Luigi Ghirri, Tellaro, 1980. |
Una ringhiera affacciata su un mare placido e azzurro che illanguidisce all’orizzonte, la scritta ‘mare’ in stampatello maiuscolo dello stesso colore, giusto di una tonalità diversa. A parte una minuscola barchetta in basso al centro e un frammento di scogliera verdeggiante sul lato destro, nell’immagine non c’è altro. Solo il mare e la parola che ne costituisce il segno linguistico. Sarà per questo che la fotografia di Ghirri scattata a Tellaro nel 1980 sembra adagiata in una piega di confine: sognante e lirica come una poesia, icastica e tautologica come un’immagine concettuale, senza alcuna possibilità di far prevalere una lettura sull’altra.
La parola che designa e il mondo che è designato sono messi a confronto, in un rapporto così diretto che il senso come l’intelletto ne rimangono ammaliati. Sì, perché mentre la tautologia si impone con tutta la sua evidenza visiva, lo sguardo è già andato oltre, superando la tentazione di farne una pura corrispondenza linguistica. La compresenza di oggetto e segno verbale, infatti, smette subito di essere percepita come una semplice relazione biunivoca di segno e referente e appare, all'opposto, incongrua, chiede ragioni, reclama un senso ulteriore, ben al di là di quello letterale. Provoca, si potrebbe dire, uno sconfinamento.
Questa, infatti, è una storia di confini – l’abbiamo già detto -, una storia di orizzonti che si mettono in relazione: quello del mare e quello della parola. Nell’immagine ritroviamo, prima di tutto, uno dei dispositivi dello sguardo tanto cari a Ghirri. In questo caso una ringhiera che si sporge sul mare, una sponda di affaccio, una soglia che permette di indirizzare e di focalizzare lo sguardo. Come scrive Vittore Fossati nell’articolo L’otto rovesciato a proposito di altre fotografie di Ghirri (http://www.lucandreoni.com/blog/vittore-fossati-lotto-rovesciato/), l'immagine è organizzata tra un questo e un quello, un qui e un là, un vicino e un lontano, posti in relazione dallo sguardo.
La parola è trattenuta in rigidi telai di metallo che ferreamente la inquadrano in una cornice. Il mare è invece un’entità indefinita, che sfuma all'orizzonte. È l'infinito, ciò che per definizione non può essere racchiuso in nessuna bordura, la forma che non può trovare una forma definita. La ringhiera è come la siepe dell'Infinito di Leopardi, in cui l'infinito, appunto, può essere colto solo in rapporto al finito (vo' comparando dice il poeta). Nella fotografia di Ghirri, il termine astratto è diventato soglia, cioè luogo di accesso alla visione: lo sguardo può cogliere l’infinito solo attraverso quella soglia, perché l’infinito si dà come ciò che va oltre, che è irriducibile alla cornice che lo inquadra. Come a voler dire: è il linguaggio che permette di 'vedere' il mondo. Il linguaggio è una soglia di visibilità. E tuttavia il mondo non si lascia definire completamente dal linguaggio. Rimane irriducibile ad esso.
Guardiamo la fotografia: il corrimano della ringhiera disegna una linea orizzontale lungo tutta la larghezza; al di là di essa un’altra retta parallela: l’orizzonte che separa il mare dal cielo e taglia l’immagine in due parti uguali. Sfuma in lontananza divenendo una linea eterea e impalpabile. Nella distanza tra i due orizzonti c’è tutto lo scarto tra visione e parola, tra vedere il mondo e nominarlo, tra immagine e segno verbale. La visione va oltre le parole e queste ultime non riescono a tenerle dietro, a darne conto del tutto. Eppure ciò che vediamo è anche determinato da ciò che sappiamo o crediamo, da ciò che nominiamo e mettiamo in relazione con il linguaggio. Noi non guardiamo soltanto le cose, ma inglobiamo sempre nell’oggetto dello sguardo anche il rapporto che esiste tra noi e le cose medesime. E di quel rapporto fanno parte tutti i segni che mediano e costruiscono il nostro mondo. Senza di loro non ci sarebbe un questo e un quello, un qui e un là.
Nel distacco tra quei due orizzonti paralleli, che pertanto non si incontreranno mai, c’è proprio il senso del nostro rapporto con le cose, che è sempre una sosta inquieta, mai immobile, in quel confine tra la mia esperienza del mondo e il mondo intorno a me, tra la mediazione dei segni e delle rappresentazioni che produco e mi producono come uomo e l’orizzonte irraggiungibile, sempre sfuggente, della realtà.
Con i segni e i simboli l’uomo ha sempre configurato e modificato ciò che di volta in volta definiva il suo mondo reale. Ma da sempre è stata viva la consapevolezza dello scarto esistente tra il mondo e l’immagine che ne costruiva di volta in volta; ha avvertito l’inesauribilità delle forme che la realtà può assumere negli universi linguistici e iconici elaborati nel tempo, non potendo mai fissarla in una configurazione stabile e immutabile. La parola, come la scritta ‘mare’, intrappolata nella griglia della ringhiera, imprigionata nel rigido rapporto di significante e significato, tende sì verso l'oggetto, ma non può mai afferrarlo del tutto. L'oggetto impianta sempre un oltre, come quello del mare il cui azzurro digrada in lontananza. I due orizzonti non coincidono e quello del segno è sempre arretrato. Ma quella distanza è ciò che ci fa uomini, in quanto esseri che hanno imparato sia il valore che il prezzo di quella separazione, che instaura con le cose una relazione di alterità. Come a dire che, se oltre la ringhiera riusciamo a vedere l’orizzonte del mare, vuol dire che da quel fondo laggiù il mondo può vedere noi, perché la vera visione è sempre uno sguardo di reciprocità.
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