Fra Cinquecento e Seicento la follia è protagonista del pensiero visivo, della riflessione filosofica e della letteratura (si pensi ad autori come Ariosto, Tasso, Cervantes, Shakespeare).
Nell'Orlando furioso troviamo la stessa prospettiva erasmiana: partito alla ricerca del senno di Orlando, Astolfo si imbatte sulla luna nel senno di tutta l’umanità.
Il grande antagonista della ragione e vera causa di follia, per Ariosto, è l’amore. Nell’esordio del canto XXIV Ariosto stabilisce un’equivalenza tra amore e insania:
“quale è di pazzia segno più espresso / che per altri voler perder se stesso?».
Il tema della follia fa sia da sfondo all'intero poema che da vero e proprio protagonista. La vicenda principale, infatti, ruota intorno alla pazzia di Orlando, paladino di Francia e prode cavaliere, innamorato perdutamente della bella Angelica. Quando scopre che la fanciulla tanto amata ha sposato Medoro, umile soldato saraceno, Orlando perde il senno. La follia è descritta come pura irrazionalità e, di più, come cancellazione dei tratti umani: Orlando non perde solo il senno ma perde tutto se stesso. Perciò getta via la corazza (la sua identità sociale), dimentica l’uso della parola, non riconosce più nessuno, distrugge tutto quanto gli capiti a tiro.
Sarà compito di Astolfo restituire il senno ad Orlando. Per far ciò salirà in groppa all'ippogrifo e volerà sulla luna, dove si raduna il senno perduto dagli uomini sulla terra. E qui l'eroe scopre una montagna immensa, formata da tutti i senni perduti. Dalla vicenda del paladino, lo sguardo di Ariosto si allarga all’umanità intera. Se la ragione degli uomini si conserva sulla luna, vuol dire che sulla Terra non è rimasta che pazzia.
La follia di Orlando, Illustrazione di Gustave Doré. |
L’episodio della luna racchiude in sé in forma sintetica il senso generale del poema: la follia diffusa degli uomini, il loro protendersi inconcludente ad inseguire desideri vani, che non possono essere mai raggiunti, o per impotenza ed errore umano, o per colpa del tempo che tutto consuma, o della Fortuna capricciosa.
Eppure, la follia non ha per Ariosto natura tragica: è oggetto di ironia e di autoironia, giacché il poeta stesso confessa che il suo ingegno è roso dall’amore. La ragione, in realtà, ne trionfa dominandola, esorcizzandola e mostrando il suo superiore distacco da essa. Scherzare sulla follia e riconoscerla ovunque vuol dire smorzarla, accettarla, considerarla una parte ineliminabile della vita e, dunque della ragione stessa. Follia e ragione, anche in Ariosto come in Erasmo, entrano in una relazione irreversibile dove ciascuna è misura dell’altra. Si è visto come in passato la follia avesse una qualità sacrale, legata all'intervento di forze sovrannaturali o divine. Alle soglie della modernità, invece, essa viene a porsi in un rapporto sempre più stretto con la ragione, di cui diventa speculare, fino a coincidere in seguito (soprattutto a partire da Cartesio) con l'anti-ragione, con la suprema manifestazione di irrazionalità.
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