domenica 3 settembre 2017

Scatti ribelli



La storia dell’uomo è intessuta di gesti di ribellione, che spesso si sono trasformati in motore di cambiamenti epocali e altrettanto spesso sono invece rimasti ignoti e sepolti nell’oblio. Prima ancora della narrazione storica, il gesto ribelle e disobbediente del singolo al potere o alle leggi dello Stato o ai costumi o alle norme della morale comune, caratterizzava i miti dell’antichità e la trama delle tragedie classiche. Il ribelle è il dissidente, il libero pensatore, l’individuo che disobbedisce e oppone il suo rifiuto a un pensiero o a un ordine costituito. Il suo è un atto prima di tutto etico, che nasce dall’adesione a un sistema di valori che reputa superiore a quello che contesta. Esso richiede coraggio e coerenza, perché quello del ribelle è un atto unico, una nota “stonata” che porta l’individuo fuori dal coro. Ma soprattutto il gesto ribelle mette colui che lo fa in opposizione ai suoi simili e al sistema di regole che normalizza il loro vivere comune.


Alcune volte, però, un atto di rifiuto è riuscito a sopravvivere all’immediata repressione, a far riconoscere e accettare a una parte sempre più grande di opinione pubblica la propria giustizia e validità storica e, infine, a scolpirsi nella memoria collettiva come simbolo di eroismo e di coerenza. Nel Novecento alcuni di questi gesti sono stati immortalati o ricostruiti da fotografie famose, che col tempo sono diventate vere e proprie icone. Ne prendiamo in considerazione alcuni.

AUGUST LANDMESSER E ALBERT RICHTER: I TEDESCHI CHE SI RIFIUTARONO DI FARE IL SALUTO AL FÜHRER

Un vecchia foto degli anni Trenta mostra una folla che fa il saluto nazista. Guardandola con attenzione, ci si accorge che in mezzo a quella gente ossequiente che protende il braccio destro c’è un uomo, che con aria di sfida rimane con le braccia incrociate sul petto. Mentre quasi tutti i presenti si sbilanciano in avanti, in una sorta di ideale e fisico ricongiungimento con il leader, l’uomo rimane in posizione eretta e ferma, e ci pare quasi di scorgere sul suo viso l’ombra di un sorriso beffardo.

August Landmesser, 13 giugno 1936, [Public domain], via Wikimedia Commons

Questa famosa foto venne scattata nel 1936 in occasione del varo di una nave nel porto di Amburgo, alla presenza di Adolf Hitler, ed attualmente è esposta nel Centro di documentazione “Topografia del terrore” presso il vecchio quartier generale della Gestapo di Berlino.
L’uomo che si rifiuta di fare il saluto nazista si chiama August Landmesser. A quell’epoca aveva 25 anni ed era un operaio presso l’arsenale navale Blohm & Voss di Amburgo. Era entrato nel partito nazista nel 1931, costretto dalla necessità di trovare lavoro. Nel 1935 aveva sposato Irma Eckler, una giovane ebrea di 22 anni. Ma proprio quell’anno vennero promulgate le leggi di Norimberga che, in nome della salvaguardia della razza, impedivano l’unione di sangue tedesco con quello di razze inferiori. Erano proibiti il matrimonio e le relazioni extraconiugali con appartenenti alla razza ebraica (cosa poi estesa ai neri e ai rom). Per questa ragione l’Ufficio del Registro del Comune di Amburgo si rifiutò di riconoscere il matrimonio di August e Irma. L’uomo fu espulso dal partito nazista, con la perdita di tutti i vantaggi che aveva acquisito fino ad allora, ma non abbandonò la donna. Il 13 giugno 1936 ad Amburgo, nel corso del battesimo della nave scuola della marina militare tedesca Horst Wessel, Landmesser era presente, ma al passaggio di Adolf Hitler non alzò il braccio, rifiutandosi di partecipare al gesto collettivo di saluto e deferenza.

Nel 1937, dopo un fallito tentativo di fuga in Danimarca, fu arrestato, accusato di aver infranto la legge, di aver umiliato il popolo tedesco e di aver «disonorato la razza». Dopo un anno venne rilasciato, a condizione di smettere di frequentare Irma. Ma l’uomo tornò dall’amata e nel 1938 vennero arrestati entrambi. August venne rinchiuso nel campo di concentramento di Börgermoor (in Bassa Sassonia), dove rimase prigioniero per due anni. Secondo le ricostruzioni, Irma, detenuta dapprima nel campo di concentramento di Fuhlsbüttel ad Amburgo e successivamente trasferita nei campi femminili di Oranienburg e Ravensbrück, si suppone sia deceduta il 28 aprile del 1942 nell’istituto sanitario di Bernburg, dove i medici nazisti praticavano l’eutanasia sui malati mentali. August era stato rilasciato l’anno prima e mandato ai lavori forzati. Nel 1944, per la carenza di uomini abili alle armi, nonostante i suoi precedenti penali, Landmesser fu arruolato nella Wehrmacht ed assegnato ad un battaglione di disciplina, il 19º Battaglione penale di fanteria della famigerata Strafdivision 999, e fu dichiarato disperso in combattimento nel corso di una missione operativa a Stagno in Croazia. Il suo corpo non fu mai trovato. A livello legale, August e Irma furono dichiarati morti solo nel 1949.

Le due figlie nate dalla relazione furono separate; Ingrid fu affidata alla nonna paterna mentre Irene fu condotta dapprima in un orfanatrofio e poi assegnata a dei parenti.

Nel 1951 il senato di Amburgo decise, a titolo simbolico e come forma di risarcimento morale, di riconoscere il matrimonio tra August Landmesser e Irma Eckler; inoltre le figlie, sopravvissute alla guerra, ricevettero il cognome del padre. Nel 1991 una di esse riconobbe il genitore in questa foto, pubblicata dal quotidiano tedesco Die Zeit. Cominciò a documentarsi e a raccogliere fonti e dati, e nel 1996 pubblicò un libro con la storia della sua famiglia. Senza questa foto, quel gesto sarebbe stato sepolto nell’oblio e nessuno oggi conoscerebbe la storia di August Landmesser.

Landmesser non fu l’unico il cui rifiuto di rendere pubblicamente omaggio a Hitler è arrivato fino a noi documentato da una fotografia: anche il campione tedesco di ciclismo su pista Albert Richter, nel dicembre del 1939, dopo aver vinto una corsa alla Deuschtlandhalle di Berlino, si rifiutò di fare il saluto nazista. Lo possiamo vedere in questa immagine:

Albert Richter


Non fu solo in questo modo che il ciclista tedesco manifestò la sua avversione al regime. Richter aveva sempre rifiutato di applicare il simbolo della svastica sulla propria divisa ed inoltre era seguito da un allenatore ebreo, Ernst Berliner, un ex campione di ciclismo.

Dal 1933 al 1939 Richter fu sempre sul podio in tutti i Campionati del mondo a cui prese parte. Allo scoppio della guerra decise di disputare il Grand Prix di Berlino e subito dopo di scappare in Svizzera, perché non voleva arruolarsi e combattere. Berliner gli sconsigliò di correre quel rischio, ma Albert voleva battere ancora una volta i suoi colleghi con la svastica, proprio davanti al pubblico della capitale. A Berlino il 9 dicembre Richter vinse la sua ultima gara, poi tornò a Colonia, sua città natale, raccolse il denaro di alcuni amici ebrei, per portarlo al sicuro in Svizzera, infine prese il primo treno insieme alla sua bicicletta. Al confine fu fermato e ucciso dalla polizia nazista. Alla sua morte, venne avviata immediatamente la damnatio memoriae: fu diramato un comunicato in cui si diceva che Richter si era impiccato per la vergogna, dopo essere stato fermato dalla polizia per contrabbando di denaro nascosto in una bicicletta. Nei giorni seguenti il suo nome fu cancellato da tutte le classifiche e fu grattato via da tutte le targhe e le lapidi scolpite in suo onore.

A ricordarsi bene del suo amico e allievo era però Ernst Berliner. L’allenatore ebreo, una volta fuggito in America, incominciò una lunghissima battaglia per riportare alla luce la storia di Richter, per far sì che non venisse gettato nell’oblio uno degli esempi più limpidi di disobbedienza e di rifiuto della follia nazista. Potè farlo anche grazie all’aiuto di questa fotografia.


ROSA PARKS

L’atto di ribellione di una piccola donna come Rosa Parks innescò un grande movimento di protesta rivoluzionario nell’America degli anni Cinquanta.

Rosa, che fa la sarta in un grande magazzino di Montgomery, in Alabama, il primo dicembre del 1955 sta tornando a casa in autobus. Nella vettura occupa un posto nel settore dei posti comuni, dietro alle file dei posti destinati ai bianchi (all’epoca all’interno degli autobus di Montgomery vi erano 3 settori: davanti il settore solo per i bianchi, in mezzo il settore dei posti comuni, utilizzabili da entrambi ma con precedenza per i bianchi, e in fondo il settore riservato solo agli afroamericani). Dopo tre fermate, l’autista le chiede di alzarsi e spostarsi in fondo all’automezzo per cedere il posto ad un passeggero bianco salito dopo di lei. La donna pacatamente si rifiuta, rimanendo ferma nel suo proposito anche all’arrivo dei poliziotti, chiamati dal conducente. Rosa Parks viene arrestata per condotta impropria e per aver violato le norme cittadine che obbligano i neri a cedere il proprio posto ai bianchi nel settore comune, quando in quello a loro riservato non ve ne sono più di disponibili.

Subito scoppiano le prime reazioni, mentre nella notte una cinquantina di leader della comunità afroamericana, guidati dal pastore battista e leader del Movimento per i diritti civili Martin Luther King, si riuniscono per decidere la linea di azione.

Così il giorno successivo comincia il boicottaggio dei mezzi pubblici di Montgomery, protesta che dura per 382 giorni. King viene arrestato insieme ad altri 90 afroamericani con l’accusa di intralcio a un servizio pubblico, ma ricorre in appello e vince. Nel frattempo dozzine di autobus rimangono ferme per mesi, fino a quando non viene rimossa la legge che legalizza la segregazione. Questi eventi danno inizio a numerose altre proteste in molte parti del paese.

Nel 1956 il caso Parks arriva alla Corte Suprema degli Stati Uniti d’America, che decreta, all’unanimità, incostituzionale la segregazione sugli autobus pubblici dell’Alabama. Da quel momento, Rosa Parks diventa un’icona del movimento per i diritti civili. Da allora è conosciuta come The Mother of the Civil Rights Movement.

Questa celebre foto è stata scattata dopo la conclusione della protesta, su un autobus che non ha più la vergognosa suddivisione dei posti a sedere.

Rosa Parks rides on a newly integrated bus in Montgomery, Alabama (Pinterest)


THÍCH QUẢNG ĐỨC – THE BURNING MONK

È il 10 giugno 1963 nella città di Saigon, Vietnam del Sud. Intorno alle nove di mattina, un’auto azzurra avanza lentamente nella strada, seguita da centinaia di monaci e monache buddhisti che marciano insieme. Recano cartelli, scritti in vietnamita e in inglese, che inneggiano all’uguaglianza religiosa. Ad un incrocio, l’auto si ferma. Un cuscino da meditazione viene posato sull’asfalto e un monaco vi si siede nella posizione del loto. Medita e recita il mantra del Buddha Amitābha, sgranando i grani di legno dell’Akṣamālā. Dopo un po’ si avvicina un altro monaco. Reca una tanica piena di benzina. La solleva sul capo del suo confratello e comincia a versargliela su tutto il corpo. Passano ancora lunghi secondi. Poi il monaco seduto avvampa in una grande fiamma mossa dal vento, un enorme fiore di loto dai lunghi petali di fuoco. Nel cuore del rogo, l’uomo non si scompone. Rimane fermo, in silenzio, continua la meditazione mentre la sua carne brucia, diffondendo un odore acre tutto intorno. Il cerchio degli altri monaci e della gente accorsa è scosso, la polizia cerca di farli allontanare, ma inutilmente. Molti piangono, altri pregano; perfino alcuni poliziotti non sanno trattenere lo sgomento e la commozione. Le lingue di fuoco ondeggiano inquiete; al di sotto un corpo brucia, diviene nero, oscilla leggermente avanti e indietro fino a cadere, ormai consumato dalle fiamme. Al tramonto di quella giornata migliaia di abitanti di Saigon dichiareranno di aver visto in cielo l’immagine di Buddha piangente.

Malcolm Browne, “The Burning Monk”, 11 giugno 1963, Saigon, Vietnam - [Public domain], via Wikimedia Commons


Il monaco si chiama Thich Quang Duc ed ha 66 anni. Il 19 giugno viene compiuto il rito religioso della cremazione. Alla fine, tra le ceneri, viene rinvenuto il cuore, resistito miracolosamente al fuoco, e Thich Quang Duc è riconosciuto come bodhisattva, cioè “essere vivente che aspira all’Illuminazione”. Il monaco si è immolato per protestare contro l’amministrazione del presidente del Vietnam del Sud, il cattolico Ngo Dinh Diem, e la sua politica di oppressione della religione buddhista.
Diem era salito al potere nel 1955, appoggiato dal governo statunitense, che vedeva nel Vietnam guidato da un cattolico un presidio contro il diffondersi del comunismo. Instaurata una costituzione autoritaria di tipo presidenziale, aveva ben presto introdotto una serie di politiche volte a favorire il Cattolicesimo a discapito del Buddhismo e delle altre minoranze religiose. In tutto il Vietnam del Sud rurale si susseguirono assalti ai monasteri buddhisti, con devastazioni, senza che la polizia intervenisse o identificasse i responsabili. La bandiera buddhista fu vietata in tutto il paese, mentre a tutte le manifestazioni ufficiali sventolava la bandiera vaticana assieme a quella nazionale. Le pacifiche proteste delle organizzazioni buddiste furono represse brutalmente. Il bilancio delle manifestazioni del maggio 1963 fu di numerosi templi distrutti, villaggi interi evacuati e devastati e un totale di nove vittime. I morti lasciati sul terreno dalle forze di polizia furono goffamente attribuiti ai Viet Cong, esasperando così gli animi e ponendo gli Stati Uniti in una posizione insostenibile sia a livello internazionale, sia rispetto alla propria opinione pubblica. Lo sdegno per l’aggressione subita spinse i buddhisti a ricorrere a gesti estremi e clamorosi che conquistarono l’attenzione dell’opinione pubblica mondiale. Così si arrivò, l’11 giugno 1963, all’auto-immolazione, nel pieno centro di Saigon, di Thich Quang Duc, all’epoca il maggior esponente della comunità buddhista di Saigon. Successivamente furono distribuite alla stampa internazionale le sue ultime volontà che contenevano un rispettoso appello a Diem affinché manifestasse carità e compassione verso tutte le religioni.

Questo gesto ebbe enormi ripercussioni sull’opinione pubblica mondiale, statunitense in particolare, e impressionò notevolmente il presidente Kennedy, che mise alle strette Diem affinché esaudisse la richiesta dei buddhisti di poter praticare la propria religione alla stregua dei cattolici. Il dittatore tuttavia non accolse l’invito e dichiarò la legge marziale, continuando la sua azione di propaganda e di repressione violenta, fino a che, il primo novembre, fu assassinato dai suoi stessi ufficiali nel corso di un colpo di stato preparato con il concorso dei servizi segreti americani.

Malgrado ciò, dal 1963 al 1966 furono 33 le persone a immolarsi nel fuoco in Vietnam del Sud.

Nonostante il giorno prima del rogo di Quang Duc alcuni rappresentanti della comunità buddhista di Saigon avessero avvisato la stampa americana che l’indomani sarebbe accaduto qualcosa nell’incrocio stradale davanti all’ambasciata Cambogiana, solo alcuni giornalisti erano presenti all’evento. Tra essi, Malcolm Browne dell’Associated Press. Le sue foto furono pubblicate dai giornali di tutto il mondo e si dice che abbiano contribuito ad accelerare la caduta del regime di Diem. Kennedy in particolare era rimasto molto colpito. “Nessuna fotografia nella storia del giornalismo ha mai generato le stesse emozioni di questa, nel mondo”, disse. Questa foto valse a Browne il premio World Press Photo of the Year per il 1963. Ci sono foto che documentano la storia e contribuiscono a ricostruirla e a raccontarla. Questa è una di quelle che è riuscita anche a cambiarne il corso.

Il cuore di Quang Duc è conservato nella pagoda Thien Mu, nella città di Huế e alcuni templi e monasteri gli sono stati dedicati. Il suo gesto di silenziosa protesta è stato emulato numerose volte, in varie parti del mondo. Lo stesso Jan Palach, dandosi fuoco in Piazza San Vencenslao per protestare contro la repressione sovietica della Primavera di Praga, dichiarò di ispirarsi al monaco vietnamita. Ancora nel giugno 2012 alcuni monaci tibetani si sono dati fuoco per protestare contro il governo cinese.


JAN ROSE KASMIR: I FIORI NEI FUCILI

Jan Rose Kasmir è una ragazza di 17 anni e vive nel Maryland. Quella mattina del 21 ottobre 1967 prende l’autobus, ma non per andare a scuola. Quel giorno si terranno decine di manifestazioni in molte parti del mondo, per protestare contro la guerra nel Vietnam, una guerra assurda, in un paese lontano, dal quale molti giovani americani tornano feriti, mutilati o in una cassa di legno. È priva di senso quella guerra che si vede in tv, che entra nelle case con un orrore senza fine. Quella mattina Jan Rose deve andare a gridare il suo “no” a quella carneficina.

Il luogo della protesta è a Washington, davanti al Lincoln Memorial. Una protesta pacifica: si sfila, si sollevano i cartelli e gli striscioni, si gridano gli slogan, si canta. Ci sono tante bandiere colorate. Sul palco si alternano discorsi e musica. Sono in 100.000 quella mattina nel West Potomac Park, la maggior parte giovani studenti. Il loro grido è un deciso “no” alla guerra. Jan Rose è una dei tanti, persa nella folla. Ha i capelli tagliati corti, indossa un abito a fiori e l’entusiasmo ribelle della sua giovinezza. Molti dei suoi amici hanno ricevuto la cartolina di chiamata alle armi. La portano con sé nelle tasche. Un pezzo di carta che pesa come un macigno.

Dopo la protesta, comincia la marcia. Obiettivo: il Pentagono. Lì è previsto un altro raduno. Dopo un entusiasmante concerto di Phil Ochs al Reflecting Pool, la maggior parte dei dimostranti marcia sul Memorial Bridge verso la sede del Dipartimento della Difesa. Davanti all’edificio e sul tetto i soldati sono schierati in divisa da combattimento: immobili, sguardo fermo, armi pronte, osservano il fiume di gente che marcia verso di loro. Questa volta non sarà una cosa pacifica.

Nel vasto parcheggio dove confluisce il corteo, qualcuno estrae la sua cartolina precetto, aziona un accendino, le dà fuoco e la tiene alta esibendola sotto gli occhi dei soldati. Molti lo imitano. Alla fine sull’asfalto rimangono mucchietti di carta bruciacchiata e cenere.

Cominciano le prime sparse sacche di confronto. Altri soldati vengono schierati, con i fucili spianati, le baionette innestate sulle canne e puntate in avanti. Due schieramenti si contrappongono, faccia a faccia. Da una parte il movimento degli studenti, dall’altra la Guardia Nazionale. Ci sono anche i paracadutisti della 82ª divisione aerotrasportata, veterani del Vietnam. Per ognuno dei due, l’altro è dalla parte sbagliata: gli studenti sono i privilegiati vigliacchi che si rifiutano di fare il proprio dovere; i soldati sono burattini comandati ad ammazzare la gente. Come possono intendersi?

Un piccolo, stretto corridoio li separa. La tensione è al massimo. Jan Rose fa un passo avanti. Nelle mani ha un piccolo crisantemo. Guarda negli occhi il soldato di fronte a sé, gli sorride, gli tende il fiore, comincia a parlare. Sono parole calme, dette con tono tranquillo. “I soldati non sono il nostro nemico, il nostro nemico è chi prende le decisioni”, grida qualcuno al megafono. Forse Jan Rose sta dicendo la stessa cosa o forse sta invitando quei soldati a togliersi il casco e a unirsi a loro. Anche gli uomini in divisa sono molto giovani, qualcuno ha lo sguardo inquieto, ma cercano di rimanere impassibili, fermi, ostentano indifferenza. In quel momento una macchina fotografica si inserisce in quel corridoio e scatta sette volte. Uno di quegli scatti diventerà una delle immagini più famose del Novecento, un’immagine che è diventata un’icona.

Marc Riboud, Jan Rose Kasmir, Washington, 21 ottobre 1967 - Flickr.com


A cosa si deve la fortuna di questa foto? Sicuramente non solo al gesto della ragazza. Tante foto hanno ripreso situazioni spettacolari, ma poche raggiungono tale perfezione. Resta da definire come la fotografia in sé, oltre l’avvenimento che ha ripreso, ha creato significato. Cioè, come il fotografo (insieme al terzo occhio del suo obiettivo), non la manifestante, ha creato il simbolo. Proviamo ad analizzare l’immagine. Cosa vediamo? A destra c’è una ragazza, con un fiore in mano, che indossa un abito a fiori, un po’ hippie. Il suo viso è sereno ed è in una posizione raccolta, che evoca la calma e la pace. Dall’altra una fila di soldati in divisa, vestiti in modo uniforme, al punto da confondersi. La loro posizione è senza ambiguità: baionette in avanti, pronti a caricare, atteggiamento aggressivo e bellicoso, perfettamente adeguato alla loro funzione di soldati. Ogni singolo elemento nella foto ci dice che siamo di fronte a due entità opposte e antagoniste: a destra una donna, sola, vestita di chiaro, perfettamente riconoscibile, una figura verticale e raccolta in forme tondeggianti; dall’altra un gruppo di uomini, vestiti di scuro e in modo identico, dai volti non riconoscibili, anonimi, schierati in senso orizzontale e lungo una linea dritta. Tutta la foto si gioca, dunque, su una serie di opposizioni: donna – uomini, fiore – armi, posizione raccolta e passiva – posizione tesa e attiva, difesa – attacco, aggressività – innocenza, simbolo fallico della baionetta – verginità del fiore.

L’inquadratura, impostando la nitidezza sul primo piano e lasciando sfocato lo sfondo, isola la ragazza dal resto dei manifestanti e ne fa, per un effetto sineddoche, il simbolo di tutto il movimento. Dà a quel movimento un volto unico, riconoscibile, dolce e pacifico. Se la ragazza è tutta visibile, in primo piano, il suo antagonista, l’uomo che le è di fronte, non si vede. Di esso vediamo solo la baionetta del suo fucile e questo dà un’impressione ancora più minacciosa e inquietante. La donna è sola di fronte a un’arma spianata contro di lei. L’amore di fronte alla guerra; il coraggio di fronte alla forza. La simpatia dell’osservatore non può andare che al più debole. Sebbene la foto sia stata scattata in uno spazio “neutrale”, la sua visione non dà adito a nessuna ambiguità, ma dà un messaggio immediato e chiaro e crea un simbolo perfettamente riconoscibile, quello della pace e dell’amore che si contrappongono alla guerra.

Il successo di questa foto, come di un’altra scattata lo stesso giorno da Bernie Boston, passata alla storia come Flower Power, è anche dovuto al fatto che si colloca tutta sulla linea del fronte, quel piccolissimo spazio che separa i due schieramenti, all’interno del quale la tensione drammatica è particolarmente forte. Allorché i due blocchi si toccano, rifiutando ognuno di arretrare, un piccolo, insignificante e fragile fiore riesce a sospendere il tempo e la tensione. E una foto che mostra un tempo sospeso è una buona foto.

Colui che ha scattato questa vicino al Pentagono è il francese Marc Riboud, uno dei più grandi fotografi del Novecento.

Questa è l’altra foto scattata quel giorno e divenuta anch’essa un’icona:

Bernie Boston, Flower Power, Washington D.C., 21 octobre 1967 - Pinterest.


Quest’immagine fece il giro del mondo diventando il manifesto del Flower Power Movement e il simbolo della lotta alla guerra del Vietnam. Il bilancio di quella giornata fu di quasi 700 arresti e di molti feriti. Da allora, si sono succedute altre foto famose di schieramenti contrapposti e di fiori nelle canne dei fucili, in varie parti del mondo, dal Portogallo, all’Iran, all’Ucraina nel 2004.

A questo link, un video sulla manifestazione del 21 ottobre 1967:



PRAGA 1968

Il 1968 è un anno spartiacque, denso di grandi avvenimenti: del 16 marzo è il massacro di My Lai, in Vietnam, del 4 aprile l’assassinio di Martin L. King, del 5 giugno quello di Bob Kennedy. Il ’68 è l’anno del Maggio francese e della strage di Piazza delle Tre Culture a Tlatelolco, poco prima che cominci l’ Olimpiade messicana. Ma il ’68 è anche l’anno dell’invasione sovietica di Praga.

È un’estate umida e calda nella città di Kafka, dove ciò che non ti aspetti sta lì dietro un angolo, pronto ad irrompere e sconvolgere una apparente normalità. Uno squillo di telefono nella notte. Un risveglio improvviso. Bisogna alzarsi, rivestirsi, appendere al collo la macchina fotografica e uscire in strada. Questa volta non per riprendere i carri degli zingari. Ci sono altri carri da fotografare. I campi degli zingari fanno parte del mondo del sogno, un passato che si ostina a chiudersi in una malinconica poesia. Quella notte invece bisogna documentare la storia, che si spalanca come una città violata da centinaia di carri armati. Sono lì per soffocare la primavera di un’utopia, quel “comunismo dal volto umano” che si è aperto a un processo di democratizzazione e di riforme, promosso da A. Dubček e sostenuto dalla popolazione. Una bomba a orologeria posizionata nel cuore del Patto di Varsavia. Nella notte fra il 20 ed il 21 agosto, mezzo milione di soldati sovietici e circa 5.000 carri armati invadono la Cecoslovacchia, soffocando la “Primavera di Praga”. Quella notte aprì una ferita lunga più di vent’anni.

Nelle strade della città, in Piazza San Venceslao, tra la folla e l’esercito sovietico, si muove un fotografo. Ha trent’anni ed è già un professionista affermato, dopo aver abbandonato la carriera di ingegnere aeronautico; non ha mai fatto il fotoreporter, ma i suoi scatti teatrali sono stati premiati dall’Unione degli artisti cechi. Quando i sovietici occupano Praga, Josef Koudelka è tornato da appena un giorno dalla Romania dove stava preparando un lungo lavoro sui gitani. Soprattutto nelle prime ore dell’occupazione, Koudelka è l’unico ad essere per le strade della cittá con la sua macchina. Grazie ad una serie di fortunose vicende, le sue foto dell’invasione riusciranno ad uscire clandestinamente dal paese dieci giorni dopo l’inizio di quegli eventi. Arrivati negli Stati Uniti, gli scatti vengono fatti vedere a Elliott Erwitt, allora presidente della Magnum Photos. Un anno dopo, in occasione del primo anniversario dell’invasione sovietica, undici di quegli scatti vengono pubblicati su “The Sunday Times”. Il reportage è firmato P.P. (“Prague Photographer”), nel timore di rappresaglie contro l’autore e la sua famiglia. All’anonimo fotografo di Praga viene assegnata la Robert Capa Gold Metal, forse il più ambito riconoscimento per un fotogiornalista, per la realizzazione di fotografie che richiedevano un eccezionale coraggio.


Josef Koudelka, Praga, agosto 1968 - Flickriver.


Dovranno trascorrere sedici anni per il riconoscimento effettivo dello scottante reportage: solo nel 1984, infatti, Joseph Koudelka ne ammetterà la paternità.

Secondo le dichiarazioni dello stesso Koudelka, nessuno in Cecoslovacchia si aspettava quell’invasione. Qualcuno pensava addirittura che in realtà ci fosse stata un’aggressione tedesca e che i russi fossero arrivati al volo per salvarli. Il 21 agosto del 1968 la gente uscì di casa senza capire cosa era successo. Molti andavano a lavoro o all’università. Si avvicinavano ai tank e tentavano di parlare con i soldati. I soldati, dal canto loro, nelle foto hanno facce spaesate, guardano in giro, spesso in alto… I soldati semplici erano partiti senza sapere esattamente cosa dovessero fare. Gli avevano detto che a Praga era in atto una controrivoluzione, che c’erano dei revisionisti ovunque pronti a sparare. E invece si trovarono di fronte un popolo prima spaesato, poi arrabbiato ma assolutamente pacifico.

Quella situazione si protrasse per sei giorni. Ci furono dimostrazioni, proteste, disordini, ma le sollevazioni popolari vennero scongiurate per evitare un inutile spargimento di sangue. Nonostante ciò, alcuni giovani tentarono di impedire l’avanzata dei carri armati, restando fermi in mezzo alla strada. Durante i primi due giorni, centinaia di persone vennero ferite e una ventina restarono uccise. In questa foto vediamo il gesto disperato e commovente di un uomo, il cui braccio alzato impugna un mattone, nell’atto di lanciarlo contro il tank.


Josef Koudelka, Praga, 1968 - Pinterest


La Primavera di Praga fu definitivamente seppellita, le riforme abolite e il rogo del 19 gennaio 1969, in cui si immolò il giovane studente di filosofia Jan Palack, segnò tragicamente la definitiva perdita della libertà e della speranza di un popolo.

Qualcuno ha descritto Koudelka in quei giorni come un “folle dallo sguardo selvaggio”, con due vecchie macchine fotografiche appese al collo, aggirarsi per la città e scattare foto, piazzandosi addirittura sul tetto di un blindato. “Andavo in giro come un pazzo con le mie macchine. Non sceglievo nemmeno l’oggetto, mettevo l’occhio nell’obbiettivo e scattavo. Succedeva tutto davanti ai miei occhi, la storia mia e del mio paese stava cambiando davanti al mio obbiettivo. Mi hanno fermato varie volte, ma ogni volta anche con l’aiuto di altri, sono riuscito a sfuggire e a salvare i rullini”, ha dichiarato di recente.

Josef Koudelka, Praga, agosto 1968 - Pinterest.


Nel 1987 Koudelka divenne cittadino francese, mentre poté tornare per la prima volta in Cecoslovacchia solo nel 1991.

A questo link, alcuni suoi scatti realizzati a Praga nel 1968:



IL BLACK POWER ALLE OLIMPIADI DEL ’68

Il ’68 è anche l’anno delle Olimpiadi a Città del Messico. La foto-simbolo di quell’evento, una delle più famose e iconiche del Novecento, è stata scattata il 16 ottobre e ritrae il podio della gara dei 200 metri piani. Sulle pedane della prima e della terza posizione ci sono due atleti americani, Tommie Smith e John Carlos. Sono a capo chino, alzano le mani guantate di cuoio nero chiuse a pugno (il saluto simbolo del Black Panther Party, una storica organizzazione rivoluzionaria afroamericana degli Stati Uniti d’America), hanno i piedi scalzi come segno di povertà e una collanina di piccole pietre al collo: “Ogni pietra è un nero che si batteva per i diritti ed è stato linciato”.

Tommie Smith e John Carlos, Città del Messico, 16 ottobre 1968 - Pinterest


Smith in quella gara era riuscito per la prima volta nella storia a scendere sotto i 20 secondi e aveva stabilito un record destinato a durare per 11 anni, fino all’arrivo di Pietro Mennea. Lui e Carlos, durante l’inno nazionale americano, rimasero immobili, con il braccio alzato e il pugno chiuso, eseguendo il saluto-simbolo del Black Power, in segno di solidarietà verso la lotta per i diritti civili degli afro-americani.

Più tardi, nella sua autobiografia, intitolata Silent Gesture, Smith dichiarerà che il suo non era un saluto legato al Black Power, bensì ai diritti umani. Ma la repressione non si fece attendere: i due atleti, all’indomani della premiazione, furono accusati di vilipendio alla bandiera e ai Giochi Olimpici e, per volontà del presidente del CIO, Avery Brundage, i due vennero espulsi dalla squadra nazionale americana e banditi dal villaggio olimpico. Tornati in patria, subirono varie ritorsioni, ricevettero minacce di morte e su di loro si tenterà sempre di far calare, invano, l’oblio.
La loro carriera si concluse lì. Più o meno la stessa sorte accadde al terzo atleta presente sul podio, l’australiano Peter Norman che, per solidarietà con i due atleti afro-americani, aveva indossato durante la cerimonia la coccarda dell’Olympic Project for Human Rights.
Il movimento del Black Power, che da pochi mesi muoveva i primi passi e che ricevette un fortissimo slancio grazie al gesto dei due atleti, chiedeva parità di diritti – non solo formale ma anche effettiva – tra bianchi e neri, ma era anche un movimento di ispirazione marxista. I membri del Black Panthers Party, infatti, leggevano il contrasto etnico come un conflitto di classe e alla non-violenza di Martin Luther King opponevano i principi della self-defence. Così, ad esempio, proponevano di pattugliare le zone abitate dagli afroamericani (Patrolling) per impedire alla polizia di compiere violenze non giustificate.

Solo nel 1999 gli Stati Uniti hanno posto riparazione alle ritorsioni inflitte ai due atleti medaglie olimpiche del ’68, insignendo Smith del premio di Sportivo del Millennio. Inoltre nel 2005 la californiana San Jose State University – l’università frequentata a suo tempo da entrambi gli atleti – ha eretto, nel proprio campus, una statua che raffigura proprio quella celebre premiazione.


IL RIBELLE SCONOSCIUTO DI PIAZZA TIENANMEN

Uno degli eroi più famosi del Novecento è un ragazzo senza volto e senza nome. Noi ne abbiamo conosciuto solo l’esile corpo visto di spalle, mentre fronteggia una colonna di carri armati, che avanzano verso Piazza Tienanmen, a Pechino, e che di lì a poco soffocheranno nel sangue la manifestazione di protesta degli studenti cinesi, I quali da giorni hanno occupato quel luogo per chiedere maggiore democrazia. Negli Usa ricordano questo ragazzo coraggioso come The Tank Man (L’uomo del carro armato); la rivista Time, nel 1998, lo ha definito The Unknown Rebel, “il ribelle sconosciuto”, e lo ha inserito nella lista de “Le persone che più hanno influenzato il XX secolo”.


Jeff Widener, Unknown Rebel - Pinterest.


Non è mai stato identificato con certezza, né si sa bene che fine abbia fatto. C’è chi sostiene che sia stato fucilato assieme al militare conduttore del carro armato che non lo ha travolto, c’è invece chi afferma che sia vivo, emigrato clandestinamente negli USA.

Questa fotografia (o le sue differenti versioni), fece il giro del mondo, tanto che nel 2003 venne inserita nella rubrica “Le 100 foto che hanno cambiato il mondo” della rivista Life.

In quei giorni girarono le foto scattate da Stuart Franklin di Magnum, da Jeff Widener dell’Associated Press e da Charlie Cole di Newsweek (che vinse il premio World Press Photo). Questa che vediamo è la foto-icona di Jeff Widener, per la quale fu finalista al premio Pulitzer del 1990.

La storia di Tienanmen è ancora piena di lati oscuri e di ricostruzioni sommarie ma, dentro la storia, quella fotografia ha costituito una storia a sé. Come tutte le icone non racconta cosa successe prima e dopo e cosa stava accadendo intorno. Assolve al compito di racchiudere l’immortalità dell’attimo.

Ma se si guardano altre fotografie, dei momenti che vennero prima e di quelli che accaddero dopo quel 5 giugno 1989, ci troviamo di fronte a una storia: il clima che si respirava in piazza Tienanmen nelle ore precedenti, la festa, gli studenti con le chitarre che cantano, quelli sfiniti dal sit-in che dormono, molti sorridono, un bambino che dà il benvenuto ai soldati. Sembra una festa ma, scorrendo le immagini, si segue il mutare degli eventi: scende il buio, cominciano gli scontri, le immagini mostrano facce tese, sguardi allucinati, si vedono volti insanguinati e poi cadaveri carbonizzati, colonne di fumo che si levano tutto intorno, ospedali stracolmi e infine cadaveri ammassati.

L’immagine di questo coraggioso ragazzo che cerca di fermare con il suo corpo la colonna di carri armati raggiunge tutto il mondo in brevissimo tempo e diventa subito un simbolo. Il suo gesto eroico viene ancor oggi considerato l’emblema della libertà e dell’opposizione a ogni forma di dittatura. Jeff Widener scatta questa foto dal sesto piano dell’hotel di Pechino, lontano all’incirca 1 km, con un obiettivo da 400 mm. La rivista Time scrive, citando uno dei leader del movimento pro-democratico cinese, “gli eroi nella fotografia del carro armato sono due: il personaggio sconosciuto che rischiò la sua vita piazzandosi davanti al bestione cingolato e il pilota che si elevò all’opposizione morale rifiutandosi di falciare il suo compatriota”.

Il fatto ebbe luogo nella grande arteria di Chang’an, vicinissima a Piazza Tienanmen e lungo la strada verso Pechino, il 5 giugno 1989, il giorno dopo che il governo cinese incominciò a reprimere brutalmente la protesta. L’uomo si mise in mezzo alla strada davanti ai carri armati. Teneva una busta in una mano e la giacca nell’altra. Appena i carri armati giunsero allo stop il ragazzo sembrò volerli scacciare. In risposta, i carri armati provarono a girargli intorno, ma il ragazzo li bloccò più volte, mettendosi di fronte a loro ripetutamente, adoperando la resistenza passiva. Poi si arrampicò sulla torretta del primo carro armato e si è messo a parlare con il pilota. Diverse sono le versioni su che cosa si siano detti, tra le quali “Perché siete qui? La mia città è nel caos per colpa vostra”; “Arretrate, giratevi e smettetela di uccidere la mia gente”; e “Andatevene!”.

Un quotidiano britannico diffuse la notizia che il Rivoltoso Sconosciuto fosse stato giustiziato, giorni dopo l’accaduto, ma questa notizia non è stata mai confermata. Nei giorni seguenti si mise in atto da una parte una limitazione all’accesso da parte dei media internazionali e dall’altra una feroce caccia ai contestatori, che furono imprigionati o esiliati.

Foto di Stuart Franklin - Magnum - Fotozona.it


Il 9 giugno Deng Xiaoping si assunse la responsabilità dell’intervento e condannò il movimento studentesco come un tentativo controrivoluzionario di rovesciare la Repubblica popolare cinese. Per legittimare la repressione, la propaganda ufficiale sostenne che i manifestanti avevano attaccato l’esercito, il quale, a costo di pesanti sacrifici, era comunque riuscito a “salvare il socialismo”.

Ancora oggi le stime dei morti di quella repressione sanguinosa non sono definitive e il governo cinese non ha nessuna intenzione di riaprire il discorso su quei fatti. Le stime ufficiali parlarono inizialmente di 200 civili e 100 soldati morti, ma poi abbassò il numero di militari uccisi ad “alcune dozzine”. La CIA stimò invece 400–800 vittime. La Croce Rossa riferì 2600 morti e 30 000 feriti. Le testimonianze di stranieri affermarono invece che furono uccise tremila persone. Organizzazioni non governative come Amnesty International hanno denunciato che, ai morti per l’intervento, vanno aggiunti i giustiziati per “ribellione”, “incendio di veicoli militari”, ferimento o uccisione di soldati e reati simili, il cui numero è stimato superiore a mille, forse 1300 o anche più.

Il seguente video mostra la stessa situazione, ma con una visuale molto più ampia:


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