mercoledì 19 agosto 2020

Architetture immaginarie

Isabel Brison, Wanders of Portugal
Isabel Brison, Maravilhas de Portugal (2008)


Generalmente si pensa che la fotografia possa essere divisa in due macro gruppi: la fotografia di realtà e la fotografia di finzione. Nel secondo caso la ‘finzione’ può derivare dal fatto che l’oggetto della foto sia una messa in scena o l’immagine stessa sia frutto di manipolazione.

Tralasciando qui il primo gruppo così come il tema del rapporto della fotografia con ciò che definiamo reale e di come sia labile e permeabile il confine tra i due gruppi citati, focalizziamo brevemente l’attenzione sul concetto di 'finzione', rilevando innanzitutto come questo termine, nella nostra cultura gravata dall'eredità platonica, non riesca a liberarsi di una sfumatura che denota 'falsità' e 'inganno'. A questo proposito, è utile fare una distinzione importante, quella tra fingere (pretend) e far finta (make believe). Se pretend ha un'accezione che significa volontà di ingannare, di dare l'illusione del vero (la pretesa dell'arte condannata da Platone), make-believe significa invece fingere senza intenzione di ingannare, dar vita a un tipo particolare di attività immaginativa.

Fatta questa premessa, il tema di questo articolo intende essere quello della fotografia di architettura che non restituisce immagini di costruzioni e di paesaggi urbani esistenti, ma di finzioni nel senso di make-believe.

Queste produzioni, per comodità, sono state divise in due gruppi: le immagini di architettura derivate da manipolazioni e fotomontaggi digitali e le fotografie vere e proprie di modelli architettonici in miniatura realizzati in studio.

Carl Zimmerman, from Cold City, Exterior with Columns, 2013

In lingua inglese è possibile distinguere tra architectural photography, cioè tra quella fotografia che rimane nel campo dei temi, degli obiettivi e dell’ambito professionale dell’architettura, e photography of architecture, che, come scrive Pedro Gadanho (in Visual spaces of change: unveiling the publicness of urban space through photography and image), sebbene permeata da argomenti relativi all'architettura, non dipende dai discorsi specifici di questa disciplina. 

Fin dalla sua invenzione, la fotografia è stato il principale strumento documentativo e comunicativo della pratica architettonica. Ma lasciando che la fotografia rimanga condizionata e troppo strettamente focalizzata sugli aspetti peculiari e storici dell’architettura, riducendone il ruolo a quello di specchio fedele e strumento di visualizzazione e divulgazione delle sue produzioni, di fatto si finisce per rinunciare alla valenza innovativa e alle intuizioni critiche che il discorso ‘dall’esterno’, portato dalla fotografia, può avere sull'architettura. La fotografia, nei confronti dell’architettura e della rappresentazione dello spazio urbano, può insomma giocare un ruolo molto più attivo e importante che quello di essere semplice specchio e documento.

Tuttavia, nella sua dipendenza dalle esigenze comunicative e promozionali dell’Architettura, come disciplina e come professione, la fotografia ha quasi sempre dovuto limitarsi a pratiche basate su ritratti oggettivi o neutrali di opere architettoniche compiute. Ma la fotografia di architettura può essere più di un semplice strumento di conservazione o descrizione e divenire un luogo di immaginazione, interpretazione e reinvenzione dello spazio urbano, oltre l’assunzione dei principi di verità, di fedeltà o di neutralità come valori primari nella creazione di immagini.

Patrick Hamilton, Redressed Architectures for the City of Santiago (Building # 7), 2007


ARCHITETTURE DIGITALI

Le forme digitali di rappresentazione e manipolazione dell’immagine hanno cambiato – e continuano inesorabilmente a fare - la natura e il ruolo della fotografia all'interno della nostra cultura visiva. Quando è stata inventata la fotografia, la pittura ha derogato ad essa il compito di offrire una rappresentazione realistica, oggettiva e fattuale della realtà. Ma l’evoluzione storica della pratica fotografica è stata fin dall’inizio duplice, alternandosi tra la ricerca dell’obiettività documentale da una parte e l’esplorazione delle proprie possibilità e l’espressione di sé dall’altra. La manipolazione dell’immagine, infatti, ha caratterizzato la fotografia fin dalle origini, ma certamente l’avvento del digitale ha portato le frontiere delle possibilità oltre confini impensabili fino a qualche decennio fa.

L'invenzione di Photoshop nel 1987 è il tassello di una svolta digitale che ha permesso a milioni di persone di manipolare e di mettere facilmente in circolazione delle immagini perfettamente realistiche, il cui rimaneggiamento risulta difficilmente rintracciabile, con tutto ciò che ne consegue nell’ambito delle tematiche trattate dagli studiosi della post verità. Ma questi software si sono anche rivelati dei potenti strumenti al servizio della creatività e dell’immaginazione. Attraverso di essi, gli artisti contemporanei che lavorano con la fotografia hanno potuto esplorare nuove potenzialità del mezzo, lavorando proprio con la rappresentazione o la ricreazione di ambienti architettonici e spazi pubblici urbani. 

Andreas Gursky, Jumeirah Palm, 2008


Così come gli artisti dell’inizio XX secolo ricorrevano ai collage, così quelli contemporanei hanno ampiamente rappresentato e indagato le mutevoli condizioni urbane di inizio del nuovo millennio grazie ai progressi della fotografia digitale, comprese le tecniche di mash-up. A partire dalle opere seminali di Andreas Gurski e Thomas Ruff per arrivare alle creazioni immaginarie di Beate Gütschow, Isabel Brison, Filip Dujardin, Patrick Hamilton, Kobas Laksa, David Trautrimas, Philipp Schaerer, Dionisio Gonzalez, Victor Enrich, Emily Allchurch, Giacomo Costa e tanti altri (molti dei quali hanno partecipato nel 2019 a questa mostra, tenutasi al MAAT di Lisbona), assistiamo a riflessioni e produzioni che hanno reinterpretato la fotografia di architettura in un modo che elude l’approccio oggettivo e favorisce rappresentazioni immaginarie della realtà, cooptando spesso finalità di decostruzione dell’immagine  e narrazioni più politicizzate. Tali lavori hanno aperto nuovi territori alla pratica visiva, influenzando profondamente la nostra comprensione dell’architettura, sia come soggetto classico dell'obiettivo fotografico sia come pratica spaziale.


Giacomo Costa, Atmosfera n.6, 2019


Nel settore dell’edilizia commerciale, il ricorso al fotoritocco e alla creazione tramite sofisticati software di rendering 3D offrono immagini patinate e perfettamente realistiche di edifici impeccabili, asettici, emendati di ogni stonatura, difetto e imperfezione. Anche in riferimento a ciò, alcuni artisti si sono sentiti in dovere di implementare tecniche simili per produrre un commento critico sull'attuale cultura del consumo edilizio. Le loro costruzioni immaginarie rifiutano le nozioni di falsa obiettività, introducendo note di disturbo in grado di provocare straniamento e di mostrare come l’apparente neutralità e asetticità di un’immagine architettonica non sia altro che un costrutto ideologico che occulta le strutture sociali, politiche ed economiche e le relazioni di potere che sono alla base. La creazione di fotomontaggi e collage diventano modi per decostruire quelle creazioni patinate che, nella loro compiuta perfezione digitale, si presentano come oggettive, imparziali, oscurando la loro natura di messaggio capitalista finalizzato a promuovere forme vuote di consumo e mercificazione. Le finzioni visive create dagli artisti assumono pertanto il compito di fornire uno sguardo critico, trasformandosi in interpreti dello spazio architettonico e produrre un diverso tipo di contemplazione delle attuali pratiche di costruzione e di organizzazione del contesto urbano. Esse permettono, in tal modo, una riflessione sul ruolo della fotografia al di là della sua funzione rappresentativa, aprendo la strada a diverse modalità visive in cui il ruolo dell’immagine non è di valorizzare l’opera architettonica, ma di metterla in discussione.


Scenari distopici

Tra le immagini di architettura create attraverso la manipolazione e il collage digitale è possibile distinguere, grosso modo, due filoni: uno costituito da scenari distopici e addirittura post-apocalittici, e un altro in cui predominano atmosfere surreali.


Beate Gütschow, S #14


Al primo gruppo possiamo annoverare la produzione dell’artista tedesca Beate Gütschow, che nel 2007 realizza la serie S , che sta per Stadt  (città), avente come riferimento la fotografia architettonica e documentaria in bianco e nero degli anni '50 e '60. In giro per le città del mondo, tra cui Berlino, Chicago, Kyoto, Los Angeles, New York e Sarajevo, Gütschow scatta centinaia di fotografie analogiche, che poi sintetizza in digitale realizzando collage che costruiscono uno spazio tanto cosmopolita quanto alienante, familiare ed estraneo nello stesso tempo. Riconfigurando gli elementi architettonici provenienti da diverse aree del mondo, l’artista crea uno spazio visivo finzionale, operando quasi come un pittore alle prese con una tela bianca; il suo lavoro è come quello dei paesaggisti che prendono spunto dall'osservazione della realtà ma poi creano il lavoro finale in studio come sintesi di realtà e memoria. Lei stessa si riferisce alla sua pratica come "pre-fotografica". Se il fotografo tradizionale è vincolato allo spazio e al tempo in cui viene scattata la fotografia, questo modo di operare permette di combinare immagini di tempi diversi e di varia provenienza geografica. In questo modo l’autrice costruisce la sua visione della realtà, perché anche se ogni elemento che ci presenta in queste immagini dettagliate è un riferimento a un oggetto reale, il quadro nel suo insieme è stato interamente immaginato e costruito da lei.

Quella di Beate Gütschow  è una riflessione sugli spazi urbani della modernità, sulle immagini che li hanno documentati e su come la nostra percezione visiva possa essere influenzata dalla conoscenza preliminare di altre immagini. Benché a prima vista possa ravvisarsi un richiamo alla fotografia di architettura della Scuola di Düsseldorf, in realtà le immagini della  Gütschow  ne costituiscono l’antitesi, in quanto respingono l’approccio documentario al mezzo fotografico per mettere radicalmente in discussione la natura rappresentativa della fotografia stessa.


Beate Gütschow, S #10


Le fotografie digitali di grande formato mostrano costruzioni monumentali in ambienti desolati: blocchi di cemento grigio, sotto un cielo altrettanto grigio, posti in mezzo al nulla. La presenza umana è rarissima e alquanto marginale, sperduta tra le costruzioni imponenti. L'osservatore si sente quasi al cospetto di un paesaggio post-apocalittico sopravvissuto all’uomo e alla natura, vagamente collocato nel futuro, anche se risulta alquanto ambigua sia la collocazione spaziale che quella temporale di quegli spazi urbani: forse in questo caso si adatta bene l’espressione, troppo abusata, di non-luoghi teorizzata da Marc Augé, nel senso che questi edifici non solo non esistono nella realtà, ma sono costruiti in modo tale che restano oscure sia la loro funzione che la loro accessibilità. 

A prima vista le immagini restituiscono paesaggi urbani verosimili e realistici. E' solo a un'attenta osservazione che rivelano la propria straniante ambiguità. Alcuni edifici contraddicono le regole architettoniche di base; molti elementi e sezioni risultano familiari, ma la combinazione insolita dell'insieme rende impossibile contestualizzarli. Sono nello stesso tempo tanti luoghi fusi insieme e nessuno specifico, in quanto la Gütschow  rimuove ogni indizio o elemento che possa essere riconoscibile. L’impressione prevalente è quella di essere di fronte ai resti architettonici di un fallimento. Le utopie della modernità e dell'architettura modernista così come le fantasie progettuali degli anni '70 di espansione urbana, basate su una visione del mondo scientista e tecnocratica, mostrano la loro decadenza: ciò che resta sono grigie costruzioni di cui non si capisce la funzione, muri logori, macchine rovesciate e rare presenze umane, che vagano sperdute ed estranee al tutto, come ‘fuori luogo’.

Sito dell'autrice: https://beateguetschow.de/s-series/

Isabel Brison, Maravilhas de Portugal (2008)


Isabel Brison
è un’artista portoghese che lavora con la fotografia digitale, creando dei collage che vogliono soprattutto rappresentare uno sguardo critico sulla condizione urbana del Portogallo e sulle discrepanze tra i vecchi edifici degradati che fanno parte dell'identità del paese e la massiccia costruzione di nuovi fabbricati. Per fare questo, crea collage digitali con frammenti di edifici vecchi e nuovi, che si presentano come fantasie kitsch, ibridi di strana bellezza, vicini sia all'architettura dello spettacolo quanto a quella del terzo mondo.

Isabel Brison utilizza il fotomontaggio come strumento per la manipolazione dello spazio in senso progettuale, non limitato alla creazione di finzioni ma focalizzato sul tema che rimanda all'impatto dello sviluppo e della crescita dei centri urbani nell'era del capitalismo. La materia prima del suo lavoro è principalmente la città di Lisbona mentre le idee di base sono quelle di rovina e periferia. Le sue manipolazioni digitali sono dei conglomerati di vari tipi di costruzioni, che compongono case e fortezze immaginarie utilizzando frammenti di edifici abbandonati o degradati, fino a creare un corpo strano e schizoide che si insedia in una zona di confine, in un territorio indefinito, posto ai margini, offrendo l’immagine di un sobborgo consacrato a una poetica del caos e che è allo stesso tempo uno spazio di libertà.

Nel suo lavoro Maravilhas de Portugal (2008), espone una serie di immagini allegoriche che sono anche delle vere e proprie finzioni politiche in quanto rievocano la piramide sociale. Le enormi costruzioni sono formate da molteplici frammenti dove gli edifici più poveri e degradati si trovano alla base mentre parti di abitazioni più lussuose si stagliano in alto.

Queste immagini fanno parte di un nuovo territorio nella comunicazione dell'architettura, divenendo l’oggetto centrale di riflessioni ideali e politiche.

Sito dell'autrice: https://isabelbrison.com/work


Emily Allchurch, Urban Chiaroscuro n.4 (after Piranesi)

Emily Allchurch è un’artista inglese che realizza collage fotografici – che un critico del Financial Times ha definito “estremi” – per ricreare dipinti e stampe di antichi maestri, ma aggiornando gli originali per creare un dialogo con il passato e una narrazione sociale dei nostri tempi. I suoi lavori nascono tutti da viaggi, durante i quali realizza centinaia di fotografie, da cui preleva dei frammenti che assembla insieme per creare un nuovo spazio "immaginario". Gli strumenti utilizzati per fondere tutti i frammenti e modulare colore, contrasto, prospettiva, messa a fuoco, luci e ombre richiedono l'occhio e l'abilità di un pittore, dove però la tela tradizionale viene sostituita dallo schermo di un computer. 

Ogni opera, esposta tramite lightbox, ripropone dunque un viaggio, compresso in un'unica o in poche scene. I collage fotografici che ne derivano catturano dettagli della vita, della cultura, degli ambienti urbani del nostro tempo nella forma e composizione di opere del passato, dando modo di riflettere sul passare del tempo e sui cambiamenti che apporta al paesaggio e allo stile di vita di un paese.

Nel 2011, con la serie Tokyo Story ha reso omaggio all'incisore giapponese Utagawa Hiroshige e alla sua ultima grande opera Le Cento Famose Vedute di Edo (1856-58), mettendo in evidenza i mutamenti della società e dei costumi di quel paese.


Emily Allchurch, Babel Hong Kong, 2018

Urban Chiaroscuro (2007), si ispira alla serie di acqueforti di Giovanni Battista Piranesi Carceri d'Invenzione (1745-61 ca.) per esplorare le pratiche di restrizione sociale, ordine e controllo, sperimentate oggi nelle città europee di Londra, Roma e Parigi. E sempre ad alcune stampe di Piranesi si ispira la serie Architectural Capricci (2014 – 2018), che mette in relazione l'Italia con il Regno Unito, riprendendo la tradizione del Grand Tour. Un’opera come Sic Transit Gloria Mundi (after Piranesi), che cita la Vista immaginaria dell'antica intersezione tra la Via Appia e la Via Ardeatina (1756) dell’incisore italiano, è costruita a partire dai frammenti architettonici dell'antichità classica fotografati a Roma e mescolati con quelli del passato e presente di Londra, capitali di due imperi entrambi crollati e che ora esibiscono le proprie rovine, come monito lasciato dal tempo.

Un topos ricorrente nell’opera della Allchurch è la "Torre di Babele", una costruzione che consente di rappresentare più punti di vista e strati di storia all'interno di un'unica struttura. Tower of London (after Bruegel) 2005, la prima della serie, ricrea la Torre di Babele di Pieter Bruegel (1563) a partire da fotografie realizzate a Londra. La Torre di Babele racconta la storia dell'Antico Testamento che spiega, in forma mitica, l’origine delle diverse lingue dei popoli. Analogamente, il lightbox di Allchurch esplora le diversità religiose e culturali della capitale, all'indomani degli attentati terroristici del 2005. 

Dieci anni dopo Allchurch ha rivisitato ancora il tema in Babel London (after Bruegel) 2015, che punta l’attenzione sul boom immobiliare che ha travolto la capitale negli ultimi anni, prima della Brexit. La città è infatti raffigurata come un monumentale cantiere, che promette un futuro più verde. Ma chi ne beneficerà? La composizione di queste torri mette in evidenza un’evidente disparità sociale ed economica attraverso i frammenti che compongono l’edificio, che alla base sono poveri e degradati e diventano sempre più ricercati e lussuosi man mano che ci si eleva verso la parte alta.

Stesso discorso per il lightbox Babel Hong Kong (2018), liberamente ispirato alla Torre di Babele del 1595 del pittore fiammingo Lucas van Valkenborch e alle antiche tradizioni pittoriche cinesi. Centri commerciali, templi, case popolari, cantieri edili e superstrade congestionate si accalcano nei livelli inferiori, mentre gli edifici di lusso svettano in cima.


Emily Allchurch, The lion and the Phoenix, 2020

Nel 2019, dopo un lungo periodo di viaggio tra l’Italia e la Cina, lungo l’antica Via della Seta, nasce la serie Trading Places, che si ispira alla pittura veneziana del XVI secolo e alla pittura di corte cinese, ma anche alle Città invisibili di Calvino, e che mette in relazione l’antico porto commerciale di Venezia con alcune città portuali cinesi, esplorando temi come la globalizzazione, il turismo di massa e il commercio internazionale. Una di queste opere, The lion and the Phoenix, è stata realizzata nel marzo 2020, in piena pandemia da COVID-19, per cui l’immagine è totalmente priva di presenza umana. Le persiane sono abbassate, i tavoli e le sedie sono accatastati e le barche turistiche sono ormeggiate, mentre da una finestra pende uno striscione con il disegno di un arcobaleno e la scritta "Andrà Tutto Bene".


David Trautrimas, Spyfrost Project, 2010


David Trautrimas è un artista canadese il cui lavoro esplora temi legati all'architettura.

Nella sua serie Habitat Machines (2008), ha smontato, riassemblato, fotografato e manipolato digitalmente oggetti come aspirapolveri, macchine da caffè, bilance, frullatori e altri elettrodomestici per creare immaginarie strutture residenziali, che spingono i confini della fisica e che, se da una parte sono sorprendentemente originali, dall’altra risultano paradossalmente familiari in virtù delle loro origini.

Nella serie Spyfrost Project (2010), usa le stesse tecniche per trasformare frigoriferi, tosaerba e lavatrici in installazioni militari top secret e apparentemente futuristiche che incombono sui paesaggi circostanti, deserti e dall’aspetto post apocalittico. Le immagini sono basate sul design industriale dell'era della Guerra Fredda, creando forme ibride composte da architettura e oggetti domestici, che mettono in relazione lo sviluppo della cultura consumistica indotta dal capitalismo e il militarismo del dopoguerra, facendo emergere l’inestricabile paradosso del nesso tra progresso e violenza, tra sviluppo capitalistico e ideologia della guerra.

Il sito dell'autore: http://www.trautrimas.ca/


L’artista polacco Kobas Laksa, dopo aver acquisito una certa notorietà per la serie Projekt miejski Warszawa / Urban Projects Warsaw (2004) - comprendente fotografie scattate in varie località di Varsavia e poi trasformate in collage fotografici digitali - nel 2008 partecipa, insieme a Nicolas Grospierre, al progetto Hotel Polonia , premiato con il Leone d'Oro alla XI Biennale Internazionale di Architettura di Venezia con la serie The afterlife of building.
Il progetto si focalizza su sei edifici, diversi tra loro sia per stile architettonico che per funzionalità, realizzati in Polonia negli ultimi anni: il Santuario di Nostra Signora delle Pene a Licheñ, la Biblioteca Universitaria, il Marina Mokotow, il Metropolitan, il Rondo 1, il Terminal 2 dell’Aeroporto Internazionale Chopin a Varsavia. Grospierre realizza per ciascuno di essi degli scatti che ne riproducono l’aspetto attuale, mentre Kobas Laksa, attraverso manipolazioni e fotomontaggi digitali, mostra come essi potranno apparire in futuro, offrendone immagini che oscillano tra umorismo dissacrante e inquietante distopia. Il Terminal 2 del nuovissimo aeroporto internazionale Chopin di Varsavia, ad esempio, viene trasformato in un'enorme stalla popolata da mucche ed oche, la Biblioteca dell’Università di Varsavia viene adibita a gigantesco centro commerciale, il palazzo per uffici Metropolitan, progettato da Norman Foster, diviene una prigione, l'esclusivo complesso residenziale Marina Mokotów viene trasformato in un complesso di alloggi per rifugiati.

Kobas Laksa, RONDO 1, da The Afterlife of Buildings

Grandiose costruzioni, che oggi si stagliano nel panorama cittadino, esibendo l’orgoglio e la fede nel loro prestigio architettonico, nei collage digitali vengono sovrastate da ulteriori costruzioni che proliferano in verticale e vengono stravolte dal passare del tempo, che soprattutto ne cambia la funzionalità, privando gli edifici di ordine e armonia e riducendoli a realtà caotiche immerse in paesaggi saturi e confusi.
D’altra parte il fine di Nicolas Grospierre e Kobas Laksa è proprio quello di ridimensionare le pretese di eternità di queste superbe architetture, che esibiscono la propria supponenza all’interno del contesto cittadino come se i cambiamenti non le riguardassero. La riflessione degli autori, in particolare, si focalizza sulla funzionalità degli edifici nel momento in cui vengono a scomparire le esigenze per cui sono stati creati.
A prima vista, è una visione del mondo post-apocalittica, eppure i curatori della mostra si sono chiesti se in realtà non fosse quello il corso plausibile degli eventi: cosa succederà alla Biblioteca dell'Università di Varsavia quando tutti i libri saranno digitalizzati? E i grandiosi palazzi per uffici quando il mercato immobiliare speculativo crollerà o cambierà il modello del lavoro d'ufficio? Che ne sarà della Basilica di Licheń quando i polacchi smetteranno di andare in chiesa? Il progetto si inserisce dunque nel dibattito sulla impermanenza, o fluidità, dell'architettura e sul modo in cui i cambiamenti nelle condizioni storiche, sociali e ambientali potrebbero modificare i nostri edifici.
In The Afterlife of Buildings, lo spettatore si confronta con un mix caotico di identità polacche passate, presenti e future. Creando una visione sul futuro di Varsavia, gli artisti riflettono sulla sua storia, sui fantasmi incombenti del passato socialista, la sua identità capitalista e globalizzata, la precarietà del suo presente, inserendo al contempo la città in una narrativa globale sulla sostenibilità e il fallimento dei sogni ideologici e delle utopie moderniste. Le identità del passato affiorano in questi ritratti futuristici di Varsavia e producono un assemblaggio ibrido della sua storia, delle sue memorie collettive e delle sue amnesie, dei suoi sogni e dei suoi incubi per un futuro ormai privo di ogni progetto utopico orientato al progresso. Il futuro non è più un orizzonte coerente di sviluppo, e non è neanche un deserto post-apocalittico, ma un miscuglio ambivalente e idiosincratico di ansie e memorie, che da una parte rivela il desiderio di aggrapparsi al passato e di affermare l'identità nazionale di fronte a quelle che sembrano forze omogeneizzanti, come il consumismo, e dall’altra l’altrettanto forte bisogno di cancellare quel passato per essere uguali agli occhi dell'Occidente.

Kobas Laksa, Roller Coaster Warsaw (2010)

Un progetto successivo di Kobas Laksa è Roller Coaster Warsaw (2010), una serie di collage fotografici presentata sotto forma di proiezione multimediale e di lightbox. Anche qui le immagini offrono dei panorami urbani assolutamente saturi e caotici e, in questo caso, indubbiamente post-catastrofici. L'intero spazio sembra un gigantesco luna park che è impazzito ed è proliferato invadendo tutta la città e divorando il tessuto degli edifici. Ovunque ci sono cumuli di terra, lastre di cemento, assi, porte divelte, poster e striscioni pubblicitari sporchi e strappati. Nelle immagini panoramiche, caratterizzate da horror vacui, quasi non è rimasta nessuna traccia delle strade e dei marciapiedi.
Gli edifici si sovrappongono e si intersecano in un miscuglio cacofonico dove viene a perdersi ogni criterio di funzionalità e di organizzazione dello spazio urbano. Domina su tutto l'architettura d'intrattenimento, trasformando la città in un grottesco e inquietante parco di divertimenti. Facile leggerci un riferimento al rapido e caotico sviluppo cui la città di Varsavia è andata incontro negli ultimi anni e che ha affidato i paesaggi urbani alla predazione del libero mercato e della cementificazione incontrollata.


Visioni surreali

Lo spagnolo Victor Enrich, laureato in Architettura ed esperto in grafica 3D, è un genio del rendering che trasforma le sue fotografie di edifici e palazzi reali in fantasmagorie impossibili, che sfidano le leggi della fisica e persino l’immaginazione umana.

Edifici che si flettono, si curvano, si arrotolano su se stessi, si dividono in due, sputano fuori piani, scale e balconi. E ancora autostrade verticali, palazzi eretti su pezzi di roccia capovolta, accostamenti improbabili di architetture diverse e lontane. Edifici che prendono la forma di un cartoccio di patatine o di una colt puntata, materializzando nel paesaggio urbano, non solo nelle immagini ma anche nelle sue architetture, i simboli di una civiltà.


Victor Enrich


Molte di queste fotografie sono state scattate tra Tel Aviv, Riga e Monaco, formando una stravagante collezione chiamata City Portraits (2011), mentre nel 2013 Enrich produce NHDK, una serie di manipolazioni differenti dello stesso edificio, l’hotel NH Deutscher Kaiser di Monaco di Baviera. Attraverso un software che crea immagini tridimensionali, Victor ha stravolto l’edificio alberghiero in 88 modi diversi: l’hotel si piega, si capovolge, si sdoppia, si gonfia ed esplode persino in minuscoli frammenti.

In genere Enrich procede creando un rendering 3D dell'edificio fotografato - un processo manuale che può richiedere settimane - quindi lo ricostruisce digitalmente, piegando, curvando e posizionandone l'immagine tridimensionale, esplorando tutte le possibilità di manipolazione. "È un modo bellissimo per conoscere l'architettura di un particolare edificio", ha dichiarato l’autore.

Sito dellautore: http://victorenrich.com/

Filip Dujardin, Untitled, 2007

Il belga Filip Dujardin realizza edifici virtuali utilizzando Google SketchUp (uno strumento di modellazione 3D) e Photoshop. In questo modo realizza collage digitali ("Fictions" si intitola il libro che ha pubblicato) manipolando fotografie di edifici reali della regione intorno a Gand, in Belgio. Le costruzioni ignorano le leggi della fisica, sfidando la gravità e i vincoli imposti dalla materia, per creare composizioni architettoniche caratterizzate dalla proliferazione geometricamente controllata di moduli compositivi.
Sito dell'autore: http://www.filipdujardin.be/


MODELLI IN MINIATURA

Numerosi sono anche gli artisti che creano finzioni architettoniche, ma non manipolando le immagini al computer, bensì realizzando fotografie vere e proprie di modelli in miniatura, oggetti costruiti in studio e aventi una propria concretezza materiale e spaziale.

James Casebere, Mosque (After Sinan) # 2 , 2006

E' quello che fa James Casebere, un vero pioniere della fotografia come messa in scena. Lavora creando modelli di edifici, che costruisce minuziosamente nel suo studio e poi utilizza come soggetto per le sue fotografie, che stampa in larga scala. Il suo è un approccio multimediale e multimaterico, che combina scultura, architettura, design e fotografia, creando ambienti che nelle immagini acquistano un aspetto inquietante, sempre deserti e privi di ogni presenza umana.
Le miniature imitano l'aspetto di istituzioni archetipiche (casa, scuola, biblioteca, prigione, luogo di culto) o tropi architettonici (tunnel, corridoi, archi). Nelle fotografie, ravvicinate al punto da non permettere all'osservatore di percepire la scala delle dimensioni, questi modelli appaiono a prima vista delle strutture reali. Ma a guardare con attenzione, la finzione si rivela ben presto, evidenziata in particolare dal sapiente uso di luci e ombre, procurando un effetto di straniamento.
Come i collage digitali, con la loro valenza distopica, anche le immagini di Casebere costituiscono un giudizio critico sull'architettura e sul processo di urbanizzazione propri della modernità oltreché su un modello di sviluppo che ha portato profondi cambiamenti climatici (molte delle sue fotografie mostrano edifici con pavimenti inondati d'acqua, a richiamare il problema dell'innalzamento in atto del livello dei mari) oppure. La serie che ha dato vita alla mostra The Levant propone architetture al confine tra Medio Oriente e Occidente, riflettendo così le influenze permanenti tra il mondo giudeo-cristiano e quello islamico mentre Flooded Cells si ispira alle storie dei prigionieri arrestati nell'ambito della politica americana "Extraordinary Rendition" (trasferimenti speciali) messa in atto dopo gli eventi dell'11 settembre 2001. James Casebere ha immaginato le celle delle torture basandosi sulle testimonianze scritte dei prigionieri. L'acqua - che è stato lo strumento principale di quelle torture - invade questi spazi, quasi fino a farli sparire, così come sommersi sono rimasti a lungo dalla copertura del segreto di stato.

Abadia (from Lower Left), 2005


Queste immagini di miniature rappresentano altresì un'acuta riflessione sul discorso fotografico, sulla sua pretesa di proporsi come rappresentazione oggettiva della realtà, una pretesa che viene messa in discussione alla base: nel mentre, infatti, è fatto salvo il noema barthesiano dell'oggetto reale posto davanti all'obiettivo, è proprio la consistenza di tale oggetto, la sua ontologia, a subire un colpo radicale. La fotografia ci offre un'illusione di verità e mette alla prova la nostra percezione della realtà.


Carl Zimmerman è un artista canadese, che adopera sia l’installazione che la fotografia per esplorare un tipo particolare di architettura, quella monumentale, istituzionale e industriale. A tal fine, egli costruisce in studio dei modelli di edifici, li fotografa e poi elabora le immagini in digitale. L’oggetto del suo lavoro è dunque la creazione di spazi fittizi, di "utopie architettoniche, rovine immaginarie di mondi immaginari". 
I suoi progetti principali sono Lost Hamilton Landmark (1997), Landmark of Industrial Britain (2006) e Cold City (dal 2010) e comprendono ciascuno una serie di fotografie di interni e di esterni di giganteschi edifici, molto simili a quelli disegnati dall'architetto francese Étienne-Louis Boullée nel diciottesimo secolo, o a quelli che Albert Speer aveva progettato per il Terzo Reich nel ventesimo. Le poche presenze umane contenute in queste immagini appaiono del tutto inessenziali, schiacciate dalla maestosità e dal vuoto delle costruzioni.

Carl Zimmerman, Landmark of Industrial Britain, Science Building


Le stampe digitali risultanti, spesso virate in seppia, assomigliano molto alle incisioni architettoniche del XIX secolo e per questo si leggono, a prima vista, come documenti storici. L'effetto è quello di un'illusione convincente per lo spettatore, anche se non può resistere a un esame accurato e critico delle immagini.  
Si tratta, come anticipato, di architetture finzionali, di maquette costruite in studio e poi spostate all'esterno per essere esposte alla luce naturale e ai paesaggi che fanno da sfondo. Lost Hamilton Landmark documenta una storia immaginaria e alternativa della città natale dell’autore, Hamilton, in Ontario, mentre Landmark of Industrial Britain mostra delle strutture monolitiche vuote, edifici pubblici ambientati nell’Inghilterra del diciannovesimo secolo, in piena rivoluzione industriale. Il lavoro più recente, Cold City, esplora invece un altro paesaggio architettonico semi-immaginario, quello a cui l'America della Guerra Fredda aveva scarso accesso: le città "segrete" dell'Unione Sovietica, siti industriali e militari altamente protetti, situati in regioni remote del paese.  
  

Carl Zimmerman, from Cold City, Interior with Columns, 2013


Le fotografie di Zimmerman rappresentano dunque edifici pubblici e istituzionali (l’ospedale, l’archivio, il museo, i bagni pubblici, il mausoleo, ecc.) associati a un luogo particolare durante un periodo storico specifico. L’autore adopera il linguaggio architettonico neoclassico per conferire credibilità e autorevolezza alle sue costruzioni, per convincere il pubblico che questi edifici una volta esistevano davvero e che ora sono in rovina da qualche parte, monumentali, sublimi e vuoti. Nello stesso tempo ne indaga il radicamento nell'immaginario comune e negli schemi utopici e archetipici in cui tali spazi sembrano intrecciati con i nostri desideri più elementari, quasi riflessivi, di comunità, ordine, sicurezza o senso di permanenza. Il Neoclassicismo, infatti, era stato lo stile architettonico adottato sia dagli stati totalitari europei (da quello nazi-fascista ma anche da quello stalinista), che dagli Stati Uniti di Franklin Roosevelt e dal Canada, paesi in cui quello stile era divenuto sinonimo del modello democratico della Grecia ateniese. 
In Landmark of Industrial Britain non solo gli edifici sono fittizi, ma l'intera società che rappresentano non è mai esistita. Zimmerman propone una storia alternativa del XIX secolo, una storia in cui si è avverato l'ideale – preconizzato da Marx ed Engels - di uno Stato operaio nella nazione industriale più avanzata del tempo, cioè la Gran Bretagna. Questi edifici sono di proporzioni gigantesche e la loro sublime desolazione evoca l'estetica di una architettura utopica quanto totalitaria. La nota peculiare di queste immagini è che il senso di rovina da esse emanato non è dato dalla rappresentazione del cedimento strutturale o del disfacimento degli edifici, ma proprio dalla loro grandiosità, dal loro monumentale silenzio e desolazione.

Sito dell'autore: http://www.carlzimmerman.ca/


Frank Kunert, Drive-in


Il tedesco Frank Kunert costruisce anch'egli dei veri e propri modelli in miniatura, con cura meticolosa, che poi fotografa. Le costruzioni sono assurde perché contravvengono alla logica, all'uso abituale che facciamo delle case e degli edifici, mostrandone d'altra parte il lato surreale, come l'eccessiva compressione spaziale e funzionale delle case moderne. Spesso, i suoi small worlds non fanno altro che sovvertire l'usuale distinzione che facciamo tra ambienti esterni ed interni. E così troviamo gabinetti nella strada e autostrade che entrano dentro le case, trampolini che si allungano dalle finestre e case abitate ricavate in un pilone. Niente più separazione netta tra privato e pubblico, tra intimità ed esteriorità, mentre gli universi domestici e quelli urbani sono stravolti dalla logica dell'assurdo.


Anticamente il palinsesto era una tavoletta su cui si poteva cancellare quanto scritto per scriverci nuovamente oppure un manoscritto su papiro o pergamena che conservava tracce di una precedente scrittura cancellata tramite lavaggio e raschiatura. Il termine indica pertanto qualcosa che viene riutilizzato, ma che reca ancora tracce visibili della precedente scrittura. Ed è in tale accezione che questo termine dà il titolo a un'opera dell’artista spagnolo Emilio Pemjean, un lavoro a metà tra installazione, scultura, fotografia e video. La serie Palimpsesto è composta da fotografie realizzate dopo aver meticolosamente costruito modelli architettonici in miniatura di luoghi appartenenti a edifici ormai distrutti, ma entrati nella memoria collettiva in quanto riprodotti in alcuni capolavori della pittura, da Las Meninas di Velasquez a Lezione di Musica di Vermeer a La camera da letto di Arles di Van Gogh.

Emilio Pemjean, Palimpsesto I


I modelli in miniatura ricreano solo lo spazio architettonico, spogliato di ogni ulteriore elemento, persino del colore, poi fotografato enfatizzando le fonti di luce delle scene dipinte. A prima vista, le immagini di Pemjean, essenziali ed asettiche, appaiono anonime stanze di vita quotidiana e sono accompagnate esclusivamente da un numero progressivo oltre alle informazioni generiche che riportano il luogo, la data di costruzione e di distruzione dell’edificio. Si tratta però ben più di una narrazione poetica del vuoto e della luce, in quanto stimola una riflessione sul tempo, sui processi di trasformazione, sul concetto di presenza e assenza, su come si costruisce la rappresentazione e la memoria collettiva dei luoghi.
Si tratta di un lavoro di decostruzione della pittura attraverso l'architettura e la fotografia, che ci rende le immagini familiari e nello stesso tempo estranee. In questo gioco alchemico di trasmutazione dei linguaggi si passa di scrittura in scrittura, dall'architettura alla pittura, alla scultura e infine alla fotografia. Lo spazio vuoto fotografato è appunto un palinsesto che conserva le tracce di una o più scritte sovrapposte e parzialmente cancellate. E così questa serie di fotografie mette in scena una drammaturgia del tempo che cerca di recuperare l’essenza primitiva dello spazio, il senso del vuoto da cui nasce un’architettura. E nello stesso tempo la nostra percezione non può fare a meno di avvertire i fantasmi, che abitano la nostra memoria, aggirarsi tra quelle pareti e di notare le tracce del tempo che si sono sedimentate in quei luoghi, benché spogliati di tutto. 

Emilio Pemjean, Palimpsesto IV


Insieme alla fotografia, il progetto viene presentato nelle mostre includendo i modelli in miniatura e dei video (uno per ogni spazio). I modelli sono contenuti in un cubo bianco e si può guardare al loro interno attraverso una piccola apertura frontale in un approccio fisico individuale mentre i video riportano le registrazioni fotografiche di quegli spazi al variare della luce del sole durante la giornata. 
Il gioco di scala tra il modello e l’immagine che lo riproduce sembra una mise en abîme che ci riporta alla questione fondamentale della rappresentazione fotografica: qual è il suo rapporto con la realtà che rappresenta? La fotografia non è qui intesa come un meccanismo capace di cogliere il “momento decisivo” e abbandona la sua tradizionale valenza documentaria, introducendo dubbi su ciò che vediamo e ingenuamente accettiamo come reale. Il lavoro di Pemjean va oltre la concezione della fotografia come neutra riproduzione esatta della realtà, ponendosi come strumento di analisi critica dello spazio.


Altri artisti che realizzano fotografie di modellini in miniatura (o in scala reale) sono Thomas Demand, Oliver Boberg, Emilio Pemjean, Nicolas Moulin, Edwin Zwakman e altri.
 
Edwin Zwakman, Dijk II, 2013

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