera, caratterizzata dalla proliferazione degli oggetti e delle pratiche visuali, dalla presenza pervasiva e sovrapposta di dispositivi, dalla loro frammentazione e  collisione, tanto che si parla di condizione postmediale, caratterizzata dal superamento delle specificità del singolo medium e da nuove forme di interazione, fatte di pratiche di rimediazione e di ipermediazione all’interno di contesti ibridi e iperconnessi. Ruggero Eugeni definisce la condizione ‘postmediale’ come caratterizzata dalla scomparsa (vaporizzazione) dei media. Secondo l’autore, infatti, «non è più possibile oggi stabilire con chiarezza cosa è “mediale” e cosa non lo è, né si può definire quando entriamo in una situazione mediale e quando ne usciamo: siamo piuttosto immersi in sistemi e ambienti di relazioni e di scambi» (R. Eugeni 2015). I dispositivi mediali si integrano strettamente agli apparati sociali, i media si ibridano con gli apparati non mediali, la tecnologia entra in rapporto immediato con il nostro corpo diventando indossabile e addirittura impiantabile nelle strutture anatomiche dei viventi, tendendo a minimizzarsi e ad assottigliarsi sempre di più, «fino a sparire all’interno di una rete di apparati, di processi e di pratiche quotidiani che rendono impossibile isolare le componenti mediali da quelle non mediali». I media si fondono con lo spazio e con la nostra vita diventando invisibili, divenendo, appunto, ‘ambiente’. Questa condizione porta Eugeni a parlare di un “epos della naturalizzazione dell’esperienza ipertecnologizzata e ipersocializzata”, che fonde bíos téchne in ambienti ibridi e complessi.

L’iconosfera viene percepita e vissuta come uno spazio d’azione reale e convergente (H. Jenkins 2006), in cui operano soggetti ibridi, consumatori e insieme produttori (prosumer), all’interno di quegli ecosistemi che sono le piattaforme e gli archivi digitali (l'archivio è la forma culturale del nostro tempo secondo Catherine Russell mentre Lev Manovich usa il termine database), in cui si fruiscono e si condividono contenuti visuali di vario tipo, sempre in relazione dinamica rispetto all’intero contesto in cui circolano.

Si pensi, ad esempio, ad alcune forme di narrazione visiva, di fiction cinematografica o seriale, e lo stesso potrebbe dirsi per l’universo del videogioco, dell’informazione giornalistica o del marketing contemporaneo. Il consumo di questi prodotti non si esplica nel modo della fruizione tradizionale. La narrazione non si dà più nella forma del racconto, bensì nella forma dell’ambiente percorribile (un reticolo fatto di oggetti narrativi, prodotti ancillari o paralleli, paratesti, merchandising), all’interno del quale l’utente non consuma semplicemente dei contenuti, ma esplica una vera user experience. Si registra, dunque, il passaggio dallo spettatore a colui che si coinvolge in pratiche partecipative, dallo sguardo esterno alla dimensione immersiva. Francesco Casetti illustra bene questo nuovo modello di fruizione che coinvolge attivamente lo spettatore, sollecitando e favorendo una sua condizione performativa (performance) rispetto a quella tradizionale strettamente ricettiva (attendance) (F. Casetti 2009).

L’approccio ecologico alle immagini è il corollario della logica relazionale che caratterizza la cultura visuale contemporanea, animata da dispositivi e pratiche quotidiane che ibridano, fanno convergere e rimediano una quantità enorme di contenuti visivi e audiovisivi, dando vita a immaginari complessi, all’interno dei quali risulta impossibile distinguere le singole componenti, che in passato erano riconducibili a contesti mediatici diversi e separati (cinema, televisione, giornali, riviste, cataloghi e testi specializzati, gallerie d’arte e musei, ecc.).

In questa visione, la fruizione di immagini non si configura come un rapporto tra un soggetto autonomo e preesistente e un oggetto altrettanto preesistente ma inerte, ma come un’azione performativa all’interno di un ambiente mediale, le cui variabili mutano e si co-determinano nel corso della relazione, dando vita a fenomeni emergenti. Questo significa andare oltre il modello canonico di fruizione per accogliere quello di interazione dinamica e partecipativa. Il fruitore non è un soggetto dotato di un punto di vista privilegiato e collocato in uno spazio astratto, come l’osservatore cartesiano, ma è immerso in una sorta di nebulosa: l’ambiente mediale e ultraconnesso del nostro presente. Tale ecosistema è costituito dall'interazione tra l'ambiente fisico, le tecnologie che lo innervano e le pratiche sociali. Questa interazione condiziona l'insieme e retroagisce sulle singole parti, ridefinendo le loro funzioni e la loro agency.


L’agency delle nuove immagini

Quella oggi in atto sembra insomma una nuova tappa evolutiva, un’inedita forma di adattamento basata sull’interazione totale con le nostre mediazioni. Questa è la condizione essenziale del fare esperienza da parte dell’organismo umano, attraverso una interrelazione vitale, organica, affettiva ed incorporata con i dispositivi mediali. Nel nuovo ecosistema, formato da elementi biotici e abiotici e dai loro continui processi di interazione e di ibridazione, il fruitore di immagini non è semplicemente soggetto alle intenzioni comunicative, lineari e circoscrivibili, dei dispositivi visuali, ma agisce attivamente in senso partecipativo e performativo. I dispositivi mediali, d'altra parte, non sono da considerare le semplici estensioni protesiche del soggetto umano, ma agenti a tutti gli effetti. Non sono collocati nel mondo, ma sono parte altrettanto attiva di esso. 

Nel rapporto tra ambiente mediale, immagini e soggetto, dunque, non è quest’ultimo il solo detentore di agency. Come ribadisce il filosofo Luciano Floridi, «fino a quando ci ostineremo a spiegare Facebook con McLuhan o Internet con Gutenberg, continueremo a non capire la rivoluzione che stiamo vivendo» (https://lettura.corriere.it/organismi-informaticamente-modificati/?fbclid=IwAR1la3YkIvXfQgnOI2EIlmQZuyrextAT1DU-TLeHqCduo5p04SSR-JFZEPI). Scrive ancora Floridi nel suo saggio La quarta rivoluzione. Come l'infosfera sta trasformando il mondo: «nell’interpretare noi stessi come agenti informazionali non ci riferiamo al fenomeno diffuso della “trasposizione all’esterno del mentale” e della sua integrazione con le tecnologie oggi a disposizione. Naturalmente, dipendiamo sempre di più da una molteplicità di dispositivi adibiti a compiti quotidiani, e tutto ciò è degno d’interesse. Tuttavia, la visione per cui dispositivi, strumenti e altri congegni o supporti ambientali possono essere considerati come parte integrante della nostra “mente estesa” è ormai datata. È ancora basata sull’idea dell’agente cartesiano, indipendente e totalmente responsabile dell’ambiente cognitivo, che controlla e utilizza attraverso le sue protesi mentali, da carta e penna allo smartphone, dal diario al tablet, dal nodo al fazzoletto al computer» (L. Floridi 2017).
I media attuali, più che dispositivi deputati a registrare, conservare e trasmettere informazioni e ad estendere protesicamente le facoltà umane, appaiono dei quasi-soggetti, dotati di una certa autonomia, che intervengono nelle pratiche di negoziazione quotidiane, esplicando la loro agency. La quale, afferma ancora Floridi, non sta solo modificando l’essere umano e il mondo; li sta riontologizzando. 

Il tema dell’agency delle immagini è stato al centro degli studi visuali degli ultimi anni, avendo riconosciuto ad esse lo statuto di complessi fenomeni socio-culturali. Dubois parla di immagine-atto, Debray scrive che le «immagini fanno agire e reagire», Freedberg si sofferma sul potere delle immagini, Alfred Gell si interessa al rapporto tra arte e agency, Mitchell si chiede che cosa vogliono le immagini, Bredekamp dichiara che le immagini ci guardano, Elkins analizza il fenomeno delle persone che piangono davanti a un quadro mentre Latour si interessa ai casi di iconoclash e al perché le immagini scatenino così tanto coinvolgimento emotivo.  Gli studi di cultura visuale, con Mitchell in testa, hanno fin dall’inizio cercato di superare il modello di riflessione basato sulla consistenza ontologica dell’immagine a favore di una riflessione sul loro funzionamento all’interno dei contesti e delle pratiche sociali.

L’agire non è limitato al solo soggetto produttore o fruitore, in quanto creatore di forma e di significato. All’interno della nuova ontologia relazionale, l’agency si redistribuisce tra tutti gli elementi coinvolti, compreso l’ambiente mediale e gli oggetti visuali. Questi ultimi, grazie ai dispositivi nei quali circolano e si manifestano, sono diventati delle vere e proprie interfacce attive di interazione. La centralità dell’agency umana ha subito un radicale scossone dall’avvento dell’immagine digitale e dell’intelligenza artificiale. Queste nuove immagini, infatti, hanno mutato il modo di rapportarsi con noi e con il mondo, stravolgendo i codici semiotici, le modalità di visualizzazione e i modelli di spettatore all’interno della moderna cultura visuale. 

I visual culture studies hanno fatto dello sguardo e della visione uno dei loro temi fondamentali. Ma, in quella weltanschaunng, il titolare dello sguardo e del vedere resta il soggetto umano, sebbene vincolato a uno specifico punto di vista, condizionato da un ineludibile inquadramento spazio-temporale ed influenzato dalle condizioni storiche e sociali. A partire dallo sguardo, tale agente attiva una modellizzazione della realtà che lo circonda.
L’immagine tecnica, fin dai suoi albori, ha offerto nuove forme di visione, configurandosi come strumento di potenziamento e di estensione dello sguardo, nonché come esperienza di dislocazione del punto di vista, che per la prima volta iniziava a liberarsi dall’indissolubile legame con gli occhi e dalla costrizione antropocentrica. Ma l’occhio meccanico della fotografia e del cinema, pur essendo "un occhio dotato di capacità analitiche inumane" (J. Epstein), restava comunque privo di pensiero e di memoria. 
Anche le nuove tecnologie digitali, come innervazioni, aumentano le possibilità percettive dei nostri organi di senso, estendendo le nostre capacità di visione. Ma, nel frattempo, la cultura visuale ha cambiato forma. E lo ha fatto staccandosi e rendendosi sempre più indipendente dall’occhio umano, diventando così per larga parte non visibile. L’immagine digitale, infatti, ha una doppia natura: una grafica, e perciò è fruibile dall’occhio umano, e una matematica, e per questo può essere letta ed elaborata dalla macchina e dai nuovi algoritmi di machine vision
L’immagine digitale è un file machine-readible e ‘trascorre’ la maggior parte della sua vita in una forma non accessibile alla visione umana, come insieme di stringhe di codice binario. Per questo Trevor Paglen, uno dei primi artisti e ricercatori ad interessarsi da vicino a questo tema, parla di «immagini invisibili» (T. Paglen 2016), cioè di immagini immateriali che esplicano la maggior parte della loro vita - fatta di passaggi, condivisioni, trasferimento da un supporto all'altro, circolazione in rete - in uno stato che si sottrae allo sguardo umano in favore di uno 'sguardo' macchinico. Ciò con cui abbiamo a che fare è «un occhio nuovo, l’occhio della macchina informatica, radicalmente diverso dall’occhio delle macchine ottiche precedenti» ( S. Arcagni 2018).
Le fotografie che condividiamo sui social network hanno una vita in superficie (la visualizzazione da parte di altri utenti) che configura una pratica umana di tipo sociale. Ma al di sotto dei pixel dei nostri schermi, tali immagini sono contemporaneamente un insieme di dati che vengono convogliati in immensi dataset e processati dai sofisticati algoritmi delle reti neurali.
Le immagini digitali non sono solo immagini, ma sono anche dati, materiale operativo da cui nuovi agenti possono estrarre informazioni. Buona parte dei contenuti visivi che circolano oggi nei dispositivi non sono finalizzate allo sguardo umano. Non è la visione umana il loro obiettivo ed anzi gli umani sono spesso del tutto esclusi da quella che prende il nome di machine-to-machine vision. Allo sguardo umano si affianca prepotentemente un nuovo attore, dotato di una certa autonomia: la machine vision. Ed ecco che se Mitchell si chiedeva 'che cosa vogliono le immagini', Kevin Kelly si chiede invece 'quello che vuole la tecnologia' mentre Ed Finn si interroga a proposito di 'cosa vogliono gli algoritmi'. 
La stessa locuzione, machine vision, ci dà la misura della rivoluzione in atto. Ogni teoria dell’immagine, fotografica o meno, elaborata finora, e ogni teoria della fruizione di essa si fondava sul dato di fatto che l’unico soggetto in grado di vedere e interpretare semanticamente un’immagine fosse quello umano. Oggi, invece, ad esso si è aggiunto un altro attore capace di ‘visione’. La macchina, cioè, non è solo capace di generare forme nuove, ma anche di ‘vederle’, o quanto meno di interpretarne i contenuti informazionali. Sembra piuttosto evidente che qui stiamo parlando di un’altra cosa rispetto alla teoria dell’inconscio ottico di Benjamin, il quale riconosceva al dispositivo fotografico la capacità di mostrare il mondo secondo una modalità diversa rispetto a quella di cui è capace lo sguardo oculare, grazie alla sua facoltà di catturare dettagli ed elementi non visibili all’operatore al momento dello scatto, ma che dopo esigono comunque un soggetto umano che li tragga fuori dalla loro latenza, li riveli e li riconosca all’interno dell’immagine. Nel caso dell’intelligenza artificiale, invece, il riconoscimento lo opera la macchina stessa. Se l’inconscio ottico è la capacità della macchina di potenziare la visione – che però resta umana -, nel caso dell’ intelligenza artificiale è la stessa macchina in grado di ‘vedere’ autonomamente, cioè di processare e interpretare gli input, elaborando informazioni che spesso non condivide con il partner umano e che a quest’ultimo non sono accessibili. 
E tuttavia, pur posizionandosi nella dimensione virtuale e restando sotto la soglia della visibilità, tali immagini risultano tutt’altro che sganciate dalla realtà. Esse, al contrario, sono in grado di operare, di guardarci attivamente, di intervenire nella vita di tutti i giorni, cambiando le proprie funzioni dalla semplice rappresentazione e mediazione all’attivazione ed esecuzione di vere e proprie operazioni, possibili grazie alla manipolazione dei nostri stessi dati, tanto da essere per questo definite dallo stesso Paglen «immagini operative».
L’incessante ricerca di una maggiore automazione si è dunque spinta fino al punto di voler trasformare le macchine stesse da semplici strumenti di trasmissione e riproduzione di informazioni in acuti ed attivi osservatori. Non permettono soltanto la visualizzazione dei dati acquisiti ed elaborati al soggetto umano, ma sono in grado di leggere e di interpretare ciò che vedono, svolgendo in maniera quasi del tutto indipendente funzioni in origine esclusivamente umane: il riconoscimento di forme, linee ed oggetti, l’individuazione di luoghi, la comprensione di scene, l’intercettazione di movimenti.
La convinzione che siamo solo noi umani i veri spettatori che guardano le immagini è ormai solo una credenza ingenua. Le immagini ci guardano, interagiscono con noi, esplicano la loro agency. Esse non rappresentano la realtà, ma agiscono in modo attivo su di essa. Queste immagini non sono solo immagini; sono un occhio, uno sguardo che vede, che vuole, che aspira ad essere autonomo e ad entrare in un rapporto simbiotico con il suo interlocutore umano. I nuovi ambienti mediali sono ambienti partecipati da soggetti di varia natura, umani e non umani, che interagiscono e coevolvono insieme.

 

Criticità

Le teorie estetiche che si sono succedute nella storia sono sempre partite da un’idea di prodotto visuale come oggetto finito, collocato in uno spazio e in un tempo determinati e stabili, sia esso un dipinto, una scultura, una performance, una fotografia. All’interno dell’infosfera ci viene invece chiesto di riconsiderare il paradigma stesso dell’oggetto estetico, il suo modo di darsi nello spazio-tempo, le modalità con cui noi spettatori interagiamo con esso. L’infosfera è un universo interconnesso e privo di confini, la cui temporalità è caratterizzata da una sincronicità che tende alla simultaneità, e da uno spazio fluido e delocalizzato in cui non ha più senso distinguere il reale dal virtuale. All’interno dell’infosfera nulla è realmente stabile e oggettivabile; la sua essenza è piuttosto l’interattività (Floridi 2017). In questa cornice le relazioni sono più fondamentali degli oggetti perché l’essere è interazione.

Il modello teorico della visual culture ha dunque bisogno di una integrazione o di una ristrutturazione, in senso dinamico e relazionale, per adeguarsi a questo nuovo paradigma. E può farlo partendo dal fatto che le immagini, da strumento di mediazione con il mondo, si sono trasformate nella sua materia prima, dalla natura sfuggente, ibrida, insieme fisica e virtuale, materiale e aleatoria e soprattutto affatto inerte o semplicemente riproduttiva, ma operativa, che agisce nel mondo contribuendo attivamente a plasmarlo e a renderlo un ambiente attivo e interattivo. Quel modello teorico degli studi di cultura visuale era ancora saldamente incentrato sul primato della visione umana. Oggi quel modello ha bisogno di essere rivisto, perché il dispositivo della visione si sta configurando in modo diverso; in un modo che va oltre la visibilità. 

Quando nel 1996 uscì il celebre numero della rivista "October" interamente dedicato alla cultura visuale, i due curatori Rosalind Krauss e Hal Foster, nell'introduzione, espressero le loro riserve nei confronti del ricorso all'approccio antropologico da parte dei visual studies, giudicato a-storico, disincarnato rispetto alle logiche economiche e sociali che costituiscono il contesto storico all'interno del quale le immagini e i prodotti della creatività prendono e svolgono la propria vita. E tale rischio sembrerebbe accrescersi con il ricorso a un modello ecologico, che utilizza termini, categorie e metodologie mutuati dalle scienze biologiche e che sembrano astrarre l'oggetto di studio dal contesto storico, socio-politico-economico entro cui si struttura la cultura visuale, introducendo un elemento deterministico e  presunto 'naturalistico' che potrebbe rivelarsi problematico. Se è vero che la cultura è la dimensione biologica di Homo Sapiens, è altresì vero che l'ambiente dell'essere umano, in quanto tecnologicamente mediato, linguistico e simbolico (perciò artificiale), non segue le leggi di adattamento e di continuo aggiustamento, basato sulle risposte di feedback, che regolano gli ecosistemi naturali, perché l'organismo umano non agisce in senso solo adattativo, ma soprattutto progettuale, innovativo e simbolico. 

Come già ribadito in precedenza, l'adozione di una prospettiva ecologica da parte degli studi di cultura visuale dovrebbe potersi emancipare da questa criticità tenendo salda l'impostazione storica che ha caratterizzato i loro percorsi in questi decenni. L'ingresso nell'infosfera - lo ribadisce con forza ancora Floridi (L. Floridi 2017) - non ha significato la fine della storia, semmai l'accesso nell'iperstoria, in un'epoca, cioè, in cui  si è fatta oltremodo stringente la relazione simbiotica tra la società e le tecnologie dell’informazione e della comunicazione (ICT), con le pesanti conseguenze che si è tentato di indicare. Questa iperstoria, però, è diversa dalla storia di prima e anche lo studio della cultura visuale deve adeguare la sua impostazione. Un modello ecologico, in questo senso, vuole rappresentare il passaggio 
- da una ontologia degli oggetti a una ontologia delle relazioni;
- da una concezione moderna della soggettività a quella di una agentività diffusa e interconnessa;
- uno sguardo sistemico più consapevole della complessità dell'oggetto di studio e che pone al centro l'insieme interdipendente dei fenomeni vitali e culturali;
- un approccio largamente interdisciplinare che superi la tradizionale separazione tra scienze naturali e scienze umane.


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