Abstract:
La rivoluzione delle immagini ha dato vita a scenari inediti, caratterizzati da un’estrema complessità di forme di interazione tra prodotti mediali, forme narrative, ambienti di produzione e di fruizione e pratiche spettatoriali. Per affrontare lo studio di tale complessità si ricorre spesso a categorie mutuate dalle scienze biologiche, come la nozione di ecosistema.
L’approccio ecologico alle immagini è il corollario della logica relazionale che caratterizza la cultura visuale contemporanea, animata da dispositivi e pratiche quotidiane che ibridano, fanno convergere e rimediano una quantità enorme di contenuti visivi e audiovisivi, dando vita a immaginari complessi.
Si tratta insomma di spostare l’asse dello studio visuale dagli oggetti visivi, dalle singole pratiche di produzione, esposizione e fruizione di immagini, al sistema complesso di cui fanno parte, per assumere un punto di vista più ampio, organico, ‘ecologico’, attento soprattutto al contesto e alle relazioni di interconnessione messe in atto dalle agency degli attori coinvolti: i soggetti produttori e fruitori, gli oggetti visivi e i dispositivi che ne consentono la produzione, la fruizione e la circolazione. La sfida che si chiede è forse quella di un superamento della centralità del visuale come oggetto di studio, per estenderlo e integrarlo con altre pratiche di interazione tra soggetti, immagini e ambienti mediali. A tal fine, si cercherà di argomentare l’ipotesi di questo ecological turn incentrando il discorso intorno a tre parole chiave, che indicano gli elementi principali del sistema complesso citato: corporeità, ambiente e agency.
Il pictorial turn ribadisce piuttosto la peculiarità degli studi visuali e richiede un cambiamento epistemologico che pone lo studio delle immagini sullo stesso piano di quello del linguaggio. Si parla di svolta iconica per sottolineare, in particolar modo, il grande effetto che oggi le immagini determinano sulla stessa antropologia dell'Homo sapiens, una constatazione che impone l'impianto di studi appropriati del visuale, di una 'scienza delle immagini' non riducibile alle discipline che si occupano delle analisi semiotiche e testuali.
Le produzioni mediali (cioè veicolate da dispositivi materiali o testuali) sono state sempre inquadrate nell’ambito dell’universo culturale umano, distinto e separato dall'universo della biologia e delle scienze naturali, nel solco del dualismo occidentale di materia e spirito. La rivoluzione delle immagini ha tuttavia dato vita a scenari inediti, caratterizzati da un’estrema complessità di forme di interazione tra prodotti mediali, forme narrative, ambienti di produzione e di fruizione e pratiche spettatoriali. Per affrontare lo studio di tale complessità si ricorre spesso a categorie mutuate dalle scienze biologiche, come la nozione di ecosistema, “inteso appunto come ambiente composito, capace di integrare i flussi provenienti da utenti, tecnologie e oggetti mediali» (C. Bisoni, V. Innocenti, G. Pescatore 2013, p. 12). Per orientarsi nell’ambito dell’universo della cultura si ricorre, insomma, a strumenti concettuali delle scienze naturali, affinché – scrive ancora Michele Cometa – si «tenga conto anche di ciò che nelle immagini, negli sguardi e nei dispositivi non si lascia spiegare solo attraverso la “storia” ma deve attingere a dimensioni immemoriali come quelle della biologia e, più in generale, delle scienze del bíos» (Cometa 2020, p. 297).
Parlando di biologia e di ecologia è facile dar luogo a fraintendimenti, che rischiano di confondere l’identità degli studi di cultura visuale, già fin dagli esordi accusati di privilegiare un approccio antropologico, e dunque a-storico. Qui non si tratta assolutamente di inquadrare le immagini come fenomeni naturali, né il richiamo all'ecologia serve ad auspicare forme di intervento per contrastare o prevenire quell'inquinamento visuale denunciato da alcuni. Il ricorso a un modello ecologico è piuttosto da intendersi come orizzonte euristico in grado di far valere i seguenti principi:
- Il superamento del dualismo cartesiano tra psichico e corporeo e della separazione tra gli studi della cultura e le scienze della vita.
- La cultura, nella cui sfera rientra la produzione di immagini, costituisce la specificità della biologia di questa creatura particolare che è la specie Homo Sapiens, essere “per natura artificiale” (A. Gehlen), il cui processo di adattamento si è sempre esplicato in senso culturale e tecnologico. La biologia dell'essere umano, cioè, è costituita dalla sua dimensione tecnica e simbolica.
- Il concetto di ecologia appare uno strumento valido per analizzare e comprendere lo scenario visuale del nostro presente, caratterizzato da una complessità tale da essere assimilabile a quella che contraddistingue le relazioni tra gli organismi e i loro habitat.
Si tratta insomma di spostare l’asse dello studio visuale dagli oggetti visivi, dalle singole pratiche di produzione, esposizione e fruizione di immagini, al sistema complesso di cui fanno parte, per assumere un punto di vista più ampio, organico, ‘ecologico’, attento soprattutto al contesto e alle relazioni di interconnessione messe in atto dalle agency degli attori coinvolti: i soggetti produttori e fruitori, gli oggetti visivi e i dispositivi che ne consentono la produzione, la fruizione e la circolazione. La sfida che si chiede è forse quella di un superamento della centralità del visuale come oggetto di studio, per estenderlo e integrarlo con altre pratiche di interazione tra soggetti, immagini e ambienti mediali. A tal fine, si cercherà di argomentare l’ipotesi di questo ecological turn incentrando il discorso intorno a tre parole chiave, che indicano gli elementi principali del sistema complesso citato: corporeità, ambiente e agency.
Una mente embodied
In base a questo paradigma, la mente umana può essere modellata come una macchina di Turing, ovvero come un sistema computazionale e semantico, rispetto a cui la forma e le proprietà dinamiche del corpo non sembrano rivestire alcun ruolo peculiare. Ciò che importa sono i processi logico-computazionali della mente, non le sensazioni soggettive che li accompagnano.
Negli ultimi trent’anni hanno preso piede le cosiddette teorie dell’embodied cognition (cognizione incarnata), che restituiscono al corpo un ruolo di primo piano nei processi di cognizione e di significazione. A queste proposte fanno da sfondo delle teorie che mettono il corpo all’origine del processo evolutivo di Homo Sapiens e che ha avuto tra i primi sostenitori l’antropologo André Leroi-Gourhan.
Cosa si prova ad essere un pipistrello?, si chiedeva Thomas Nagel nel 1974, proprio negli anni in cui si affermava il cognitivismo. La conclusione era che, per quanto le nostre conoscenze scientifiche ci mettano nella condizione di comprendere la biologia e di descrivere il funzionamento della vita di un pipistrello, tuttavia non potremo mai assumerne il punto di vista. La prospettiva di ogni essere vivente è sempre incarnata nel corpo e ogni esperienza ha un carattere soggettivo ineludibile.
Ambienti mediali e postmediali
Homo Sapiens è caratterizzato da un patrimonio extra-genetico che si esplica nella produzione di manufatti ed artifici che si sedimentano formando un ambiente peculiare, un ecosistema variegato, fatto di simboli, produzioni espressive, dispositivi mediali. E se per ecologia intendiamo, secondo l’accezione introdotta nel 1866 dal biologo Ernst Haeckel, la scienza delle relazioni che gli organismi viventi instaurano tra loro e con l’ambiente circostante (ecosistemi), ecco che si può parlare di approccio ecologico allo studio di quelle forme espressive che sono le immagini. Perché le immagini non rispecchiamo un mondo ad esse esterno, ma concorrono a formare il mondo di cui sono immagine.
«La cultura visuale che è stata propria del XX secolo (il primo in cui la narrazione per immagini è stata prevalente rispetto alla cultura alfabetica-gutenberghiana) è ormai il campo aperto di una profonda riconfigurazione. Da un lato i media novecenteschi (televisione e cinema) e i loro ecosistemi narrativi sono coinvolti in una radicale rimediazione, dall’altra emergono plurime esperienze visuali di tipo partecipatorio (gli UGC, i MMORPG, YouTube, i social network). Queste esperienze di produzione, modifica, diffusione, fruizione di immagini di tipo grassroots contribuiscono largamente a determinare e connotare l’ambiente crossmediale e interattivo che in buona parte (ma non completamente) coincide con la cultura visuale di questo secolo». (E. Menduni 2013).
Gli studi di Cultura Visuale del nostro presente si trovano pertanto di fronte a una realtà profondamente modificata rispetto a quella dei loro esordi negli anni Novanta e, per affrontarla, devono adeguare metodi, strumenti e prospettive. Per la loro diffusione e pervasività e per l'incremento delle pratiche partecipative, i dispositivi e i contenuti mediali si configurano effettivamente come un ambiente complesso (culturale, sociale, economico), che continua ad evolversi e ad organizzarsi in equilibrio dinamico, per cui si rende necessario un approccio sistemico di studio, esattamente come quello che è necessario adottare nei confronti di un organismo vivente in rapporto con il suo ecosistema.
E così si parla di ecologia estetica, di ecologia delle immagini, di ecologia dei media (o, come preferirebbe Richard Grusin, di ecologia della mediazione), mutuando dalla biologia termini come ‘atmosfere’, ‘diffusione virale’, ‘ecosistema’, 'innervare' (verbo già usato da Benjamin). La disciplina che affronta lo studio dei media in quest’ottica intende il concetto di medium in un’ampia accezione, tale da comprendere non solo i tradizionali media della comunicazione – il linguaggio, la scrittura, la stampa, la radio, la televisione, internet, ecc. – ma ogni tecnica e dispositivo di mediazione percettiva, avvicinandosi alla concezione benjaminiana di milieu in quanto ambiente in cui ha luogo la percezione sensibile mediata da un’Apparatur tecnica in costante evoluzione (A. Somaini, 2013). Lo studioso che, sulla scorta delle teorie di McLuhan, per primo coniò l’espressione ‘ecologia dei media’, infatti, Neil Postman, definiva questa disciplina come «lo studio dei media in quanto ambienti», mentre Paolo Granata, autore anch'esso di un saggio dal titolo Ecologia dei media, definisce il medium come «l'habitat in cui ha luogo l'esperienza umana» (Granata 2015).
Gli ambienti nei quali la specie umana si è impiantata e sviluppata ha una consistenza ‘mista’, nel senso che si tratta di ambienti naturali (cioè soggiacenti ai vincoli fisici e biologici della natura) e contemporaneamente culturali, configurati dalle infrastrutture materiali e simboliche caratteristiche di questa specie di viventi.
Rinnovando costantemente le sue forme di mediazione con il mondo, l’uomo ha sempre trasformato il suo ambiente e, per effetto feedback, anche se stesso. La produzione visuale, incarnando un insieme di linguaggi, abitudini, modi d’uso e pratiche sociali, fa parte di questo ambiente complesso e dinamico di interazione. Tale nozione di ambiente costituisce lo strumento euristico da far valere come base di una visione sistemica del mondo che ci circonda, compreso quello iconico, rispetto al quale si rende necessaria la convergenza di diverse discipline, nel solco di quella sinergia già richiesta dagli studi di Cultura Visuale, da sempre attenti a convogliare vari campi di studio, dalla storia all’antropologia culturale, dall’estetica alla storia dell’arte, dalla biologia alle scienze cognitive alle neuroscienze, dalla linguistica alla sociologia, dagli studi sulla comunicazione a quelli sui media. E oggi, con la svolta bioculturale, assistiamo al coinvolgimento di scienze come la geologia, la meteorologia e la climatologia, la geografia e la cartografia, la zootecnologia e persino l’entomologia e la virologia.
Francesco Casetti così definisce il concetto di mediascape: «un ambiente che promuove o facilita la mediazione tra individui e tra loro e il mondo grazie a una serie di artefatti, prevalentemente tecnologici, che prendono posto in questo ambiente e letteralmente lo "innervano"» (F. Casetti 2018). Come scrive Paolo Granata, «la sfera dei media che ci circonda è per molti versi impercettibile, perché scontata». Per conoscere questa presenza è necessario pensare i media in modo diverso, e cioè non come degli strumenti da utilizzare semplicemente, ma come degli ambienti, «gli ambienti all'interno dei quali conduciamo le nostre esistenze; gli ambienti in cui si formano le nostre esperienze» (P. Granata 2015).
Il refrain ricorrente della nostra epoca è quello secondo cui viviamo in un mondo di immagini, in una iconosfera, caratterizzata dalla proliferazione degli oggetti e delle pratiche visuali, dalla presenza pervasiva e sovrapposta di dispositivi, dalla loro frammentazione e collisione, tanto che si parla di condizione postmediale, caratterizzata dal superamento delle specificità del singolo medium e da nuove forme di interazione, fatte di pratiche di rimediazione e di ipermediazione all’interno di contesti ibridi e iperconnessi. Ruggero Eugeni definisce la condizione ‘postmediale’ come caratterizzata dalla scomparsa (vaporizzazione) dei media. Secondo l’autore, infatti, «non è più possibile oggi stabilire con chiarezza cosa è “mediale” e cosa non lo è, né si può definire quando entriamo in una situazione mediale e quando ne usciamo: siamo piuttosto immersi in sistemi e ambienti di relazioni e di scambi» (R. Eugeni 2015). I dispositivi mediali si integrano strettamente agli apparati sociali, i media si ibridano con gli apparati non mediali, la tecnologia entra in rapporto immediato con il nostro corpo diventando indossabile e addirittura impiantabile nelle strutture anatomiche dei viventi, tendendo a minimizzarsi e ad assottigliarsi sempre di più, «fino a sparire all’interno di una rete di apparati, di processi e di pratiche quotidiani che rendono impossibile isolare le componenti mediali da quelle non mediali». I media si fondono con lo spazio e con la nostra vita diventando invisibili, divenendo, appunto, ‘ambiente’. Questa condizione porta Eugeni a parlare di un “epos della naturalizzazione dell’esperienza ipertecnologizzata e ipersocializzata”, che fonde bíos e téchne in ambienti ibridi e complessi.
L’iconosfera viene percepita e vissuta come uno spazio d’azione reale e convergente (H. Jenkins 2006), in cui operano soggetti ibridi, consumatori e insieme produttori (prosumer), all’interno di quegli ecosistemi che sono le piattaforme e gli archivi digitali (l'archivio è la forma culturale del nostro tempo secondo Catherine Russell mentre Lev Manovich usa il termine database), in cui si fruiscono e si condividono contenuti visuali di vario tipo, sempre in relazione dinamica rispetto all’intero contesto in cui circolano.
Si pensi, ad esempio, ad alcune forme di narrazione visiva, di fiction cinematografica o seriale, e lo stesso potrebbe dirsi per l’universo del videogioco, dell’informazione giornalistica o del marketing contemporaneo. Il consumo di questi prodotti non si esplica nel modo della fruizione tradizionale. La narrazione non si dà più nella forma del racconto, bensì nella forma dell’ambiente percorribile (un reticolo fatto di oggetti narrativi, prodotti ancillari o paralleli, paratesti, merchandising), all’interno del quale l’utente non consuma semplicemente dei contenuti, ma esplica una vera user experience. Si registra, dunque, il passaggio dallo spettatore a colui che si coinvolge in pratiche partecipative, dallo sguardo esterno alla dimensione immersiva. Francesco Casetti illustra bene questo nuovo modello di fruizione che coinvolge attivamente lo spettatore, sollecitando e favorendo una sua condizione performativa (performance) rispetto a quella tradizionale strettamente ricettiva (attendance) (F. Casetti 2009).
L’approccio ecologico alle immagini è il corollario della logica relazionale che caratterizza la cultura visuale contemporanea, animata da dispositivi e pratiche quotidiane che ibridano, fanno convergere e rimediano una quantità enorme di contenuti visivi e audiovisivi, dando vita a immaginari complessi, all’interno dei quali risulta impossibile distinguere le singole componenti, che in passato erano riconducibili a contesti mediatici diversi e separati (cinema, televisione, giornali, riviste, cataloghi e testi specializzati, gallerie d’arte e musei, ecc.).
In questa visione, la fruizione di immagini non si configura come un rapporto tra un soggetto autonomo e preesistente e un oggetto altrettanto preesistente ma inerte, ma come un’azione performativa all’interno di un ambiente mediale, le cui variabili mutano e si co-determinano nel corso della relazione, dando vita a fenomeni emergenti. Questo significa andare oltre il modello canonico di fruizione per accogliere quello di interazione dinamica e partecipativa. Il fruitore non è un soggetto dotato di un punto di vista privilegiato e collocato in uno spazio astratto, come l’osservatore cartesiano, ma è immerso in una sorta di nebulosa: l’ambiente mediale e ultraconnesso del nostro presente. Tale ecosistema è costituito dall'interazione tra l'ambiente fisico, le tecnologie che lo innervano e le pratiche sociali. Questa interazione condiziona l'insieme e retroagisce sulle singole parti, ridefinendo le loro funzioni e la loro agency.
L’agency delle nuove immagini
Quella oggi in atto sembra insomma una nuova tappa evolutiva, un’inedita forma di adattamento basata sull’interazione totale con le nostre mediazioni. Questa è la condizione essenziale del fare esperienza da parte dell’organismo umano, attraverso una interrelazione vitale, organica, affettiva ed incorporata con i dispositivi mediali. Nel nuovo ecosistema, formato da elementi biotici e abiotici e dai loro continui processi di interazione e di ibridazione, il fruitore di immagini non è semplicemente soggetto alle intenzioni comunicative, lineari e circoscrivibili, dei dispositivi visuali, ma agisce attivamente in senso partecipativo e performativo. I dispositivi mediali, d'altra parte, non sono da considerare le semplici estensioni protesiche del soggetto umano, ma agenti a tutti gli effetti. Non sono collocati nel mondo, ma sono parte altrettanto attiva di esso.
Il tema dell’agency delle immagini è stato al centro degli studi visuali degli ultimi anni, avendo riconosciuto ad esse lo statuto di complessi fenomeni socio-culturali. Dubois parla di immagine-atto, Debray scrive che le «immagini fanno agire e reagire», Freedberg si sofferma sul potere delle immagini, Alfred Gell si interessa al rapporto tra arte e agency, Mitchell si chiede che cosa vogliono le immagini, Bredekamp dichiara che le immagini ci guardano, Elkins analizza il fenomeno delle persone che piangono davanti a un quadro mentre Latour si interessa ai casi di iconoclash e al perché le immagini scatenino così tanto coinvolgimento emotivo. Gli studi di cultura visuale, con Mitchell in testa, hanno fin dall’inizio cercato di superare il modello di riflessione basato sulla consistenza ontologica dell’immagine a favore di una riflessione sul loro funzionamento all’interno dei contesti e delle pratiche sociali.
L’agire non è limitato al solo soggetto produttore o fruitore, in quanto creatore di forma e di significato. All’interno della nuova ontologia relazionale, l’agency si redistribuisce tra tutti gli elementi coinvolti, compreso l’ambiente mediale e gli oggetti visuali. Questi ultimi, grazie ai dispositivi nei quali circolano e si manifestano, sono diventati delle vere e proprie interfacce attive di interazione. La centralità dell’agency umana ha subito un radicale scossone dall’avvento dell’immagine digitale e dell’intelligenza artificiale. Queste nuove immagini, infatti, hanno mutato il modo di rapportarsi con noi e con il mondo, stravolgendo i codici semiotici, le modalità di visualizzazione e i modelli di spettatore all’interno della moderna cultura visuale.
L’immagine tecnica, fin dai suoi albori, ha offerto nuove forme di visione, configurandosi come strumento di potenziamento e di estensione dello sguardo, nonché come esperienza di dislocazione del punto di vista, che per la prima volta iniziava a liberarsi dall’indissolubile legame con gli occhi e dalla costrizione antropocentrica. Ma l’occhio meccanico della fotografia e del cinema, pur essendo "un occhio dotato di capacità analitiche inumane" (J. Epstein), restava comunque privo di pensiero e di memoria.
Anche le nuove tecnologie digitali, come innervazioni, aumentano le possibilità percettive dei nostri organi di senso, estendendo le nostre capacità di visione. Ma, nel frattempo, la cultura visuale ha cambiato forma. E lo ha fatto staccandosi e rendendosi sempre più indipendente dall’occhio umano, diventando così per larga parte non visibile. L’immagine digitale, infatti, ha una doppia natura: una grafica, e perciò è fruibile dall’occhio umano, e una matematica, e per questo può essere letta ed elaborata dalla macchina e dai nuovi algoritmi di machine vision.
Le fotografie che condividiamo sui social network hanno una vita in superficie (la visualizzazione da parte di altri utenti) che configura una pratica umana di tipo sociale. Ma al di sotto dei pixel dei nostri schermi, tali immagini sono contemporaneamente un insieme di dati che vengono convogliati in immensi dataset e processati dai sofisticati algoritmi delle reti neurali.
Le immagini digitali non sono solo immagini, ma sono anche dati, materiale operativo da cui nuovi agenti possono estrarre informazioni. Buona parte dei contenuti visivi che circolano oggi nei dispositivi non sono finalizzate allo sguardo umano. Non è la visione umana il loro obiettivo ed anzi gli umani sono spesso del tutto esclusi da quella che prende il nome di machine-to-machine vision. Allo sguardo umano si affianca prepotentemente un nuovo attore, dotato di una certa autonomia: la machine vision. Ed ecco che se Mitchell si chiedeva 'che cosa vogliono le immagini', Kevin Kelly si chiede invece 'quello che vuole la tecnologia' mentre Ed Finn si interroga a proposito di 'cosa vogliono gli algoritmi'.
L’incessante ricerca di una maggiore automazione si è dunque spinta fino al punto di voler trasformare le macchine stesse da semplici strumenti di trasmissione e riproduzione di informazioni in acuti ed attivi osservatori. Non permettono soltanto la visualizzazione dei dati acquisiti ed elaborati al soggetto umano, ma sono in grado di leggere e di interpretare ciò che vedono, svolgendo in maniera quasi del tutto indipendente funzioni in origine esclusivamente umane: il riconoscimento di forme, linee ed oggetti, l’individuazione di luoghi, la comprensione di scene, l’intercettazione di movimenti.
La convinzione che siamo solo noi umani i veri spettatori che guardano le immagini è ormai solo una credenza ingenua. Le immagini ci guardano, interagiscono con noi, esplicano la loro agency. Esse non rappresentano la realtà, ma agiscono in modo attivo su di essa. Queste immagini non sono solo immagini; sono un occhio, uno sguardo che vede, che vuole, che aspira ad essere autonomo e ad entrare in un rapporto simbiotico con il suo interlocutore umano. I nuovi ambienti mediali sono ambienti partecipati da soggetti di varia natura, umani e non umani, che interagiscono e coevolvono insieme.
Criticità
Le teorie estetiche che si sono succedute nella storia sono sempre partite da un’idea di prodotto visuale come oggetto finito, collocato in uno spazio e in un tempo determinati e stabili, sia esso un dipinto, una scultura, una performance, una fotografia. All’interno dell’infosfera ci viene invece chiesto di riconsiderare il paradigma stesso dell’oggetto estetico, il suo modo di darsi nello spazio-tempo, le modalità con cui noi spettatori interagiamo con esso. L’infosfera è un universo interconnesso e privo di confini, la cui temporalità è caratterizzata da una sincronicità che tende alla simultaneità, e da uno spazio fluido e delocalizzato in cui non ha più senso distinguere il reale dal virtuale. All’interno dell’infosfera nulla è realmente stabile e oggettivabile; la sua essenza è piuttosto l’interattività (Floridi 2017). In questa cornice le relazioni sono più fondamentali degli oggetti perché l’essere è interazione.
Il modello teorico della visual culture ha dunque bisogno di una integrazione o di una ristrutturazione, in senso dinamico e relazionale, per adeguarsi a questo nuovo paradigma. E può farlo partendo dal fatto che le immagini, da strumento di mediazione con il mondo, si sono trasformate nella sua materia prima, dalla natura sfuggente, ibrida, insieme fisica e virtuale, materiale e aleatoria e soprattutto affatto inerte o semplicemente riproduttiva, ma operativa, che agisce nel mondo contribuendo attivamente a plasmarlo e a renderlo un ambiente attivo e interattivo. Quel modello teorico degli studi di cultura visuale era ancora saldamente incentrato sul primato della visione umana. Oggi quel modello ha bisogno di essere rivisto, perché il dispositivo della visione si sta configurando in modo diverso; in un modo che va oltre la visibilità.
Quando nel 1996 uscì il celebre numero della rivista "October" interamente dedicato alla cultura visuale, i due curatori Rosalind Krauss e Hal Foster, nell'introduzione, espressero le loro riserve nei confronti del ricorso all'approccio antropologico da parte dei visual studies, giudicato a-storico, disincarnato rispetto alle logiche economiche e sociali che costituiscono il contesto storico all'interno del quale le immagini e i prodotti della creatività prendono e svolgono la propria vita. E tale rischio sembrerebbe accrescersi con il ricorso a un modello ecologico, che utilizza termini, categorie e metodologie mutuati dalle scienze biologiche e che sembrano astrarre l'oggetto di studio dal contesto storico, socio-politico-economico entro cui si struttura la cultura visuale, introducendo un elemento deterministico e presunto 'naturalistico' che potrebbe rivelarsi problematico. Se è vero che la cultura è la dimensione biologica di Homo Sapiens, è altresì vero che l'ambiente dell'essere umano, in quanto tecnologicamente mediato, linguistico e simbolico (perciò artificiale), non segue le leggi di adattamento e di continuo aggiustamento, basato sulle risposte di feedback, che regolano gli ecosistemi naturali, perché l'organismo umano non agisce in senso solo adattativo, ma soprattutto progettuale, innovativo e simbolico.
- da una concezione moderna della soggettività a quella di una agentività diffusa e interconnessa;
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