Ai giorni nostri la parola “rivoluzione”, abituati come siamo a sentirla snocciolata continuamente (soprattutto nei messaggi pubblicitari che ogni giorno lanciano il prodotto in grado di rivoluzionare il nostro stile di vita,) ha perso ogni potere destabilizzante. Al massimo ci aspettiamo la rivoluzione che opererà il lancio sul mercato di uno smartphone di nuova generazione. Ma meno di cinquanta anni fa, alcuni paesi europei credettero di essere davvero a un passo da un capovolgimento radicale e del modo di vivere e delle istituzioni. Quel termine affascinò e mobilitò un’intera generazione, che visse un periodo storico senza precedenti: il Sessantotto. La Francia, in particolare, conobbe una stagione particolarmente calda, passata alla storia come il “maggio francese”, una crisi sociale e politica avviata dalla contestazione studentesca a Parigi, ma che vide una inedita compartecipazione di studenti e operai e che portò il paese di De Gaulle sull’orlo di una autentica Rivoluzione.
E, come ogni epoca storica, anche il Sessantotto ha avuto la sua rappresentazione visiva, nello stesso tempo documento storico e icona di coagulo dell’ideologia.
Se vogliamo indicare una foto simbolo del Sessantotto, si tratta di quella scattata a Parigi il 13 maggio 1968 durante il primo grande sciopero generale e che mostra una bella ragazza, a cavalcioni di un amico, intenta a innalzare la bandiera del F.N.L. vietnamita. È la famosa “Marianna del ‘68”.
Il maggio francese, luogo della memoria generazionale sessantottina, trova la sua rappresentazione visiva più forte in questa istantanea, che perciò per estensione acquisisce anche il ruolo di sintesi visiva del Sessantotto tout court.
Ancora oggi è utilizzata come simbolo di quella stagione irripetibile, luogo della memoria e nello stesso tempo della nostalgia, della disillusione, del rimpianto di una stagione, ideale e temporale, passata e perduta per sempre.
Ma cosa è che rende questa immagine così speciale da incastonarla nell’immaginario e nelle autorappresentazioni mentali di una generazione? Che cosa ne determina nella memoria collettiva un così vasto e trasversale complesso di ricordi e appartenenze?
Cerchiamo, molto schematicamente, di elencare alcuni elementi che caratterizzano questa istantanea e, nello stesso tempo, di capire cosa fa di una foto una icona, cioè un’immagine che cessa di essere la semplice testimonianza di un fatto storico e individuale e assurge a simbolo universale. Dalla singolarità all’universalità, dalla contingenza all’eternità, da uno spazio determinato al non-luogo del mito: è questo il percorso che compie un’icona, e lo intraprende in modo autonomo, indipendentemente dal fatto che l’ha originata e dalle intenzioni sia del soggetto ritratto che del suo autore. Le icone sono creature dotate di vita propria e solo poche foto riescono a compiere questo salto, senza che sia possibile prevederlo. Si può tuttavia cercare di individuare alcuni tratti comuni di queste immagini:
- La foto icona è una immagine a impatto, in grado di suscitare un’emozione. La bandiera è già un simbolo in grado di generare una carica emozionale, legata all’idea di appartenenza a una patria o a un partito o a un movimento. Molte foto in cui viene issata o sventolata una bandiera sono diventate immagini iconiche. Si pensi al soldato russo che issa la bandiera sovietica sul tetto del Reichstag a Berlino nel 1945 o ai soldati americani che innalzano la bandiera a Iwo Jima o a Neil Armstrong che pianta lo stesso vessillo sulla luna. In tutti questi casi, piantare la bandiera significa la conquista di un certo luogo, che allarga l’orizzonte spaziale di colui che in quello stendardo si riconosce. L’azione di innalzare la bandiera costituisce un riferimento unitario, in grado di appassionare e di stimolare un sentimento di appartenenza e di partecipazione in chi guarda l’immagine, un polo di identificazione. Anche nella foto della Marianna francese accade una cosa simile, ma in questo caso il simbolo in cui ci si riconosce non è la bandiera, qui poco visibile, e anche poco riconoscibile visto che si tratta della bandiera del Vietnam. È certamente importante per un popolo come quello del movimento del Sessantotto che si tratti della bandiera di un movimento di liberazione nazionale, ma non è quella la vera protagonista della foto. E’ lei, la donna, la sua presenza, che genera un’emozione di appartenenza, di identificazione, di partecipazione all’azione rivoluzionaria. E’ nel suo slancio che ci si identifica: la ragazza con la sua postura, il suo volto intenso e teso, il petto sollevato e fiero e la bandiera innalzata esprime con forza e solennità quell’afflato generazionale che si può tradurre nello slogan sessantottesco dell’"assalto al cielo”.
- La foto icona è una immagine semplice, non complessa, essenziale, in modo da essere immediatamente riconoscibile. Nonostante lo sfondo si sviluppi su tre strati (palazzi, alberi, folla), l’elemento in primo piano risalta in modo chiaro, pulito, sviluppandosi lungo tutta la verticale dell’immagine. Lo si potrebbe rielaborare in poche ed essenziali linee tratteggiate. Non ci sono dettagli inutili: gli elementi presenti sono tutti necessari per esprimere il simbolo: i palazzi e gli alberi testimoniano che ci troviamo nel viale di una grande città, la folla indica il contesto di una manifestazione di protesta, il pugno alzato in basso a sinistra ne chiarisce l’orientamento ideologico.
- La foto icona è sufficientemente indeterminata, personale e anonima nello stesso tempo, in modo che ognuno possa riconoscere in essa parte di sé, un proprio ideale, un proprio desiderio. Questa fotografia è rappresentativa al di là del fatto di essere stata scattata in un boulevard parigino nel corso di un momento di crisi sociale e politica della sola Francia. In essa si vedono dei palazzi e degli alberi, ma non c’è nessun elemento architettonico riconoscibile e individuabile come appartenente a un dato paese. L’abbigliamento della donna è abbastanza comune e, a parte il motivo a righe del soprabito (non troppo vistose. In questo caso il bianco e nero è determinante) è anche poco storicamente caratterizzato. Pur essendo la donna bellissima, il taglio di capelli e lo sguardo solenne e ispirato le conferiscono un’apparenza grave, altera e quasi androgina, da eroina consacrata, novella Giovanna d’Arco.
- La foto icona rimanda quasi sempre ad un’altra icona famosa. In questa foto, sia il titolo che la postura della donna, richiama immediatamente alla mente un’altra famosa icona rivoluzionaria francese al femminile, quella costituita dal celebre quadro di Delacroix, La liberté guidant le peuple, che un secolo prima aveva espresso l’anelito di libertà di un popolo che seguiva la sua bella e fiera eroina oltre le barricate.
Eugène Delacroix, Le 28 Juillet. La Liberté guidant le peuple, 1830. |
Per tutti questi motivi, e probabilmente anche per altri, questa foto è diventata la sintesi di un immaginario collettivo, simbolo di un periodo storico, l'immagine più utilizzata sulle copertine di svariate pubblicazioni sul Sessantotto.
Nel 1997 la scoperta. “Le Monde” svela finalmente l’identità della Marianna del ’68 e anche questa volta la realtà rischia di smitizzare l’aura che si è costruita nel tempo intorno all’immagine, come è avvenuto per quasi tutte le icone fotografiche della storia. Si scopre che la bella Marianna non era una studentessa, un’operaia o una aderente al movimento. Tutt’altro. Si chiamava infatti Caroline De Bendern ed era una modella inglese, a Parigi in quei giorni per motivi lontani dalla rivoluzione.
Quel giorno la foto non fu però costruita come in un set. Fu effettivamente un’istantanea. Pare che dopo la lunga marcia, Ceroline avesse mal di piedi e perciò chiese all’amico pittore Jean Jacques Lebel, noto artista anticonformista, di portarla sulle spalle. Le passano la bandiera del Vietnam e le chiedono di tenerla alta. Caroline, in un’intervista, dichiarò di aver avuto una sorta di riflesso professionale e di essersi messa in posa. Jean-Pierre Rey, reporter che documenta la rivoluzione studentesca per l'agenzia Gamma, scatta la foto-simbolo. Caroline diventa l'eroina del Maggio francese.
Una foto che le valse la celebrità e le fece perdere un’eredità. Caroline de Bendern era difatti la nipote di un nobile inglese che dopo aver visto la foto decise di diseredarla. Questo la spinse verso la musica jazz e un’esistenza vissuta per lunghi anni tra l’Africa e la Francia.
Quando, nel 1997, la Bendern dichiarò di essersi messa in posa per quella fotografia, questo suscitò reazioni di delusione in chi continuava a riconoscersi in quell’immagine, nei sogni e nelle speranze in essa contenute. La logica presupposta da un tale ragionamento è, probabilmente, che, essendo l’eroina una persona abituata per mestiere a “indossare abiti altrui”, a sfilare a pagamento per questo o quello stilista, la sua debba per forza essere stata una recita. Nessuna purezza rivoluzionaria, nessuna spontaneità, nessuna sovrapposizione con le idee del movimento. La foto, per questo, veniva percepita come un falso, il tradimento dell’icona, della sua purezza.
Questo a maggior ragione perché si trattava di una foto che si trovava in tante case in forma di poster, come immagine rappresentativa di qualcosa di condiviso, la chiave della memoria di un’intera generazione.
Molto interessante. Specialmente tutto il resoconto delle conseguenze scaturite per la protagonista.
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