Presentazione del libro Fotografie ritrovate, edito da Postmedia Books, a cura di Aurelio Andrighetto e Mauro Zanchi.
Nell’ambito della fotografia, mi pare che le fotografie trovate siano tra gli oggetti più efficaci per strutturare un metadiscorso sulla fotografia, che Fontcuberta definirebbe “postfotografia”.
Fin dall’inizio, infatti, a partire dai fotomontaggi dadaisti o dalle photo trouvée dei surrealisti e nei numerosissimi progetti in cui viene applicata tuttora, la pratica di riattivazione di immagini preesistenti riveste una notevole funzione metalinguistica: che si tratti di mettere in discussione la natura di prova e di documento dell’immagine fotografica o di evidenziare il ruolo essenziale della sua contestualizzazione, di sottolineare il peso dell’inconscio ottico come eccedenza o il peculiare rapporto della fotografia con il tempo e la memoria, o di speculare sulla condizione inflazionaria e postmediale delle immagini digitali e di proporre un’ecologia visuale, oppure ancora di porre in questione la nozione di creazione artistica e di autore, in ogni caso le fotografie trovate hanno da sempre avuto la capacità di mettere in prospettiva la fotografia stessa, di riflettere sul medium, sulla sua natura, sia semiotica che sociale, sui suoi limiti e possibilità.
Perché le fotografie trovate hanno questo grande potenziale metalinguistico?
La ragione è facile da intuire: perché l’utilizzo di fotografie trovate si fonda sull’implicito riconoscimento della polisemia delle immagini, le quali, per natura, sono irriducibili a un’unica cornice di senso o a un’unica forma di interazione sociale. La riappropriazione e la messa in circolo delle photo trouvée rappresenta il ready made portato alle estreme conseguenze, cioè lo scardinamento delle immagini da un contesto di vita, di funzione, di significazione e inserimento in un nuovo contesto, in cui intervengono nuove relazioni, sia tra le immagini che tra nuovi attori, con le loro diverse aspettative, a negoziare nuovo senso e anche nuovi status (da oggetto vernacolare a esposizione artistica, ad esempio). Tutto ciò si basa sul riconoscimento della fotografia come territorio instabile, cioè come oggetto il cui senso non è mai stabilito una volta per tutte, in quanto condizionato dal contesto e dalla sequenza in cui l’immagine fotografica è collocata e fruita, perché una fotografia non è in grado di raccontarsi da sé, di svelare le relazioni tra ciò che l’immagine mostra sulla sua superficie e ciò che significa.
Come l’objet trouvé surrealista o il ready made duchampiano, la fotografia trovata, appena viene liberata dalla sua originaria cornice esplicativa, allora diventa un luogo muto, pronta per essere inserita in nuovi contesti, generare nuove serie ed essere sottoposta a nuove elaborazioni del senso da parte di nuovi attori.
La fotografia è dunque un universo latente, che ha bisogno di essere attivato volta per volta. Non la rappresentazione di un evento del passato , ma un evento che ha luogo nel presente, in quel presente in cui l’immagine diviene un campo di forze in un nuovo contesto e alle prese con nuovi attuatori (chi la ripropone, chi la espone, chi la fruisce). La fotografia non è dunque un messaggio che porta con sé un significato dato una volta per tutte. Piuttosto è la manifestazione dell'emergenza. Non la registrazione di qualcosa che è stato, ma qualcosa che emerge quando viene attivato in un contesto. Non un ricordo del passato, ma un punto di accesso a diverse costruzioni e ricostruzioni del presente.
Questo vale per ogni fotografia, ma le foto trovate sono come il manifesto di questo assunto, lo esemplificano, lo incarnano a tutto tondo.
Tuttavia, parlare di decontestualizzazione e risemantizzazione guardando queste fotografie, questi volti che ci chiamano da un tempo passato, mi sembra quasi una contraddizione, o un oltraggio. Perché qui abbiamo a che fare con fotografie che sicuramente provengono da album di famiglia, da ambienti pertanto intimi e domestici, che dovrebbero essere preclusi al nostro sguardo, perché nati in un contesto privato, rispetto ai quali noi siamo degli intrusi, o dei voyeur, che ci schermiamo dietro al carattere anonimo di queste immagini. C’è anche il fascino della trasgressione, del varcare una soglia proibita quando ci si avvicina a fotografie di questo genere.
Nella pratica delle fotografie trovate, malgrado questi volti, portatori di storie, che ci interrogano chiedendoci di essere riconosciuti, è tuttavia inevitabile che queste immagini, una volta disperse e lontane da quella cerchia familiare che le vivificava e le attivava nell’ambito delle relazioni affettive, davanti a un estraneo restino mute, almeno al primo sguardo. Diventano curiosità anonime, il cui interesse, paradossalmente, non sta più nella familiarità di ciò che mostrano. Molto spesso, infatti, queste immagini ritrovate nei mercatini o nei negozi di antiquariato, attraggono l’attenzione e vengono scelte non per il loro contenuto memoriale, ma per le loro stranezze, per i loro errori, come inquadrature eccentriche, sfocature, presenze spurie o impreviste, doppie esposizioni, per tutti quegli elementi insomma che farebbero considerare la fotografia malriuscita, prodotto di scarto e che nel presente sono invece vissuti come valore aggiunto e che danno alle immagini quel carattere di mistero, di enigma, di familiarità e insieme di non familiarità, quello che potremmo ricondurre alle caratteristiche del perturbante, l’unheimlich teorizzato da Freud. Nel senso letterale della parola, perché le fotografie familiari, nel loro contesto originario, sono proprio l’incarnazione dello heimlich (che in tedesco significa nascosto, segreto, intimo), in quanto conservate in album, custodite e preservate da sguardi estranei e indiscreti. Quando sono disperse, invece, vengono separate dal contesto familiare e rese pubbliche e quindi diventano unheimlich, segreti svelati, esposti allo sguardo degli estranei, che riportano lo spettatore a qualcosa che gli è noto e familiare, che attingono alla sua stessa memoria, e contemporaneamente lo inquietano, come davanti al ritorno del rimosso. Lontane dai propri contesti originari è quasi inevitabile, per queste immagini, diventare degli enigmi dall’aria perturbante. Succede per le foto degli album di famiglia, ma anche per alcune fotografie di archivio (si pensi a Evidence di Sultan e Mandel) o di altra provenienza. E sul rapporto tra fotografia trovata e perturbante si aprirebbe un bel capitolo, che però ci porterebbe lontano.
Riprendiamo piuttosto il discorso di prima: la fotografia come territorio instabile, polisemico, contingente, evento emergente, mai riducibile a un senso univoco. Per chiudere sottolineando come ciò che a prima vista sembra una debolezza della fotografia, cioè la sua facilità alla decontestualizzazione, può rivelarsi anche un punto di forza nel favorire le decostruzioni di certe narrazioni, come quelle che vengono elaborate all’interno delle istituzioni ufficiali di conservazione della memoria. Per fare un esempio, le fotografie di Evidence provenivano dagli archivi militari, forensi e scientifici di molte istituzioni, governative e private, dell’America degli anni Cinquanta e Sessanta. Si trattava pertanto di immagini generate all’interno del sistema tecnocratico e della paranoia nucleare della guerra fredda. Una volta emancipate dalla cornice che le assoggettava alla funzione strumentale di prove, diventavano nient’altro che degli spazi di discontinuità, dove i fatti sparivano e rimanevano gli enigmi.
La moderna storiografia ha riflettuto molto sulla natura dell’archivio, problematizzandone la natura e il ruolo, facendo proprie le riflessioni di Foucault o di Derrida. Da esse emerge la natura ambivalente dell’istituzione ‘archivio’, termine che ha come radice l’arché, inteso come fondamento fisico che indica l’origine, ma anche come principio ordinatore che indica l’autorità (archeion era la residenza dei magistrati supremi, gli arconti). Nella parola “archivio” c’è dunque il senso del cominciamento e contemporaneamente quello dell’ordine, di un “principio arcontico di legittimazione” (Derrida), di un esercizio di potere, che stabilisce catalogazioni, schemi, tassonomie e gerarchie. La decontestualizzazione dei materiali d’archivio assume, da questo punto di vista, una valenza decostruzionista, che consente di ridiscutere la narrazione istituzionale, gerarchicamente determinata.
Lo stesso discorso vale per gli album di famiglia, archivi della storia familiare e, come tali, costruzioni non solo memoriali e affettive, ma anche d’ordine, che reificano ruoli, stereotipi e rapporti di potere. Una volta staccate da quelle cornici funzionali e ordinative, queste immagini hanno anche la possibilità di essere emancipate grazie a una nuova collocazione e risignificazione, in quanto sottoposte a nuovi sguardi, a nuove negoziazioni di senso. In tal modo, il reimpiego di fotografie trovate è una pratica che si sforza di dare espressione all’universo latente che ogni immagine contiene in sé. L’uso di fotografie di archivio non fa che scompaginare lo status probatorio e oggettivo che avevano nella loro enunciazione primaria; l’uso di fotografie provenienti da album di famiglia scompagina lo status funzionale nel contesto dell’ordine domestico. Questi usi postumi riconfigurano le immagini all’interno di un flusso nuovo, dove spesso ciò che viene esaltata non è la loro capacità di fungere da prova o da memoria, ma al contrario la loro valenza evocativa e immaginifica. In questo tipo di approccio, il significante ha la priorità sul significato. Si valorizzano i dettagli frammentari, l’apparizione della figura orfana di codice, l’aspetto erotico dell’immagine, il fascino della sua superficie e della sua materialità.
Concludo dicendo che c’è senza dubbio una portata potenzialmente sovversiva in queste pratiche di appropriazione: le finalità originarie, scientifiche, forensi, mediatiche, memoriali o di qualunque altra natura, attribuite alle immagini nel loro contesto precedente, sono annullate dal nuovo, in cui ogni immagine viene convocata a mostrare aspetti inediti di sé o le viene data l’occasione di presentare un suo lato imperscrutabile, una “resistenza”, una sovversione, una faglia di rottura.
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