domenica 11 agosto 2019

La fotografia è un corpo a corpo

Vivian Maier, Autoritratto, 1954.

Chi di noi è andato abbastanza vicino a un quadro di un artista come Van Gogh, ha sicuramente avuto modo di rendersi conto della veemenza e della rapidità del gesto con cui il pittore stendeva il colore sulla tela: le pennellate larghe, vigorose, materiche, ci fanno intuire il movimento del braccio e la tensione frenetica delle sue membra al lavoro. Nel campo dell'arte, infatti, il corpo non costituisce unicamente un oggetto di rappresentazione; esso entra all’interno della scena non solo come contenuto di figurazione, ma anche come traccia dello stesso gesto artistico. E quest’ultimo è in primo luogo un movimento corporeo. Proprio il corpo dell’artista è lo strumento attraverso cui si esplica l’azione del dipingere e, nel far ciò, esso imprime dei segni sulla superficie, che vengono definiti “marcature” dell’autore. Si tratta delle tracce che rivelano il movimento e i gesti dell’artista, ad esempio le sue pennellate o incisioni o schizzi di colore. Un caso limite è rappresentato dall’action painting di Pollock, le cui tele sono costituite non da rappresentazioni di oggetti, ma esclusivamente da marcature soggettive, dove il segno diventa fisicità, movimento ritmato del corpo. L’artista entra nella tela e diviene tutt’uno con il dipinto, prendendone possesso con una sequenza di gesti: pennellate energiche, spazzolate di vernice, spruzzi o gocciolature del colore direttamente sulla superficie del quadro.

Ma la corporeità implicita nel testo visivo non è propria solo della pittura o della scultura, ma anche di un oggetto, che pure si intende prodotto da un congegno automatico, quale è la fotografia.
Dario Mangano, nel suo breve saggio Che cos’è la semiotica della fotografia, per introdurre il primo capitolo dedicato proprio al tema del corpo del fotografo, analizza un celebre scatto di Vivian Maier del 1954, un autoritratto riflesso in una grande vetrata. Nell’immagine si sovrappongono più piani: la strada trafficata, due donne sedute su una panchina, la figura gigantesca della fotografa, nel suo immancabile cappotto, mentre inquadra nel mirino a pozzetto della sua Rolleiflex. Cosa sta fotografando la bambinaia americana? Le due donne? Se stessa? Mangano sintetizza la situazione così: “ciò che fa, a ben pensare, è immortalare qualcuno che viene visto nel momento in cui sta fotografando”. Tuttavia, non è la dialettica dell’autoritratto il punto che qui ci interessa. La fotografia è una stratificazione di piani, dovuta all’effetto riflettente della vetrina. Ma un dato emerge chiaro: le due donne al centro dell’immagine, sedute sulla panchina, sono visibili solo perché il corpo della fotografa, con il suo lungo cappotto, annulla il riflesso. Nell’immagine diventa lampante una vertigine: le due donne appaiono sulla superficie e vengono immortalate grazie non solo alla macchina che produce la fotografia, ma anche al corpo di colei che scatta. Questa fotografia mostra per intero il farsi dell’atto fotografico, con tutti i suoi protagonisti: da una parte il soggetto che viene ripreso, dall’altra questa figura ibrida metà uomo e metà macchina. Quello che Barthes chiama Operator non è altro che una relazione interattiva, spesso difficile e contrastata, tra un corpo umano e un corpo-macchina. Un corpo a corpo, appunto. Diventato più problematico negli ultimi tempi, da quando il digitale ha conferito alla macchina un’autonomia e una capacità di sfuggire al controllo sconosciute ai tempi dell’analogico.
Nonostante l’accresciuto automatismo del processo di produzione, tuttavia, un elemento resta immutato: l’esserci dell’Operator all’interno della scena. Il pittore può realizzare il suo quadro nel chiuso del proprio studio, traducendo in immagine la propria immaginazione o la propria visione differita, costruendo l’opera nel tempo, seguendo ispirazione e ripensamenti. L’atto fotografico, al contrario della pittura o della scultura, per produrre la sua immagine del mondo, è costretto a compiersi nel mondo, nel suo spazio e tempo. Colui che produce fotografia è chiamato non solo a porre di fronte al mondo il suo sguardo e il suo obiettivo, ma anche a “esserci”, a essere presente con il suo corpo, ad assumere una postura. La fotografia è il gesto attraverso cui il fotografo prende posizione nel mondo e riconfigura il proprio campo percettivo in relazione con la macchina che impugna.
Il fotografo non è un occhio disincarnato, perché non esiste sguardo senza corpo, ma è quest’ultimo la condizione e il luogo in cui lo sguardo si realizza. Il corpo è lo strumento attraverso il quale siamo in grado di metterci di fronte al mondo e di percepirlo, anche se, nello stesso tempo, è parte di quel mondo, che contiene altri corpi. Anche per questo scattare una fotografia è, come si è detto, un’esperienza di corpo a corpo: “per inquadrare un frammento di mondo è necessario innanzitutto sentirsi presi nel mondo” (S. Tisseron, Le mystère de la chambre claire, citato in Basso Fossali – Dondero, Semiotica della fotografia).
Lo sguardo si incarna nel corpo e il corpo del fotografo deposita un’impronta sull’immagine che produce. Per mezzo della fotografia, il suo autore non solo si impossessa del mondo che gli è attorno, ma lascia un segno di sé, attraverso cui si rende riconoscibile. E questa impronta di sé non rivela solo il suo gusto estetico, il suo stile, la sua visione del mondo, ma anche la postura che il fotografo aveva al momento dello scatto, la disposizione del suo corpo nello spazio, il gesto che ha compiuto nel produrre la fotografia, la sua sensomotricità. «Ben più che un "è stato" dell'oggetto, la fotografia attesta un "è stato vissuto" dal fotografo» (S. Tisseron, cit.).
Lo scatto, o meglio tutto il complesso dell’atto sensomotorio produttivo, lascia sulla superficie dell’immagine delle marche visibili: l’effetto panning, ad esempio, non è altro che la traccia di un movimento corporeo del fotografo. In tal modo, l’autore fissa non solo l'oggetto, ma il suo proprio gesto. E lo stesso può dirsi per altri tipi di effetto, come lo sfocato, che rivela la sensomotricità in quanto durata dell’atto che ha prodotto l’immagine (anche se ormai questi effetti possono essere simulati attraverso applicazioni in digitale).
Se Benjamin considera la fotografia un'immagine meccanica slegata dalla corporeità del gesto del produttore, al contrario queste considerazioni sulle marcature soggettive le riconferiscono un carattere autografico, come quello che caratterizza un quadro, sebbene più marginale. Ciò che cambia nel caso della fotografia rispetto a una produzione pittorica “è la sensomotricità instauratrice; quella della pittura è una gestualità iterativa, ricorsiva (che si verifica del resto anche nei casi di fotografie costruite su sovraesposizioni), e quella della fotografia può descriversi come evento unico che lascia una traccia della scansione, della chiusura o apertura dell'otturatore”. (Basso Fossali – Dondero, cit.)
Una fotografia mostra sulla sua superficie marcature di provenienza diversa: quelle dell’apparecchio meccanico e quelle della componente umana, perché il “fotografo” è in tutto e per tutto una figura ibrida, uomo e macchina, che agisce in ragione di questa sua doppia natura. E i segni lasciati dalla componente umana sono di tipo corporeo, di un corpo, tuttavia, che è stato profondamente riconfigurato dalle potenzialità della macchina. Perché chi impugna un apparecchio fotografico si pone di fronte al mondo in maniera diversa, con una mutata intenzionalità, con una mutata capacità di sentire e di conoscere, con una passione nuova, che costringono a sospendere l’immediatezza e l’ingenuità della visione quotidiana delle cose e dei fatti. E in questo modo nuovo di stare di fronte al mondo, anche il corpo assume una diversa postura, una tensione differente, che è quella votata a catturare e a trasformare la percezione in immagine, in un testo visivo a cui lavorare per conferire senso, per giungere a una comprensione che non si fermi all’immediatezza del vissuto e alla superficie della sua impronta grafica, ma che riesca ad attingere, se possibile, la vertigine di un nuovo significato.

Almeno è stato così finora. Oggi l'uso di telecamere, fisse e mobili, droni e altri dispositivi tecnologici, permette di prelevare immagini del mondo anche a distanza, operando una dislocazione dello sguardo, che si allontana dal corpo.

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