La frusta piombò sul dorso dell’animale con un suono vigoroso, netto. La mano che la guidava restò per un attimo sospesa in aria, poi tornò a roteare un’altra volta, due volte, tre volte, scagliando la frusta sulla groppa dell’asino, segnata dalle sferzate e dalla fatica. L’animale si era fermato sulla strada di terra battuta, mettendosi di traverso, con la testa rivolta alla campagna, come nell’ostinato, quanto inutile, tentativo di parare i colpi. Una sferzata più violenta delle altre gli fece uscire il sangue dalla schiena; l’asino lasciò andare un raglio, un urlo rauco che si levò straziando la tranquilla mattinata estiva. Per un attimo le cicale e gli uccelli tacquero, la gazza rimase immobile sul ramo del mandorlo e tutta la campagna restò silenziosa, quasi si disponesse all’ascolto. E in effetti un altro grido si udì, quello potente dell’uomo, il comando che non ammetteva esitazioni e poi ancora il sibilo rapido e sottile e lo schiocco violento della sferza. L’asino abbandonò finalmente quella strana posizione. La battaglia che si ripeteva ogni giorno da tanti anni si concludeva ogni volta con la vittoria dell’uomo; eppure il giorno dopo sarebbe accaduta di nuovo e così il giorno successivo, in un’eterna pantomima. Le ruote del carretto, straripante di verde tabacco, cigolarono e infine ripresero il loro lento girare su se stesse, lungo la strada infuocata dal sole di agosto.
Il contadino si tolse per un attimo la coppola, si asciugò col dorso del polso la fronte imperlata di sudore. La sostanza viscosa delle foglie di tabacco aveva avvolto le mani e i polsi come una guaina di cera nera e appiccicosa, che rendeva difficile la presa della frusta e delle redini. La vecchia camicia era completamente sudicia, soprattutto sul petto, dove si appoggiano le foglie del tabacco mentre viene raccolto.
Pasquale alzò lo sguardo e vide un altro carretto che gli veniva di fronte. Riconosciuto l’uomo che lo guidava, ebbe un sorriso che pareva quasi un ghigno. Venutisi più vicini, alzò la mano in segno di saluto.
«Salute Pietro», disse, «come sta tua moglie?»
«Bene. Grazie a Dio è andato tutto bene»
«Maschio o femmina?»
«È maschio», rispose Pietro. «L’abbiamo chiamato Martino». Le parole uscivano lente e ben marcate, lo sguardo rivolto in avanti, gli occhi fieri ostinatamente fissi su un punto dell’orizzonte. Pietro, tuttavia, riusciva a vedere lo stesso il ghigno sulle labbra dell’altro. Continuando a guardare avanti a sé, proferì un breve saluto e diede uno strattone alle redini del cavallo.
«Vai pure a riferire a Don Cesare che Pietro Mangiafichi va in giro senza cappello. Io sono un forese, e ai foresi il sole e la luna hanno sempre baciato la fronte».
Pietro Zollano, detto Mangiafichi, contadino e carrettiere del paese, per tutto il tragitto andò ripetendo tra sé queste parole, leggermente curvo sulle redini, lo sguardo fisso sul dorso dell’animale. I capelli folti e neri brillavano alla luce del sole. Tutto il paese conosceva e scherniva la sua ostinazione a non voler mettere il cappello sulla testa perché, così diceva Pietro, in quel modo non era costretto a toglierlo davanti a nessuno, e per «nessuno» egli intendeva soprattutto il parroco del paese e i membri della famiglia Ferrari, i proprietari della maggior parte delle terre lì attorno.
Pochi giorni prima la sua giovane moglie Immacolata aveva partorito un figlio, il loro primo figlio. La mammana del paese aveva dichiarato di non aver mai visto un bambino così bianco e rosso come il piccolo Martino. A quel pensiero il viso di Pietro si schiarì, scosse le redini e incitò il cavallo a un’andatura più veloce.
* * *
Pasquale arrivò a casa che il sole era già alto. Di lì a poco l’avrebbe raggiunto la moglie, che a piedi tornava dalla campagna dove fin dall’aurora aveva raccolto il tabacco insieme al marito. L’uomo scaricò il carretto, deponendo le foglie verdi e odorose su grandi teli di sacco, distesi sull’aia. Preparò i grossi aghi e lo spago che sarebbero serviti per cucire insieme le foglie; poi si diresse verso la pila, prese un grosso pezzo di sapone e cominciò a lavarsi le mani. Nonostante il sapone e lo sfregare vigoroso, le mani non ritornavano mai al colore consueto della pelle, ma conservavano una tinta olivastra e un odore amarognolo, che penetrava intensamente le narici e dava uno strano sapore al pane condito con olio d’oliva e pomodoro, che i contadini sono soliti mangiare quando tornano dalla campagna la mattina.
L’odore e il sapore amari del tabacco sono, in questa stagione, il companatico di ogni boccone, sia d’aria che di cibo. Pasquale stava appunto mangiando del pane condito in questo modo quando sentì avvicinarsi i passi di sua moglie. Ella entrò nel cortile, si tolse il fazzoletto nero dal capo e si diresse verso la pila, per liberarsi le mani da quella crosta vischiosa. Poi raggiunse il marito in cucina.
«Ho incontrato Pietro Mangiafichi», disse questi. «Sua moglie ha partorito. È un maschio».
«Sarà contento, immagino», disse la donna asciugandosi le mani alla mantiglia legata in vita. Poi sospirò: «Povero compare Pietro, a forza di andare in giro a capo scoperto gli si è guastato il cervello. Possibile che non si è accorto di niente? Si sente fiero quando si vanta di non dover mai scappellarsi di fronte a nessuno, e intanto non vede il bell’ornamento che ha sulla testa».
«Lui dice che la fronte dei foresi deve essere baciata dal sole e dalla luna», riprese Pasquale.
Afferrò una brocca di terracotta colma di vino e ne bevve un lungo sorso. Mentre si asciugava la bocca con il dorso della mano disse, come parlando tra sé:
«Ma quando mai il sole ha voluto bene ai foresi? Il sole brucia il cervello di chi lavora la terra dalla mattina alla sera, e noi altri siamo costretti a metterci un cappello sulla testa, per ripararci dalla calura».
«Invece Pietro dovrebbe ripararsi dalla vergogna».
«Don Cesare è un signore», proseguì ancora Pasquale, «e si sa che i signori hanno sempre l’ultima parola. Tu pensi che lui andrà da Pietro, a dirgli che gli ha preso la moglie? No, Don Cesare non gli dirà niente, perché non ce n’è bisogno. Tutto il paese sa che l’Immacolata del Pozzo non andava a casa di Don Cesare Ferrari solo per fare la serva. I padroni sanno sempre come piegare l’onore di un forese. L’hanno imparato da molto tempo. Uno come noi può ribellarsi rifiutando di togliersi il cappello, ma questo non fa paura ai Don Cesare, perché loro sanno sempre trovare il modo di rimetterci il morso e la soma, di ricordarci che la testa, con o senza cappello, la dobbiamo sempre abbassare davanti a chi comanda… A proposito», disse poi mentre si rimetteva la coppola, «devo andare alla villa. Devo chiedere a Don Cesare di darmi dieci telai per appendere il tabacco».
«Aspetta che torco il collo a una gallina», borbottò la moglie. Poi, mentre già si avviava nel pollaio: «Davanti ai signori non si va mai con le mani in mano».
* * *
Nel campo di Pietro Mangiafichi c’era un menhir, esposto all’erosione del vento e della pioggia da tempo immemorabile. Molte leggende e fiabe popolari attribuivano a questa pietra poteri magici; si raccontava in particolare che nascosto sotto il menhir ci fosse un tesoro, un’acchiatura, e che solo il sacrificio di un bambino, allo scoccare del dodicesimo rintocco della mezzanotte, avrebbe potuto disseppellirlo. Ripensava a questa leggenda il nostro Pietro mentre lavorava nel suo campo, piantato a vigna. Quell’anno prometteva un buon raccolto; i grappoli di malvasia già nereggiavano tra i verdi pampini e quelli di uva bianca luccicavano sotto i raggi del sole. Era passato da poco mezzogiorno. La calura sembrava volesse dar fuoco agli alberi e alle viti, infiammare l’aria e sbriciolare le pietre ai bordi del campo. La terra cominciava a bruciare sotto i piedi callosi di Pietro, curvo sui filari. Rivoli di sudore gli scendevano dalle tempie e dal collo, così che di tanto in tanto alzava la testa per asciugarsi il viso col braccio.
Ad un tratto, però, il cielo cominciò ad oscurarsi. In poco tempo il sole sembrava scomparso e squarci di luce formavano degli strappi nella massa fumosa dei nuvoloni neri che si ammassavano minacciosi. Grosse gocce di pioggia cominciarono a venir giù sempre più fitte, mentre il rumore dei tuoni si avvicinava.
Pietro pensò di ripararsi nella casupola, costruita da suo nonno molti anni prima con le pietre trovate nel campo. Ma prima alzò gli occhi a guardare verso ponente, da dove veniva l’acquazzone. Quell’acqua era una manna per la sua vigna e per quella terra arsa.
Entrato nella casupola si sedette su una pietra abbastanza grande, tirò fuori dalla saccoccia un pezzo di pane e un fiasco di vino. Mentre addentava il suo pranzo guardava soddisfatto la sua terra dissetarsi di quell’acqua cantante, vedeva le foglie delle viti ondeggiare sotto lo scroscio violento della pioggia che veniva giù benefica e ristoratrice. Ogni tanto un guizzo di luce fendeva il cielo; Pietro allora interrompeva il pasto e disponeva il suo orecchio e l’animo all’ascolto del tuono, che immancabile seguiva col suo rombo pauroso. Seduto lì, su quella pietra, poteva vedere il menhir piantato nel suolo e ripensò alla leggenda. Pietro certo non vi aveva mai creduto, ma tuttavia andava orgoglioso che quella pietra si trovasse nel suo campo; la sua solennità e la sua resistenza al tempo l’affascinavano. Era il segno visibile di una ricchezza custodita dalla terra, quella terra che faceva tutt’uno col suo cuore e la sua stessa carne; quella terra che serbava la fatica dei suoi padri e molta parte della sua fanciullezza e dove sperava di portarci un giorno il proprio figlio, affinché il legame non fosse spezzato. Quella terra, quelle viti rigogliose erano il suo vanto, la sua ricchezza, e Pietro si sentiva davvero un uomo fortunato. Quel menhir di nuda pietra, che veniva da un passato così lontano e aveva resistito a tutte le intemperie, gli ricordava tutto questo e per un attimo pensò che forse aveva veramente un potere magico.
Un tuono più vigoroso lo scosse da questi pensieri. Pensò a sua moglie e a sua madre, che viveva nella loro casa. Le immaginò entrambe inginocchiate a dir le litanie e a pregare San Giovanni che si portasse via i fulmini e le saette. Ebbe un sorriso. Aveva negli occhi la sua vecchia madre, con le sue gonne eternamente nere e lunghe fino ai piedi, la sua crocchia canuta, gli occhi lacrimosi e velati, le braccia coperte di macchie scure, la raggera di solchi che circondava la piccola bocca. La vide curva e col rosario in mano, mormorare le sue preghiere per allontanare i fulmini e baciare di tanto in tanto il piccolo crocifisso di ferro. Povera vecchia donna, consumata dalla fatica e dai patimenti, rimasta vedova troppo tardi per evitare i maltrattamenti di un marito, che, non per la durezza del cuore, ma per antica consuetudine, aveva sfogato tutta la rabbia sulla gente della sua famiglia.
* * *
Pietro Zollano aveva una sorella, Lucia, di qualche anno maggiore di lui, donna devota e additata spesso nel paese come esempio di moglie e madre virtuosa e grande lavoratrice. Era stata data in sposa da suo padre, quand’era ancora una giovinetta, a un contadino piuttosto in avanti con gli anni, che possedeva un ettaro di vigna e uno di grano, un mulo e una casa di tre stanze. Ora la figlia portava avanti lo stesso destino di fatica e di solitudine che era stato di sua madre. Il suo maggiore affetto era quello per i suoi numerosi figli e per suo fratello, l’unico uomo che non sentisse ostile e ripugnante, l’unico uomo che le chiedeva qualcosa con garbo, senza urlarle dietro i propri ordini. Lucia era venuta a conoscenza di ciò che il paese mormorava a proposito di sua cognata e questo le metteva addosso molta inquietudine. Si sa che la gente spettegola sempre, soprattutto quando si tratta di una bella donna maritata e per di più a servizio di un ricco padrone, con la fama di quello che, quando vuole una cosa, se la prende in ogni caso. Lucia all’inizio aveva cercato di ignorare le maldicenze, ma alla nascita del bambino queste erano diventate così insistenti che decise di fare qualcosa. L’idea che le era venuta subito in mente era stata quella di parlare con la madre, ma il cuore della vecchia donna era così stanco che mal sopportava le emozioni. Decise allora di affrontare direttamente sua cognata.
Si recò da lei una mattina, mentre suo fratello era nei campi. L’Immacolata del Pozzo stava presso la grande pila a fare il bucato, versando acqua calda riscaldata sul fuoco del camino. Il piccolo Martino, fasciato come un bozzolo, dormiva tranquillamente nel letto dei genitori. Entrando nel cortile Lucia salutò sua cognata e le chiese subito del bambino. Poi, con voce alterata dall’agitazione, disse:
«Immacolata, sono venuta per chiederti una cosa molto importante».
S’interruppe. Esitò prima di proseguire. Il suo sguardo sottomesso di sempre rivelava una profonda sofferenza.
«Ma non vorrei che tu l’abbia a male».
Immacolata non si scompose. Gettò un breve sguardo alla cognata continuando a sfregare e a strizzare i panni. Le maniche della camicetta erano arrotolate fino ai gomiti e l’abbondante petto sudato ondeggiava, scuotendosi tutto ad ogni movimento. Lunghe ciocche di capelli neri, ribelli alle forcine, le ricadevano sul collo e sul viso.
«Che mi devi chiedere?», chiese Immacolata, alquanto asciutta.
Lo sguardo restava fisso sui panni straziati dallo sfregare deciso delle braccia robuste.
«Immacolata, tu sai quanto bene voglio a mio fratello e anche a te e al piccino», disse Lucia, un poco intimorita dalla fermezza della cognata.
Immacolata restò muta. Prese un secchio pieno d’acqua e lo versò in una bacinella di rame.
«Ho sentito strane voci nel paese», riprese Lucia. Ora la sua voce aveva acquistato un tono più pacato.
Ci fu un attimo di silenzio. Immacolata chiese:
«Ebbene?»
«So che la gente dice sempre di più di quello che vede, ma volevo rassicurarmi». Poi riprese, abbassando lo sguardo: «Si sa che noi donne dobbiamo sempre guardarci dai pericoli».
«Lucia, tu sai bene che una donna, signorina o maritata, deve sempre sottostare a qualcheduno». Il tono fermo di Immacolata disorientò un’altra volta Lucia. Ma si riebbe immediatamente:
«La donna è sottomessa prima al padre e poi al marito, e basta», esclamò con forza. Nel dire ciò Lucia aveva perso l’espressione incerta di poco prima. Si era raddrizzata sulla persona e per un attimo un lampo tagliente aveva balenato nei suoi occhi.
«La donna è sottomessa all’uomo, Lucia. Dovunque vada, c’è sempre qualcuno che la prende per la cavezza».
Lucia riprese lo sguardo mansueto di sempre e avvicinò dolcemente una delle sue mani al volto di Immacolata:
«Se non ci aiutiamo tra di noi… Chi meglio di una donna ne può capire un’altra?».
«Ti sbagli, Lucia. Una donna sta sempre dalla parte di qualche uomo». Arrestò finalmente i movimenti secchi delle braccia. Il suo corpo smise di ondeggiare e di scuotersi; contemporaneamente volse il suo sguardo verso la cognata e le piantò addosso i suoi occhi neri come la notte. «Perché sei venuta qua stamattina?, perché eri preoccupata per me? o temevi, piuttosto, per tuo fratello?, di quello che la gente dice di lui?».
Poi, riprendendo a sfregare sul lavatoio di legno:
«Stai tranquilla, cara cognata. Quel bambino che dorme lì dentro è figlio di mio marito. Ma tu sai che un sospetto di quel tipo distruggerebbe la vita di un uomo orgoglioso come Pietro. Così, è meglio che lui non sappia niente. Io non andrò più a lavorare a casa di Don Cesare e così speriamo che la gente si dimentichi di questa storia».
* * *
Una domenica di settembre si celebrò il battesimo del piccolo Martino. Dopo la Messa in Chiesa, Pietro aveva invitato i parenti e qualche conoscente a casa sua per bere un bicchiere di vino accompagnato da taralli piccanti e noci secche. Un vassoio di dolci fatti in casa faceva bella mostra al centro di un tavolo insieme a una bottiglia di liquore al mandarino. Tra gli invitati vi era anche Pasquale con la moglie. Come ogni domenica, Pasquale aveva smesso la coppola sudicia e aveva indossato il suo cappello della festa. A turno i presenti si avvicinavano al bambino, che dormiva placidamente nelle braccia di Immacolata, per ammirarlo e fare i complimenti alla madre. Un gruppo di bambini si aggirava intorno al tavolo dove c’era il vassoio dei dolci. Gli uomini bevevano vino allegramente, schiacciando rumorosamente le noci tra i denti o con un colpo secco della mano sul tavolo. Il clima era gioviale e disteso; la giornata era molto calda, sebbene l’autunno fosse alle porte e qualche nuvola biancheggiasse in lontananza.
Pietro se ne stava tra il gruppetto degli uomini che sorseggiavano il buon vino rosso. Ascoltava in silenzio i discorsi degli altri e interveniva solo di rado. Ogni tanto si volgeva a guardare con sguardo fiero il bambino dormiente tra le braccia della moglie.
Il vino scivolava piacevolmente nelle gole, per estinguere la sete acuita dalle noci e dal caldo. Mano a mano che gli orcioli venivano svuotati i discorsi degli uomini cominciavano a divenire più allegri, più licenziosi. Anche le donne si erano raccolte ed erano prese nei loro discorsi. Ad un certo punto il gruppo degli uomini si spostò fuori all’aperto, portando con sé i bicchieri e gli orcioli colmi di vino e sistemando le sedie all’ombra del pergolato. Uno degli uomini, tra un sorso e l’altro, si lamentava della moglie:
«Le donne sono curiose come le capre», diceva. «Se le lasci fare, sono capaci di seguirti anche all’inferno. Devono sapere sempre dove sei e quello che fai, se no scoppiano».
«Anche noi dovremmo fare come loro», rispondeva un altro, a cui il vino aveva sciolto la lingua, come quando a un cavallo si allentano le briglie. «Dico bene, compare Pietro? Le donne non si lasciano mai sole, soprattutto quando sono belle e stanno molto tempo fuori di casa, lontane dal marito».
Per un attimo tutto tacque, come fosse stato investito da un soffio di vento gelido. Pasquale guardava fissamente Pietro, che alle parole dell’uomo aveva alzato bruscamente il capo e aveva mosso le mascelle.
«Cosa vuoi dire, compare?». La domanda non rivelava nessuna emozione particolare, ma ugualmente lasciò dietro di sé un’eco di ghiaccio. I visi degli uomini erano divenuti seri ad un tratto. Solo Pasquale cercò di simulare una certa allegria. Prese una brocca dalla panca, riempì un bicchiere e lo porse a Pietro.
«Non ci fare caso, Pietro. Lo conosci; non è lui che parla ora, ma San Martino».
Continuando a guardare quell’uomo, Pietro scansò con la mano il bicchiere che Pasquale gli porgeva e rifece la stessa domanda.
La tensione sembrava aumentare ad ogni istante, come un turbine che entrato in una casa cerca un’apertura per uscire oppure esplode. Quando il vino è salito alla testa difficilmente si riesce a controllare le parole; queste diventano un torrente in piena che non può se non scorrere, aprendosi un letto tra l’erba e gli sterpi. Così l’uomo che aveva parlato, per sfogare il suo rancore contro Pietro che gli stava di fronte e lo guardava minaccioso e perché ormai non riusciva più a frenare la lingua, portò a termine quello che Pasquale temeva.
«Dico, compare Pietro, che è bello andare in giro scappellati; ma bisogna stare attenti a quello che si porta in testa».
Pietro si alzò con furia dalla sedia, che cadde a terra. Volse per un attimo gli occhi su alcuni di quegli uomini e questi abbassarono lo sguardo. Allora con il movimento rapido di una sferzata si avvicinò a quello che aveva parlato; con una mano gli afferrò il bavero della giacca e gli avvicinò l’altra al viso con fare minaccioso.
«Parla chiaro o ti rompo i denti».
Sebbene in quella posizione sfavorevole, l’uomo continuava a guardare Pietro con insistenza, in maniera aperta, sfacciata. Sulle labbra e negli occhi velati dai fumi ostentava un sorriso di sfida.
«Invece di vantarti della tua baldanza, pensa a tua moglie, che intanto ti orna la fronte con Don Cesare Ferrari».
Il pugno gli arrivò sulla faccia come per chiudergli la bocca definitivamente. La violenza fu tale che l’uomo cadde a qualche metro di distanza e Pietro si sarebbe avventato su di lui e avrebbe continuato a colpirlo se alcuni di quegli uomini non l’avessero fermato. Tremante di rabbia, cercava di divincolarsi dalla stretta per ripiombare su quell’uomo, per sfogare l’istinto che l’aveva invaso senza rimedio. Quando finalmente sembrò acquietarsi, lo lasciarono andare. Pasquale prese Pietro per un braccio e lo trascinò poco lontano dal gruppo. Sul viso di Pietro c’era ora un’espressione interrogativa, che chiedeva con insistenza qualcosa. Pasquale gli fece cenno di sì con la testa. Allora Pietro strinse i denti ed i pugni. Le vene delle tempie gli battevano impazzite. Emise un urlo rauco, che poco aveva di umano. Pasquale strinse con più forza il suo braccio. Ad un tratto si levò una folata di vento, che creò un mulinello di foglie secche. Il cappello di Pasquale volò via e ricadde poco lontano. Entrambi gli uomini restarono in quella posizione per qualche secondo, poi Pietro si sciolse dalla stretta e si precipitò in casa come una furia. Le donne avevano sentito l’urlo e smarrite e timorose guardavano verso la porta. Quando apparve Pietro sulla soglia qualcuna gridò. L’uomo aveva gli occhi accesi e la bocca serrata. Guardandola fissamente avanzò con passo lento verso sua moglie. Quando si fu avvicinato le strappò il bimbo dalle braccia. Lucia, che era lì vicino e aveva intuito l’accaduto, si parò di fronte a Pietro e cercò di portargli via il bambino.
«In nome di Dio, Pietro, cosa vuoi fare?»
Pietro restava muto. Con le braccia aveva sollevato il bambino fino al suo viso. La piccola creatura si era svegliata e aveva cominciato a piangere. Dopo pochi istanti che sembrarono interminabili l’uomo lasciò andare il bambino alle braccia tese della sorella e si avvicinò ad Immacolata. Il suo lungo collo biancheggiava sulla scollatura del vestito. Guardò la donna con occhi fiammeggianti, afferrandole con forza le spalle. Urla isteriche si levarono nella stanza; qualcuno accorse per cercare di fermarlo. Quando Pietro ritornò in sé, vide la moglie che si era levata in piedi e gli stava di fronte fissandolo. Con un movimento brusco allontanò le mani da lei. Si volse a guardare per un momento la madre che singhiozzava e scappò fuori dalla stanza.
Attraverso i campi arrivò alla sua vigna e qui si accasciò per terra, quasi vicino al menhir. Sentiva un dolore lancinante nello stomaco. Con i pugni cominciò a colpire la terra, le piante. Strisciava al suolo e si contorceva come una serpe ferita a morte. In questo modo arrivò vicino alla colonna di pietra e prese a colpirla con forza. Le mani e il naso gli sanguinavano e innumerevoli graffi gli segnavano le braccia. Finalmente si quietò, con un rantolo. Col viso affondato nel suolo, afferrava la terra con le mani e lentamente la lasciava cadere, come sbriciolandola. Gocce di pioggia cominciarono a cadere, sempre più insistenti. Poi, insieme ai goccioloni, vennero giù numerosi chicchi di grandine, grossi come ciliegie, taglienti come lame. Le piante di vite sembrarono gemere sotto i loro colpi. Strappavano e trapassavano le foglie, ferivano gli acini maturi fino a spolparli. Per qualche minuto martellò quella pioggia sassosa e, quando cessò, di quelle piante rigogliose di frutto non rimanevano che pampini lacerati e grappoli più simili a raspi. Solo il menhir restava immutato e continuava a levarsi, come faceva da millenni, su quella terra che di lì a poco il sole avrebbe asciugato.
Racconto certo Marisa, ma la realtà si legge come in filigrana.
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