giovedì 16 luglio 2020

NOMADELFIA, di Enrico Genovesi

Enrico Genovesi, da Nomadelfia.

Chi di noi, almeno per un giorno, non ha sognato di cambiare vita? Di trovarsi in un mondo nuovo, regolato da rapporti umani diversi; un mondo lontano dal nostro, così contratto dall’ansia del guadagno e del consumo, dove ci è estraneo persino il vicino che abita a due metri di distanza, al di là di una parete tanto sottile quanto impenetrabile?
Ebbene, un mondo così esiste. Ed è qui in Italia, nelle campagne di Grosseto. Si chiama Nomadelfia, un nome composto da Nòmos e Adelphìa e che significa 'la Legge della Fraternità'. Si tratta di una comunità evangelica fondata nel 1948 da un sacerdote, Don Zeno, per accogliere gli orfani e i bambini abbandonati, così numerosi all’indomani della guerra. E a quel tempo si scelse di insediarsi nel luogo che era stato un cupo teatro dell’orrore, il più lontano da ogni Adelphìa: il campo di Concentramento di Fossoli.

Il progetto sembra in parte ricalcare le utopie ottocentesche di socialismo comunitario: niente denaro e niente proprietà privata, istruzione per tutti, mansioni divise a seconda delle possibilità di ognuno, beni in comune distribuiti secondo le necessità. Autogestione e autosostentamento. Molti momenti di vita in comunione. Le famiglie sono organizzate in Gruppi familiari, che ogni tre anni si sciolgono per formarne altri, traslocando in altre case, al fine di non attaccarsi alle cose materiali e per vivere insieme con tutti. Una comunità in armonia con la natura in cui è immersa e con il pensiero volto alla cura dei più fragili, gli anziani e i tantissimi bambini, che rappresentano la metà circa della popolazione.


Probabilmente quasi nessuno di noi sarebbe disposto a una scelta così radicale. Si tratterebbe di rinunciare a moltissime cose cui siamo abituati e che fanno parte della nostra vita. Però Nomadelfia è un luogo che ci affascina e ci pone domande. Ci mette di fronte a un modo nuovo di concepire e di vivere l’esistenza e i rapporti con gli altri.
Io però non ci sono stata a Nomadelfia. Non ho visto le casette e gli ulivi intorno. Ho invece guardato con attenzione e infinito piacere le fotografie di un bellissimo reportage, che Enrico Genovesi ha realizzato in quei luoghi. E che mi ha fatto meravigliare per la capacità che ha avuto di guardare e di condividere il suo sguardo. Per l’acume e la sensibilità con cui ha saputo cogliere quegli aspetti in grado di costruire un racconto convincente e coinvolgente.
Le fotografie della serie non si offrono a noi come semplici immagini raccolte da un testimone. Ci propongono dell’altro: fare esperienza di una possibilità diversa di stare al mondo. E’ un sentire che nasce spontaneo vedendo le scene di vita comune – il pranzo insieme, la festa, il matrimonio – e si acuisce di fronte ai carretti con le masserizie al momento del trasloco, segno di un’intimità che sceglie di farsi comunione; di rinunciare non alle radici, ma alla prigione della loro immobilità. Di una comunità insediata e nello stesso tempo nomade, fondata sui piccoli esodi richiesti da una fratellanza totale. Ed ecco che in una fotografia ci vengono incontro, nella loro placida semplicità e innocente geometria, i materassi trasportati per le stradine di campagna da un adulto e da un bambino: poteva un’immagine essere più essenziale e nello stesso tempo più traboccante di significato?


Tutte le fotografie creano un piccolo poema epico, che non celebra ma si offre in dono. Enrico Genovesi sembra, con le sue immagini, aver accolto la filosofia solidale di Nomadelfia e farcene partecipi, condividendo con noi qualcosa che in realtà non può appartenere a nessuno. Anche i suoi scatti hanno bandito l’idea del ‘prendere’: non cercano il possesso del soggetto, ma lo preservano nel loro limpido mistero. Lo si capisce dal modo con cui si avvicina a quella che è l’anima della comunità, cioè i bambini, che compaiono nella maggior parte delle fotografie. Nei due visi giovani di quella che apre la serie, irradiati dall’energia vitale di un albero riflesso nel vetro del finestrino, c’è una potenza di racconto che tuttavia non si può raccontare, che bisogna solo sentire, con la forza del sangue che ci circola dentro e si ramifica nel corpo.
E la stessa potenza di racconto ritroviamo nell’immagine che ritrae lo sposo sospeso in aria, in una surreale posizione orizzontale, con le mani giunte e nello sguardo tutta la gioia e la fiducia in quelle braccia protese e pronte a prenderlo al volo.
Sembra che uno degli interrogativi che si pongono queste fotografie sia: posso io qui trovare l’individuo? O esiste solo il ‘noi’ delle posate ammucchiate, dei panni stesi, delle ombre dietro le quinte di uno spettacolo, delle mani sollevate che si aiutano a vicenda? E si mette in cerca, e trova. Non l’individuo, però, con il suo alone di solitudine. Trova la persona, la sua aura di completezza, l’armonia della sua relazione con l’ambiente che la circonda. Nell’espressione concentrata di una ragazza che legge il programma giornaliero; in un bambino con le braccia aperte contro la parete, mentre gioca a nascondino nel cortile della scuola; negli occhi socchiusi e nel viso sorridente di una donna anziana, con le mani dietro la schiena, appoggiata a un tronco d’ulivo da cui sembra trarre la sua forza; nel volto pieno di luce di un altro bambino che attende di esibirsi nello spettacolo.


Tutti nello stesso tempo attori e spettatori, gli abitanti di Nomadelfia. Ognuno ha il suo posto e il suo compito. In ogni aspetto dell’esistenza: dalla tavola, alla festa alla morte. Tutti i bambini partecipano a uno spettacolo di danza così come a un trasloco o a un funerale: le fotografie dispongono in sequenza questi momenti, per farci capire che non ci sono aspetti della vita messi da parte e occultati. Tutti sono chiamati a prenderne parte e ogni esperienza ha la stessa dignità delle altre.
Forse nessuno di noi sceglierebbe di abbandonare la sua casa e di trasferirsi a Nomadelfia. Ma queste fotografie meritano tutta la nostra disponibilità a intraprendere un viaggio con loro. Perché ci portano all’interno del rimpianto per qualcosa di cui sentiamo la mancanza e nel cuore di una speranza: quella che l’utopia è possibile e che l’egoismo non è poi una condanna definitiva della nostra condizione umana.

Vi consiglio caldamente di visitare il sito dell’autore: https://www.enricogenovesi.it/reportage/

Qui trovate il pdf del progetto Nomadelfia.

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