sabato 20 ottobre 2018

L'estetica del sublime e le Rückenfiguren



Partiamo da una domanda difficile, oggetto di molte controversie.
Di cosa si occupa l’arte? Molti, ancora oggi, risponderebbero che l’arte è un’attività umana che ha a che fare con il bello. Chiaramente si tratta di una risposta alquanto vaga. Infatti l’estetica, la disciplina filosofica che studia l’arte, non si occupa solo del bello (termine già di per sé molto complesso da definire), ma anche del brutto, del comico, del grottesco, del tragico e del sublime.
Ma cos’è il bello?
Il modello dominante nel mondo greco, e che arriverà fino alle soglie dell’età moderna, è quello che considera la bellezza come armonia delle forme, misura, simmetria, equilibrio e rigorosa proporzione fra le parti di un insieme, in grado di suscitare nello spettatore un sentimento di piacere. Nella bellezza armonica, la molteplicità dei vari elementi viene ricondotta ad unità. Si tratta di un modello che, affermando la necessità di rispettare determinati princìpi aritmetici e geometrici, assume tuttavia forme e significati diversi nelle varie epoche.

Attraverso il Neoplatonismo, questa concezione passa nel Rinascimento, anche se il modello viene sottoposto a cambiamenti, perché in ogni epoca e cultura il criterio con cui si intendono l’armonia e la proporzione presenta delle specificità.
Nietzsche metterà in discussione la tesi tradizionale secondo cui il modello estetico dell’armonia e della proporzione fosse egemone nell’età classica, affermando la coesistenza in quella cultura di apollineo e dionisiaco, quest’ultimo costituito dal manifestarsi delle forze vitali, oscure ed irrazionali dell’esistenza, del caos e della dismisura (come si può vedere nel gruppo scultoreo del Laocoonte di età ellenistica, in cui viene palesemente rappresentata la sofferenza che deforma i corpi).
Tra la fine del XVIII e gli inizi del XIX secolo si verifica in Occidente un mutamento radicale dell’ordine figurativo e del paradigma estetico.
Nell’Europa del Seicento, il farsi strada della coscienza dell’infinito aveva mandato in frantumi la rappresentazione cosmica (cioè ordinata, armonica e quindi bella) della natura. Il mondo aveva cominciato ad estendersi nell’illimitato e non aveva più né circonferenza né centro, né ordine né compiutezza. L’uomo aveva perduto la sua posizione centrale, era stato privato della sua stabile dimora nel cosmo e avvertiva un senso di abbandono, di precarietà e accidentalità della propria esistenza.


Per reagire al disorientamento provato di fronte a una natura che si rivelava sempre più anomica e indifferente alle esigenze umane, la civiltà europea della metà del Settecento elabora il sentimento del sublime (secondo l’interpretazione etimologica prevalente, dal latino sublimis, composto da sub-, “sotto”, e limen, “soglia”, quindi : “ciò che è al limite”, “ciò che arriva fino alla soglia più alta”).
Se la modernità appare dapprima come un esilio cosmico dell’uomo dal centro dell’universo, una condizione in cui dominano la paura e l’angoscia dinanzi agli spettacoli in cui la natura esibisce la sua smisurata grandezza e la sua devastante potenza, pian piano il sentimento di spaesamento lascia il posto a un atteggiamento di sfida, belligerante e nello stesso tempo malinconico, nei confronti della natura. La debolezza e vulnerabilità fisica dell’uomo viene ora compensata dall’enfasi posta sulla sua superiorità morale e intellettuale.
Scrive Kant nella sua Critica del giudizio (1790):

“Sublime è il senso di sgomento che l’uomo prova di fronte alla grandezza della natura sia nell’aspetto pacifico, sia ancor più, nel momento della sua terribile rappresentazione, quando ognuno di noi sente la sua piccolezza, la sua estrema fragilità, la sua finitezza, ma, al tempo stesso, proprio perché cosciente di questo, intuisce l’infinito e si rende conto che l’anima possiede una facoltà superiore alla misura dei sensi.”


E così, dopo lo smarrimento iniziale, l’uomo comincia a misurarsi con i luoghi che l’estetica classica aveva da sempre rifuggito, luoghi inospitali, ostili e desolati che evocano la morte, umiliano con la loro vastità, minacciano con la loro potenza, ricordano ad ognuno la propria condizione precaria ed effimera. Si pone al cospetto di ciò che è indistinto e smisurato, senza forma e senza limite, si misura con l’infinito, sperimenta la solitudine assoluta, affronta i rischi delle montagne impervie, dei vasti oceani e dei mari in tempesta, delle foreste impenetrabili e dei ghiacci desolati, dei vulcani in eruzione e degli aridi deserti. E, non senza sorpresa, scopre allora che l’orrore dinanzi a ciò che è immenso e terribile possiede inattese sfumature di piacere.
Mentre l’esperienza del bello seduce e avvicina gli uomini, quella del sublime è violenta e travolgente e si consuma nella solitudine dell’individuo di fronte alle forze della natura.
Per Immanuel Kant “sono sublimi le alte querce e belle le aiuole; la notte è sublime, il giorno è bello”. Il Sublime non deriva, come il Bello, dal libero rapporto dialettico tra sensibilità e intelletto, ma dalla tensione conflittuale tra sensibilità e ragione. Si ha pertanto quel sentimento misto di sgomento e di piacere che è determinato sia dall’assolutamente grande e incommensurabile (sublime matematico), sia dallo spettacolo dei grandi sconvolgimenti e fenomeni naturali che suscitano nell'uomo un senso di fragilità e finitezza (sublime dinamico).


Questa radicale inversione del gusto dal “bello” al “sublime”, scrive Remo Bodei, non ha “una rilevanza esclusivamente estetica: implica un nuovo modo di forgiare e consolidare l’individualità grazie alla sfida lanciata alla grandezza e al predominio della natura. Da tale confronto scaturisce un inatteso piacere misto a terrore, che, in maniera ambigua, da un lato rafforza l’idea della superiorità intellettuale e morale dell’uomo sull’intero universo e, dall’altro, contribuisce a fargli scoprire la voluttà di perdersi nel tutto”.
Con l’esperienza del sublime, l’uomo sperimenta la propria piccolezza e la vulnerabilità del proprio corpo, la consapevolezza che dovrà soffrire e morire, ma la sfida ingaggiata, sebbene si concluda in un “dolce naufragio” che lo riconduce e lo dissolve nella totalità del tutto, in realtà lo fortifica e ne alimenta l’autostima. Il confronto con la natura, che lo umilia con la sua immensa grandezza o minaccia di distruggerlo con la sua smisurata potenza, non solo lo ha reso più consapevole dei propri limiti, ma anche della propria capacità di oltrepassarli. Per questo il motivo dominante della poetica romantica del sublime è una tensione costante verso l’elevazione e l’espansione dell’anima (enlargement of the soul), perché l’immaginazione produce incessantemente degli ostacoli che lo slancio interiore anela a oltrepassare.


L’artista legge e interpreta la natura nei suoi aspetti multiformi, soprattutto quelli più misteriosi e terribili, come specchio di tensioni interiori. Il paesaggio non è la rappresentazione fedele di cielo, rocce, piante e fiumi, ma è l’espressione del sentimento e delle emozioni dell’uomo che vive la vertigine del sublime. Se il bello classico rappresentava una qualità oggettiva della realtà naturale che l’arte doveva riprodurre, il sublime non appartiene alla natura, ma è uno stato d’animo esclusivo dell’uomo. Il sublime non esiste che nello guardo di chi lo riconosce. Toccando i nostri limiti intimi, esso ci sorprende, ci spaventa e ci affascina, procurandoci un piacere negativo, brutale e non comunicabile. Su questo terreno si attua il passaggio da una visione oggettiva a una visione soggettiva dell’arte e della natura.
L’esperienza estetica, a questo punto, non è altro che l’elevarsi dell’animo, attraverso il conflitto, al di sopra dei limiti del finito e il suo tendere verso l’infinito. L’arte romantica mira a questo nel rapporto con lo spettatore: provocare questo piacere negativo, il sentimento del sublime; fargli vivere un’esperienza estatica che lo porti alla fusione con l’Erdgeist, l’anima del mondo.


L’estetica romantica, inoltre, si fonda su una tensione interiore che porta l’artista a essere tutt’uno con la propria creazione. Se l’opera d’arte è espressione di un sentimento soggettivo, ne deriva che l’artista non può continuare a eseguire lavori su commissione, ma diventa libero creatore di un’opera che non risponde a nient’altro che non sia il suo genio creativo. Il genio è colui che, dotato di sensibilità non comuni, libero da regole e convenzioni, quasi ispirato da un demone interiore, riesce a creare un’opera d’arte che, nascendo dal sentimento, parlerà al sentimento, cercando di dar voce ai tumulti dell’anima.


Le figure di schiena nelle opere di Caspar David Friedrich

Il tema del sublime permea l’intera opera del pittore romantico tedesco Caspar David Friedrich. In particolare i suoi dipinti si caratterizzano per la frequente presenza di Rückenfiguren, cioè di personaggi visti di schiena.
Quale che sia la loro posizione, seduta o in piedi, in riposo o in movimento, le figure di spalle, spesso solitarie, situate sulla soglia di un vasto spazio di mare o di cielo che si estende davanti ad esse, si presentano nell’atteggiamento della contemplazione. Esse rappresentano la personificazione di quello sguardo che nello stesso tempo ci nascondono, che, mostrandosi ostinatamente di schiena, ci impediscono di vedere. Tutto il loro potere evocativo discende proprio da qui, da questi corpi privi di volto che tuttavia incarnano l’atto del guardare.


Ma qui non si realizza solo l’astrazione del volto. Anche i corpi sono privati di massa e di volume, divenendo quasi delle silhouette. Il corpo dei personaggi, orientati verso distanze indeterminate, non è altro che questo “orientarsi”, questo protendersi, che si sostituisce allo sguardo che ci è precluso, incarnandone la tensione verso l’invisibile e l’indefinibile. Perché questi personaggi sono situati per lo più su un bordo, un limite: i loro corpi sono al confine tra il mondo del visibile e quello dell’invisibile, tra materiale e immateriale, tra finito e infinito.
Noi vediamo ciò che questi personaggi contemplano: il mare o il chiaro di luna o la città lontana all’orizzonte, le montagne avvolte nella nebbia o il sole al tramonto. Ma tali elementi sono rappresentati in modo così poco realistico e così tendente all’astrazione da avere l’impressione che i paesaggi tendano quasi ad annullarsi.
I grandi temi romantici della natura e del sublime trovano fulgida espressione nel Viandante su un mare di nebbia. Il dipinto rappresenta un uomo di spalle, vestito in abiti borghesi che, in piedi sopra uno spuntone roccioso, contempla solitario lo straordinario spettacolo di un paesaggio alpino immerso nella nebbia. Il panorama ha qualcosa di così primordiale che sembra di ammirare la Terra subito dopo la Creazione e, benché aspro e inospitale, è talmente vasto da incutere un senso di vertigine e di sospensione.


Come la maggior parte dei personaggi di Friedrich, il protagonista è girato di spalle, con lo sguardo rivolto verso il paesaggio. In eroica solitudine, si erge la sua figura tragica di fronte all’incommensurabile potenza della natura.
La scena, di fortissimo impatto emotivo, si compone di un primo piano in controluce (l’uomo e le rocce), che si staglia contro uno sfondo montuoso, esteso quanto l’orizzonte. Il sublime, ossia il senso della natura possente e smisurata, trova in questo dipinto una delle sue massime espressioni. Il viaggiatore (tema romantico per eccellenza) osserva il mare di nuvole, da cui affiorano, come scogli, le cime montane. La sensazione che ci colpisce è quella dell’infinita grandezza della natura, al cui cospetto l’uomo altro non è che un temporaneo e precario viandante, che sosta sull’orlo dell’abisso. Un abisso che tuttavia non vediamo, occultato dalle nuvole che creano un mare soffice e misterioso.
Se Friedrich non ha inventato il motivo della Rückenfigur, usato dall’arte antica e barocca per dirigere lo sguardo dello spettatore verso il fondo del quadro, egli l’ha sicuramente reinventato, conferendogli rilievo e forza incomparabili. Una figura di spalle non dialoga con lo spettatore, ma lo invita a immedesimarsi in lui, a condividere il suo punto di vista e a compenetrarsi con il suo stato d’animo.


E tuttavia, queste figure sembrano nello stesso tempo interporre uno schermo supplementare tra la natura e l’immagine, come un sipario teatrale. Dove esse sono, infatti, di grandi dimensioni, occupanti il primo piano, come in Viandante sul mare di nebbia o in Donna alla finestra, da un lato esaltano l’atto della contemplazione, dall’altro lo contrastano, ostacolando la visione. Ma proprio ciò instaura una forma di riflessività che fa oscillare la fruizione tra due diverse contemplazioni, quella esteriore e quella interiore, tra ciò che si vede e ciò che si desidera vedere ma resta celato.
I dipinti di Friedrich modificano radicalmente il rapporto tra quadro e osservatore. Egli rifiuta il dispositivo della prospettiva centrale e monofocale. La costruzione per piani intorno a un asse prospettico costringono l’occhio a muoversi dal punto più vicino a quello più lontano, seguendo una direzione che va in profondità; nei suoi paesaggi, invece, Friedrich elimina ogni elemento di contorno, ponendo direttamente il personaggio davanti alla sconfinata immensità della natura. I suoi paesaggi non prevedono una costruzione unitaria, penetrabile dall’osservatore, che può spingersi dentro fino a un punto di fuga. Alla prospettiva che scava lo spazio, permettendo alla visione di scansionare i diversi piani, Friedrich sostituisce la prossimità dello sguardo all’oggetto, e questo tramite la mediazione delle figure di schiena, vicari di noi spettatori, che ci permettono di essere dentro gli elementi e di avere di loro un’esperienza diretta.


Collocando lo spettatore dietro il viaggiatore che contempla la montagna, il pittore fa coincidere l'asse visivo dell’osservatore con quello del personaggio: in altre parole, il dipinto non è più una sorta di esperienza vis-à-vis tra l’immagine e lo spettatore, ma una sorta di finestra sull'infinità della natura. Se la prospettiva struttura una visione oggettiva, che penetra all’interno dello spazio rappresentato, i paesaggi di Friedrich favoriscono una visione soggettiva, interiore: è l’esperienza spirituale dell’infinito.
La posizione di schiena delle figure, assorbite nella contemplazione, impedisce il muto dialogo personaggio-osservatore, obbligando piuttosto quest’ultimo a immedesimarsi con il primo e a condividerne il monologo, provando le stesse emozioni di malinconia e solitudine. Tornando brevemente al concetto di assorbimento, che caratterizza quei dipinti in cui i personaggi sono assorbiti in se stessi o nella propria attività ed ignorano del tutto lo spettatore, si può affermare che la Rückenfigur rappresenta quasi l’estrema frontiera di questo modo di darsi del personaggio e, perciò, anche della possibilità di identificazione in esso da parte dello spettatore. Venendo meno ogni reciprocità, anche potenziale, tra l’opera e l’osservatore, può operarsi la completa compenetrazione di quest’ultimo con i personaggi raffigurati.


Nei paesaggi tradizionali, oltre al susseguirsi di vari piani, è raro che non compaiano elementi di continuità spaziale e prospettica come strade, sentieri, fiumi, coste, che organizzano uno spazio finito e ordinato, che la percezione riesce a dominare. Difficile trovare nei dipinti di Friedrich una strada, un sentiero, un fiume che indirizzi lo sguardo verso una direzione prospetticamente orientata. Nei suoi paesaggi non ci sono spazi di transizione: la composizione si struttura di solito per fasce orizzontali senza profondità. Al primo piano succede immediatamente lo sfondo, che così appare talmente lontano da sembrare irraggiungibile e infinito. Di qui, l’estraniamento della visione, che si perde in lontananze che non riesce ad afferrare né tanto meno a dominare. Più comune la presenza, nelle opere di Friedrich, di finestre e aperture, che schiudono la visione di un mondo altro, che si lascia solo intravedere.
Tramite le figure di schiena lo spettatore supera la cornice ed entra dentro lo spazio figurato. La sua fruizione dell’opera si trasforma in esperienza diretta non dell’immagine, ma dell’infinità della natura. L’artista riesce a trasformare lo sguardo dello spettatore che si posa sul quadro in uno sguardo introspettivo, in una visione interiore, convertendo la fruizione di un’opera d’arte in un’intensa esperienza dello spirito. Lo spettatore è chiamato a compiere lo stesso cammino spirituale dell’artista, cioè a rivivere l’esperienza estatica di fusione con il mistero della natura.


L’intellegibilità del simbolismo dell’opera di Friedrich dipende dal lavoro interpretativo dello spettatore. Il significato di un dipinto non è interamente deciso a priori dal pittore. Perché esso si sveli, occorre che colui che guarda ne cerchi il segreto, a partire dalla propria sensibilità, conoscenza e immaginazione. Questo comporta un ruolo più attivo dello spettatore (che sarà il tratto caratteristico dello spettatore moderno, secondo C. Ruby): il senso dell’opera non è completamente racchiuso in essa, ma il significato è demandato a un’interpretazione, imputabile a colui che la guarda.


The New Painting di Elina Brotherus

Ai dipinti di Caspar David Friedrich si ispirano molte fotografie dell’artista finlandese Elina Brotherus, contenute nella serie The New Painting (2000-2004).
Le sue opere, in genere, consistono in autoritratti e paesaggi, nei quali esegue delle esplorazioni autobiografiche, attraverso motivi legati alla sua vita personale e ai problemi dell’autorappresentazione. La serie The New Painting mostra tuttavia un’evoluzione verso un nuovo obiettivo di ricerca: l'artista rinuncia completamente alla narrazione personale e sceglie di affrontare le questioni puramente visive e formali delle immagini fotografiche.

Der Wandereer 2

Brotherus mette ancora in scena se stessa, ma l’oggetto dell’espressione artistica non è più la propria esperienza esistenziale: si considera nient’altro che un modello, una figura che si trova in un dato spazio e che è oggetto di ricerca formale. Ciò che conta non è la rappresentazione del mondo interiore del modello, ma qualcosa di più generale, più universale: la figura umana dentro il paesaggio, inteso come "oggetto" nello spazio che riflette e assorbe la luce. E porta avanti questa indagine attraverso la mediazione dei classici della pittura, perché, come reclama il titolo della serie (ed è l’affermazione da cui prende le mosse l’artista), la fotografia rappresenta la nuova pittura. E’ questo rapporto con la pittura a determinare i temi iconografici di The New Painting. In alcune di queste fotografie emerge netto il richiamo a Friedrich, più sfumato quello alle opere di Cézanne, Lorrain, Bonnard o Degas. E proprio tali rimandi producono una sensazione di familiarità, di déjà vu.

Der Wanderer 3

Nel corso della sua storia, la fotografia ha imbastito spesso dei legami con la pittura: o per imitarla, e in questo modo guadagnare la stessa dignità artistica, o per condividere con lei la stessa indagine estetica. A quest’ultimo ambito appartengono artisti come Elina Brotherus ed altri autori contemporanei, come Jeff Wall, che concepiscono la fotografia come prolungamento della ricerca pittorica, cioè in termini di rappresentazione, la cui preoccupazione fondamentale, pertanto, consiste nell’interrogarsi sui medesimi temi e problematiche che hanno da sempre impegnato la pittura.
Brotherus, in questa serie, affronta nel campo della fotografia i problemi di composizione, luce, plasticità, integrazione della figura nel paesaggio e organizzazione dello spazio, cioè quei temi di ricerca cari alla tradizione pittorica e che hanno a che fare con l’aspetto essenzialmente visivo dell’immagine.

Der Wanderer 

Lavorando sul personaggio e sulla sua collocazione nello spazio, l’artista ha modo di esplorare le questioni relative alla composizione e alla rappresentazione. Trattando il soggetto soprattutto dal punto di vista plastico, nei rapporti di luce e colore, e di relazione spaziale, la Brotherus lo priva del suo potenziale narrativo o autobiografico. Il gruppo di fotografie ispirate ai dipinti di Friedrich, in particolare, mostra un personaggio di schiena in contemplazione. In questi casi, essendo la figura voltata di spalle, noi spettatori non possiamo riconoscerla né inferire nulla dall’espressione del suo viso. Se a partire dal Rinascimento il volto viene considerato specchio dell’anima, in grado di rivelare uno stato interiore, nel caso delle Rückenfiguren presenti nelle fotografie della Brotherus, questa porta privilegiata all’identità ci viene totalmente negata. Le immagini, pertanto, sono prive di efficacia documentale o narrativa.
Che cosa interessa ad Elina Brotherus dei dipinti di Friedrich? In particolar modo la collocazione del personaggio nel paesaggio e il rapporto dell’opera con lo spettatore. La sua riflessione si volge verso le relazioni formali tra i diversi elementi della composizione, e in particolare tra la figura e il contesto naturale. La figura, liberata della propria facoltà narrativa, funziona come uno strumento di indagine visuale, cioè come iconografia. Non sappiamo nulla di questa donna che si offre ai nostri occhi di schiena. Benché si tratti di una fotografia, questa non ci dice nulla di lei. Si potrebbe quasi credere di essere di fronte a un dipinto, ma la leggera sfocatura sul lato destro del mantello in Der Wanderer 2, ad esempio, ci rivela in modo chiaro che si tratta di una fotografia.

Der Wanderer 4

Elina Brotherus è consapevole del divario tra fotografia e pittura. La fotografia, a differenza della pittura, ha un legame diretto con la realtà e, pertanto, tende ad essere interpretata come un documento, riferibile a un ben preciso referente e in un modo che relativizza o addirittura cancella la mediazione soggettiva dello sguardo dell'autore. Trattando dei temi iconografici propri della storia della pittura, l’artista intende richiamare l’attenzione sulle qualità formali e stilistiche, non documentali, della fotografia. Lei auspica che di fronte a un’immagine fotografica ci si interroghi non in merito a cosa o a chi stiamo guardando, ma alle scelte visive dell’artista, alla struttura dell'immagine, alla composizione degli elementi, al trattamento di luce e colori, al rapporto che stabiliscono con lo spettatore. In particolare a quest’ultimo tema.
La figura vista di schiena ha nel dipinto la funzione di delegato privilegiato dello spettatore. Tuttavia agisce in due direzioni esattamente opposte: in una, proietta l'osservatore nell'immagine e lo colloca al proprio posto; nell'altra, lo separa irrimediabilmente dal paesaggio dal momento che il punto di vista dello spettatore è già occupato. Le opere di Friedrich, perciò, permettono di riproporre una questione estetica molto attuale: quella del luogo dello spettatore, un tema che l'artista svilupperà anche nelle serie successive.

Der Wanderer 5

La presenza di tali figure in questi paesaggi risulterebbe stridente all’interno di fotografie, se concepite come documenti. Solo il loro richiamo a un’iconografia consolidata di tipo pittorico ce la rende plausibile. L’uso insieme di linguaggio fotografico e iconografia pittorica permette di mettere in corto circuito l'immediatezza tradizionale che caratterizza la percezione di una fotografia, intesa come “ritaglio di realtà”, una concezione a cui questo medium è stato confinato per molto tempo. Proprio la commistione dei due linguaggi permette una riconfigurazione della percezione dell’immagine fotografica, permettendoci di vederla come un’immagine costruita e non, come generalmente il senso comune attribuisce alla fotografia, come un’immagine naturale.


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