Isabel Brison, Maravilhas de Portugal (2008) |
Generalmente si pensa che la fotografia possa essere divisa in due macro gruppi: la fotografia di realtà e la fotografia di finzione. Nel secondo caso la ‘finzione’ può derivare dal fatto che l’oggetto della foto sia una messa in scena o l’immagine stessa sia frutto di manipolazione.
Tralasciando qui il primo gruppo così come il tema del rapporto della fotografia con ciò che definiamo reale e di come sia labile e permeabile il confine tra i due gruppi citati, focalizziamo brevemente l’attenzione sul concetto di 'finzione', rilevando innanzitutto come questo termine, nella nostra cultura gravata dall'eredità platonica, non riesca a liberarsi di una sfumatura che denota 'falsità' e 'inganno'. A questo proposito, è utile fare una distinzione importante, quella tra fingere (pretend) e far finta (make believe). Se pretend ha un'accezione che significa volontà di ingannare, di dare l'illusione del vero (la pretesa dell'arte condannata da Platone), make-believe significa invece fingere senza intenzione di ingannare, dar vita a un tipo particolare di attività immaginativa.
Fatta questa premessa, il tema di questo articolo intende essere quello della fotografia di architettura che non restituisce immagini di costruzioni e di paesaggi urbani esistenti, ma di finzioni nel senso di make-believe.
Queste produzioni, per comodità, sono state divise in due gruppi: le immagini di architettura derivate da manipolazioni e fotomontaggi digitali e le fotografie vere e proprie di modelli architettonici in miniatura realizzati in studio.
Carl Zimmerman, from Cold City, Exterior with Columns, 2013 |
In lingua inglese è possibile distinguere tra architectural photography, cioè tra quella fotografia che rimane nel campo dei temi, degli obiettivi e dell’ambito professionale dell’architettura, e photography of architecture, che, come scrive Pedro Gadanho (in Visual spaces of change: unveiling the publicness of urban space through photography and image), sebbene permeata da argomenti relativi all'architettura, non dipende dai discorsi specifici di questa disciplina.
Fin dalla sua invenzione, la fotografia è stato il principale strumento documentativo e comunicativo della pratica architettonica. Ma lasciando che la fotografia rimanga condizionata e troppo strettamente focalizzata sugli aspetti peculiari e storici dell’architettura, riducendone il ruolo a quello di specchio fedele e strumento di visualizzazione e divulgazione delle sue produzioni, di fatto si finisce per rinunciare alla valenza innovativa e alle intuizioni critiche che il discorso ‘dall’esterno’, portato dalla fotografia, può avere sull'architettura. La fotografia, nei confronti dell’architettura e della rappresentazione dello spazio urbano, può insomma giocare un ruolo molto più attivo e importante che quello di essere semplice specchio e documento.
Tuttavia, nella sua dipendenza dalle esigenze comunicative e promozionali dell’Architettura, come disciplina e come professione, la fotografia ha quasi sempre dovuto limitarsi a pratiche basate su ritratti oggettivi o neutrali di opere architettoniche compiute. Ma la fotografia di architettura può essere più di un semplice strumento di conservazione o descrizione e divenire un luogo di immaginazione, interpretazione e reinvenzione dello spazio urbano, oltre l’assunzione dei principi di verità, di fedeltà o di neutralità come valori primari nella creazione di immagini.
Patrick Hamilton, Redressed Architectures for the City of Santiago (Building # 7), 2007 |
ARCHITETTURE DIGITALI
Le forme digitali di rappresentazione e manipolazione dell’immagine hanno cambiato – e continuano inesorabilmente a fare - la natura e il ruolo della fotografia all'interno della nostra cultura visiva. Quando è stata inventata la fotografia, la pittura ha derogato ad essa il compito di offrire una rappresentazione realistica, oggettiva e fattuale della realtà. Ma l’evoluzione storica della pratica fotografica è stata fin dall’inizio duplice, alternandosi tra la ricerca dell’obiettività documentale da una parte e l’esplorazione delle proprie possibilità e l’espressione di sé dall’altra. La manipolazione dell’immagine, infatti, ha caratterizzato la fotografia fin dalle origini, ma certamente l’avvento del digitale ha portato le frontiere delle possibilità oltre confini impensabili fino a qualche decennio fa.
L'invenzione di Photoshop nel 1987 è il tassello di una svolta digitale che ha permesso a milioni di persone di manipolare e di mettere facilmente in circolazione delle immagini perfettamente realistiche, il cui rimaneggiamento risulta difficilmente rintracciabile, con tutto ciò che ne consegue nell’ambito delle tematiche trattate dagli studiosi della post verità. Ma questi software si sono anche rivelati dei potenti strumenti al servizio della creatività e dell’immaginazione. Attraverso di essi, gli artisti contemporanei che lavorano con la fotografia hanno potuto esplorare nuove potenzialità del mezzo, lavorando proprio con la rappresentazione o la ricreazione di ambienti architettonici e spazi pubblici urbani.
Andreas Gursky, Jumeirah Palm, 2008 |
Così come gli artisti dell’inizio XX secolo ricorrevano ai collage, così quelli contemporanei hanno ampiamente rappresentato e indagato le mutevoli condizioni urbane di inizio del nuovo millennio grazie ai progressi della fotografia digitale, comprese le tecniche di mash-up. A partire dalle opere seminali di Andreas Gurski e Thomas Ruff per arrivare alle creazioni immaginarie di Beate Gütschow, Isabel Brison, Filip Dujardin, Patrick Hamilton, Kobas Laksa, David Trautrimas, Philipp Schaerer, Dionisio Gonzalez, Victor Enrich, Emily Allchurch, Giacomo Costa e tanti altri (molti dei quali hanno partecipato nel 2019 a questa mostra, tenutasi al MAAT di Lisbona), assistiamo a riflessioni e produzioni che hanno reinterpretato la fotografia di architettura in un modo che elude l’approccio oggettivo e favorisce rappresentazioni immaginarie della realtà, cooptando spesso finalità di decostruzione dell’immagine e narrazioni più politicizzate. Tali lavori hanno aperto nuovi territori alla pratica visiva, influenzando profondamente la nostra comprensione dell’architettura, sia come soggetto classico dell'obiettivo fotografico sia come pratica spaziale.
Giacomo Costa, Atmosfera n.6, 2019 |
Nel settore dell’edilizia commerciale, il ricorso al fotoritocco e alla creazione tramite sofisticati software di rendering 3D offrono immagini patinate e perfettamente realistiche di edifici impeccabili, asettici, emendati di ogni stonatura, difetto e imperfezione. Anche in riferimento a ciò, alcuni artisti si sono sentiti in dovere di implementare tecniche simili per produrre un commento critico sull'attuale cultura del consumo edilizio. Le loro costruzioni immaginarie rifiutano le nozioni di falsa obiettività, introducendo note di disturbo in grado di provocare straniamento e di mostrare come l’apparente neutralità e asetticità di un’immagine architettonica non sia altro che un costrutto ideologico che occulta le strutture sociali, politiche ed economiche e le relazioni di potere che sono alla base. La creazione di fotomontaggi e collage diventano modi per decostruire quelle creazioni patinate che, nella loro compiuta perfezione digitale, si presentano come oggettive, imparziali, oscurando la loro natura di messaggio capitalista finalizzato a promuovere forme vuote di consumo e mercificazione. Le finzioni visive create dagli artisti assumono pertanto il compito di fornire uno sguardo critico, trasformandosi in interpreti dello spazio architettonico e produrre un diverso tipo di contemplazione delle attuali pratiche di costruzione e di organizzazione del contesto urbano. Esse permettono, in tal modo, una riflessione sul ruolo della fotografia al di là della sua funzione rappresentativa, aprendo la strada a diverse modalità visive in cui il ruolo dell’immagine non è di valorizzare l’opera architettonica, ma di metterla in discussione.
Scenari distopici
Tra le immagini di architettura create attraverso la manipolazione e il collage digitale è possibile distinguere, grosso modo, due filoni: uno costituito da scenari distopici e addirittura post-apocalittici, e un altro in cui predominano atmosfere surreali.
Beate Gütschow, S #14 |
Al primo gruppo possiamo annoverare la produzione dell’artista tedesca Beate Gütschow, che nel 2007 realizza la serie S , che sta per Stadt (città), avente come riferimento la fotografia architettonica e documentaria in bianco e nero degli anni '50 e '60. In giro per le città del mondo, tra cui Berlino, Chicago, Kyoto, Los Angeles, New York e Sarajevo, Gütschow scatta centinaia di fotografie analogiche, che poi sintetizza in digitale realizzando collage che costruiscono uno spazio tanto cosmopolita quanto alienante, familiare ed estraneo nello stesso tempo. Riconfigurando gli elementi architettonici provenienti da diverse aree del mondo, l’artista crea uno spazio visivo finzionale, operando quasi come un pittore alle prese con una tela bianca; il suo lavoro è come quello dei paesaggisti che prendono spunto dall'osservazione della realtà ma poi creano il lavoro finale in studio come sintesi di realtà e memoria. Lei stessa si riferisce alla sua pratica come "pre-fotografica". Se il fotografo tradizionale è vincolato allo spazio e al tempo in cui viene scattata la fotografia, questo modo di operare permette di combinare immagini di tempi diversi e di varia provenienza geografica. In questo modo l’autrice costruisce la sua visione della realtà, perché anche se ogni elemento che ci presenta in queste immagini dettagliate è un riferimento a un oggetto reale, il quadro nel suo insieme è stato interamente immaginato e costruito da lei.
Quella di Beate Gütschow è una riflessione sugli spazi urbani della modernità, sulle immagini che li hanno documentati e su come la nostra percezione visiva possa essere influenzata dalla conoscenza preliminare di altre immagini. Benché a prima vista possa ravvisarsi un richiamo alla fotografia di architettura della Scuola di Düsseldorf, in realtà le immagini della Gütschow ne costituiscono l’antitesi, in quanto respingono l’approccio documentario al mezzo fotografico per mettere radicalmente in discussione la natura rappresentativa della fotografia stessa.
Beate Gütschow, S #10 |
Le fotografie digitali di grande formato mostrano costruzioni monumentali in ambienti desolati: blocchi di cemento grigio, sotto un cielo altrettanto grigio, posti in mezzo al nulla. La presenza umana è rarissima e alquanto marginale, sperduta tra le costruzioni imponenti. L'osservatore si sente quasi al cospetto di un paesaggio post-apocalittico sopravvissuto all’uomo e alla natura, vagamente collocato nel futuro, anche se risulta alquanto ambigua sia la collocazione spaziale che quella temporale di quegli spazi urbani: forse in questo caso si adatta bene l’espressione, troppo abusata, di non-luoghi teorizzata da Marc Augé, nel senso che questi edifici non solo non esistono nella realtà, ma sono costruiti in modo tale che restano oscure sia la loro funzione che la loro accessibilità.
A prima vista le immagini restituiscono paesaggi urbani verosimili e realistici. E' solo a un'attenta osservazione che rivelano la propria straniante ambiguità. Alcuni edifici contraddicono le regole architettoniche di base; molti elementi e sezioni risultano familiari, ma la combinazione insolita dell'insieme rende impossibile contestualizzarli. Sono nello stesso tempo tanti luoghi fusi insieme e nessuno specifico, in quanto la Gütschow rimuove ogni indizio o elemento che possa essere riconoscibile. L’impressione prevalente è quella di essere di fronte ai resti architettonici di un fallimento. Le utopie della modernità e dell'architettura modernista così come le fantasie progettuali degli anni '70 di espansione urbana, basate su una visione del mondo scientista e tecnocratica, mostrano la loro decadenza: ciò che resta sono grigie costruzioni di cui non si capisce la funzione, muri logori, macchine rovesciate e rare presenze umane, che vagano sperdute ed estranee al tutto, come ‘fuori luogo’.
Sito dell'autrice: https://beateguetschow.de/s-series/
Isabel Brison, Maravilhas de Portugal (2008) |
Isabel Brison è un’artista portoghese che lavora con la fotografia digitale, creando dei collage che vogliono soprattutto rappresentare uno sguardo critico sulla condizione urbana del Portogallo e sulle discrepanze tra i vecchi edifici degradati che fanno parte dell'identità del paese e la massiccia costruzione di nuovi fabbricati. Per fare questo, crea collage digitali con frammenti di edifici vecchi e nuovi, che si presentano come fantasie kitsch, ibridi di strana bellezza, vicini sia all'architettura dello spettacolo quanto a quella del terzo mondo.
Isabel Brison utilizza il fotomontaggio come strumento per la manipolazione dello spazio in senso progettuale, non limitato alla creazione di finzioni ma focalizzato sul tema che rimanda all'impatto dello sviluppo e della crescita dei centri urbani nell'era del capitalismo. La materia prima del suo lavoro è principalmente la città di Lisbona mentre le idee di base sono quelle di rovina e periferia. Le sue manipolazioni digitali sono dei conglomerati di vari tipi di costruzioni, che compongono case e fortezze immaginarie utilizzando frammenti di edifici abbandonati o degradati, fino a creare un corpo strano e schizoide che si insedia in una zona di confine, in un territorio indefinito, posto ai margini, offrendo l’immagine di un sobborgo consacrato a una poetica del caos e che è allo stesso tempo uno spazio di libertà.
Nel suo lavoro Maravilhas de Portugal (2008), espone una serie di immagini allegoriche che sono anche delle vere e proprie finzioni politiche in quanto rievocano la piramide sociale. Le enormi costruzioni sono formate da molteplici frammenti dove gli edifici più poveri e degradati si trovano alla base mentre parti di abitazioni più lussuose si stagliano in alto.
Queste immagini fanno parte di un nuovo territorio nella comunicazione dell'architettura, divenendo l’oggetto centrale di riflessioni ideali e politiche.
Sito dell'autrice: https://isabelbrison.com/work
Emily Allchurch, Urban Chiaroscuro n.4 (after Piranesi) |
Emily Allchurch è un’artista inglese che realizza collage fotografici – che un critico del Financial Times ha definito “estremi” – per ricreare dipinti e stampe di antichi maestri, ma aggiornando gli originali per creare un dialogo con il passato e una narrazione sociale dei nostri tempi. I suoi lavori nascono tutti da viaggi, durante i quali realizza centinaia di fotografie, da cui preleva dei frammenti che assembla insieme per creare un nuovo spazio "immaginario". Gli strumenti utilizzati per fondere tutti i frammenti e modulare colore, contrasto, prospettiva, messa a fuoco, luci e ombre richiedono l'occhio e l'abilità di un pittore, dove però la tela tradizionale viene sostituita dallo schermo di un computer.
Ogni opera, esposta tramite lightbox, ripropone dunque un viaggio, compresso in un'unica o in poche scene. I collage fotografici che ne derivano catturano dettagli della vita, della cultura, degli ambienti urbani del nostro tempo nella forma e composizione di opere del passato, dando modo di riflettere sul passare del tempo e sui cambiamenti che apporta al paesaggio e allo stile di vita di un paese.
Nel 2011, con la serie Tokyo Story ha reso omaggio all'incisore giapponese Utagawa Hiroshige e alla sua ultima grande opera Le Cento Famose Vedute di Edo (1856-58), mettendo in evidenza i mutamenti della società e dei costumi di quel paese.
Emily Allchurch, Babel Hong Kong, 2018 |
Urban Chiaroscuro (2007), si ispira alla serie di acqueforti di Giovanni Battista Piranesi Carceri d'Invenzione (1745-61 ca.) per esplorare le pratiche di restrizione sociale, ordine e controllo, sperimentate oggi nelle città europee di Londra, Roma e Parigi. E sempre ad alcune stampe di Piranesi si ispira la serie Architectural Capricci (2014 – 2018), che mette in relazione l'Italia con il Regno Unito, riprendendo la tradizione del Grand Tour. Un’opera come Sic Transit Gloria Mundi (after Piranesi), che cita la Vista immaginaria dell'antica intersezione tra la Via Appia e la Via Ardeatina (1756) dell’incisore italiano, è costruita a partire dai frammenti architettonici dell'antichità classica fotografati a Roma e mescolati con quelli del passato e presente di Londra, capitali di due imperi entrambi crollati e che ora esibiscono le proprie rovine, come monito lasciato dal tempo.
Un topos ricorrente nell’opera della Allchurch è la "Torre di Babele", una costruzione che consente di rappresentare più punti di vista e strati di storia all'interno di un'unica struttura. Tower of London (after Bruegel) 2005, la prima della serie, ricrea la Torre di Babele di Pieter Bruegel (1563) a partire da fotografie realizzate a Londra. La Torre di Babele racconta la storia dell'Antico Testamento che spiega, in forma mitica, l’origine delle diverse lingue dei popoli. Analogamente, il lightbox di Allchurch esplora le diversità religiose e culturali della capitale, all'indomani degli attentati terroristici del 2005.
Dieci anni dopo Allchurch ha rivisitato ancora il tema in Babel London (after Bruegel) 2015, che punta l’attenzione sul boom immobiliare che ha travolto la capitale negli ultimi anni, prima della Brexit. La città è infatti raffigurata come un monumentale cantiere, che promette un futuro più verde. Ma chi ne beneficerà? La composizione di queste torri mette in evidenza un’evidente disparità sociale ed economica attraverso i frammenti che compongono l’edificio, che alla base sono poveri e degradati e diventano sempre più ricercati e lussuosi man mano che ci si eleva verso la parte alta.
Stesso discorso per il lightbox Babel Hong Kong (2018), liberamente ispirato alla Torre di Babele del 1595 del pittore fiammingo Lucas van Valkenborch e alle antiche tradizioni pittoriche cinesi. Centri commerciali, templi, case popolari, cantieri edili e superstrade congestionate si accalcano nei livelli inferiori, mentre gli edifici di lusso svettano in cima.
Emily Allchurch, The lion and the Phoenix, 2020 |
Nel 2019, dopo un lungo periodo di viaggio tra l’Italia e la Cina, lungo l’antica Via della Seta, nasce la serie Trading Places, che si ispira alla pittura veneziana del XVI secolo e alla pittura di corte cinese, ma anche alle Città invisibili di Calvino, e che mette in relazione l’antico porto commerciale di Venezia con alcune città portuali cinesi, esplorando temi come la globalizzazione, il turismo di massa e il commercio internazionale. Una di queste opere, The lion and the Phoenix, è stata realizzata nel marzo 2020, in piena pandemia da COVID-19, per cui l’immagine è totalmente priva di presenza umana. Le persiane sono abbassate, i tavoli e le sedie sono accatastati e le barche turistiche sono ormeggiate, mentre da una finestra pende uno striscione con il disegno di un arcobaleno e la scritta "Andrà Tutto Bene".
David Trautrimas, Spyfrost Project, 2010 |
David Trautrimas è un artista canadese il cui lavoro esplora temi legati all'architettura.
Nella sua serie Habitat Machines (2008), ha smontato, riassemblato, fotografato e manipolato digitalmente oggetti come aspirapolveri, macchine da caffè, bilance, frullatori e altri elettrodomestici per creare immaginarie strutture residenziali, che spingono i confini della fisica e che, se da una parte sono sorprendentemente originali, dall’altra risultano paradossalmente familiari in virtù delle loro origini.
Nella serie Spyfrost Project (2010), usa le stesse tecniche per trasformare frigoriferi, tosaerba e lavatrici in installazioni militari top secret e apparentemente futuristiche che incombono sui paesaggi circostanti, deserti e dall’aspetto post apocalittico. Le immagini sono basate sul design industriale dell'era della Guerra Fredda, creando forme ibride composte da architettura e oggetti domestici, che mettono in relazione lo sviluppo della cultura consumistica indotta dal capitalismo e il militarismo del dopoguerra, facendo emergere l’inestricabile paradosso del nesso tra progresso e violenza, tra sviluppo capitalistico e ideologia della guerra.
Il sito dell'autore: http://www.trautrimas.ca/
Kobas Laksa, RONDO 1, da The Afterlife of Buildings |
Kobas Laksa, Roller Coaster Warsaw (2010) |
Lo spagnolo Victor Enrich, laureato in Architettura ed esperto in grafica 3D, è un genio del rendering che trasforma le sue fotografie di edifici e palazzi reali in fantasmagorie impossibili, che sfidano le leggi della fisica e persino l’immaginazione umana.
Edifici che si flettono, si curvano, si arrotolano su se stessi, si dividono in due, sputano fuori piani, scale e balconi. E ancora autostrade verticali, palazzi eretti su pezzi di roccia capovolta, accostamenti improbabili di architetture diverse e lontane. Edifici che prendono la forma di un cartoccio di patatine o di una colt puntata, materializzando nel paesaggio urbano, non solo nelle immagini ma anche nelle sue architetture, i simboli di una civiltà.
Victor Enrich |
Molte di queste fotografie sono state scattate tra Tel Aviv, Riga e Monaco, formando una stravagante collezione chiamata City Portraits (2011), mentre nel 2013 Enrich produce NHDK, una serie di manipolazioni differenti dello stesso edificio, l’hotel NH Deutscher Kaiser di Monaco di Baviera. Attraverso un software che crea immagini tridimensionali, Victor ha stravolto l’edificio alberghiero in 88 modi diversi: l’hotel si piega, si capovolge, si sdoppia, si gonfia ed esplode persino in minuscoli frammenti.
In genere Enrich procede creando un rendering 3D dell'edificio fotografato - un processo manuale che può richiedere settimane - quindi lo ricostruisce digitalmente, piegando, curvando e posizionandone l'immagine tridimensionale, esplorando tutte le possibilità di manipolazione. "È un modo bellissimo per conoscere l'architettura di un particolare edificio", ha dichiarato l’autore.
Sito dellautore: http://victorenrich.com/
Filip Dujardin, Untitled, 2007 |
James Casebere, Mosque (After Sinan) # 2 , 2006 |
Abadia (from Lower Left), 2005 |
Carl Zimmerman, Landmark of Industrial Britain, Science Building |
Carl Zimmerman, from Cold City, Interior with Columns, 2013 |
Frank Kunert, Drive-in |
Emilio Pemjean, Palimpsesto I |
Emilio Pemjean, Palimpsesto IV |
Edwin Zwakman, Dijk II, 2013 |
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