domenica 24 aprile 2016

L'uomo e la natura - Amor sacro e Amor profano

Tiziano Vecellio, Amor sacro e amor profano, 1515 ca., Galleria Borghese.

Pur essendo universalmente conosciuto con il titolo di “Amor sacro e Amor profano” (apparso in un inventario della Galleria Borghese solo nel 1693), questo capolavoro giovanile del Tiziano, uno dei gioielli della Galleria Borghese, resta tutt'oggi controverso in quanto al significato del soggetto raffigurato, data la molteplicità delle possibili interpretazioni simboliche dei numerosi elementi presenti sulla scena. E’ altresì vero che esso è suscettibile di più livelli di lettura, i quali non si escludono ma si completano a vicenda.
Il titolo conferitogli alla fine del XVII secolo mise in campo un dualismo compositivo delle due figure femminili, che ha poi ispirato tutto un filone di lettura dell'opera con la contrapposizione di due concetti morali, in relazione all'Amore, simboleggiato da Cupido.
Il quadro raffigura un sarcofago in marmo adibito a fontana, decorato da bassorilievi di ispirazione classica (a sinistra è scolpita la scena del ratto di Proserpina, a destra quella in cui Venere soccorre Adone aggredito da Marte), nelle cui acque un amorino alato (forse lo stesso Cupido) immerge le mani. Su di esso sono sedute due donne molto somiglianti tra loro e dalle forme chiare e morbide: quella a sinistra è vestita con un sontuoso costume veneziano del XVI secolo mentre quella a destra, seminuda, regge un piccolo vaso fumante. La scena è ambientata in un vasto paesaggio aperto, che fa da armonioso contrappunto alla scena in primo piano. A sinistra è montuoso, scosceso e dominato da una costruzione fortificata; a destra è pianeggiante e bucolico, con scene di caccia, pastori e greggi al pascolo, ed un lontano villaggio con campanile sulle rive di un lago.

Ma a dominare il quadro sono le due donne in primo piano. Chi rappresentano? Che rapporto c’è tra di loro? Non staremo a riepilogare le numerose interpretazioni date a questi due personaggi e al significato complessivo dell’opera, che da sempre hanno attinto alla letteratura, al mito, all’allegoria e alla filosofia. Le varie letture iconologiche hanno fatto riferimento all’Hypnerotomachia Poliphili di Francesco Colonna, al Neoplatonismo di Ficino e Bembo o di Pico della Mirandola, alla mitologia classica. Qualsiasi lettura si voglia privilegiare, resta il fatto che questo è un quadro sul tema dell’amore, trattato come “contrasto” e “conciliazione” tra due personificazioni dell’amore stesso e che è evidente altresì il rapporto tra la vita e la morte (il sarcofago che diventa fontana). E’ questa relazione di opposizione-pacificazione la chiave di lettura dell’opera e su di essa si baseranno sia la ricerca iconografica sia quella che Augusto Gentili definisce “iconologia contestuale” (che ai tradizionali riferimenti letterari e della tradizione figurativa associa quelli costituiti dagli accadimenti storici, sia pubblici che privati) del quadro.
Partendo dal titolo, ci verrebbe subito spontaneo vedere nella donna vestita il simbolo dell’amore sacro, cioè puro e virtuoso, e in quella nuda quello dell’amore profano, sensuale e voluttuoso. Ma questi sono schematismi che appartengono morale posteriore alla Controriforma, non a quella dell’epoca. Per capire il rapporto tra queste due figure, dobbiamo partire dai dati visibili: abbigliamento, colori, posizione e gestualità, oggetti che le connotano.
Innanzitutto nell’antichità la nudità era considerata simbolo di purezza, di virtù, di assenza di finzioni, perché la verità è nuda e non ha bisogno di artifici così come la vera bellezza non richiede ornamenti. E’ lei, la donna di destra, il simbolo dell’amor sacro, il cui mantello rosso, che ondeggia al vento, evidenzia la natura spirituale e superiore della figura stessa in quanto il rosso, colore primario, indica l’amore ardente di natura divina.


Il pube è velato da un altro panno sottile di colore bianco, che non inficia la purezza del nudo ma esclude il sesso e l’erotismo dalla scena. Nell’interpretazione che attinge alla filosofia neoplatonica, questa figura è di solito spiegata come Venere Celeste, cioè immagine della bellezza ideale e spirituale, principio metafisico dell’amore eterno (la fiamma che arde nel piccolo braciere che solleva in alto). La donna a sinistra, invece, vestita in abiti sontuosi, rappresenterebbe la Venere terrena, principio della natura generatrice, mentre Cupido, al centro delle due, sarebbe il punto di mediazione tra aspirazioni spirituali e mondane, tra amore divino e amore terreno che, lungi dall’essere in contrapposizione tra di loro, rappresentano uno lo specchio dell’altro e insieme i due gradi dell'amore verso la perfezione.
Questa Venere mondana indossa un ricco abito nuziale di colore bianco con un sopramanica rosso (i colori sono gli stessi dell’amore celeste, ma la loro presenza è specularmente inversa), stretto da una cintura, e reca nei lunghi capelli biondi una coroncina di mirto, pianta sacra a Venere e simbolo dell'amore coniugale. Alla condizione di sposa alludono anche il mazzetto di rose nella mano destra e i guanti.


In passato questa figura veniva identificata con l’amore pudico oppure, di contro, con quello cortigiano e carnale. Tenendo presente tutti gli elementi che la accompagnano, oggi si riconosce quasi unanimemente in essa il simbolo dell’amore terreno, nella forma universalmente accettata del matrimonio. Ciò sarebbe confermato dal colore dell’abito e dagli altri accessori: i guanti, la cintura con la fibbia, lo scrigno, il mirto e le rose. Al tema coniugale rimanderebbe anche la coppia di conigli presente alla spalle della donna, augurio di fertilità. Forse che Tiziano volesse incarnare due aspetti del matrimonio, quello mondano e quello spirituale, perché non c'è vero amore coniugale che non sappia trascendere la mondanità e la bellezza terrena per pervenire a una sfera di sacralità? Anche questa è una lettura possibile.
Un altro elemento degno di attenta osservazione è la posizione delle due donne. Quella a destra si poggia appena sull’orlo della fontana, e sembra sul punto di alzarsi; si mostra a noi in piena luce, slanciata, disinvolta e lieve, mentre eleva in alto il braccio che tiene il vasetto fumante e rivolge lo sguardo intenso verso la compagna. Quest’ultima, al contrario, ci appare in penombra su uno sfondo cupo, più pesante, come bloccata nell’azione, evidenziando la sua stabile materialità che contrasta l’aerea spiritualità dell’altra. Il suo braccio destro è posato in grembo mentre il sinistro, che tiene a sé gelosamente uno scrigno chiuso, indica una rosa recisa, richiamo alla bellezza terrena, visibile ma effimera. Il suo sguardo è incerto e assorto. Nonostante siano una nuda e l’altra vestita, la prima ci appare molto più serena e sicura di sé, mentre l’altra tradisce una certa ingenuità e una lieve inquietudine.
Tutti i riferimenti presenti al matrimonio e l’identificazione del committente e delle circostanze che portarono alla creazione del dipinto fanno sì che oggi l’interpretazione più comunemente accettata sia quella che identifica il quadro come un dono di nozze. Sul sarcofago, infatti, è dipinto lo stemma della famiglia Aurelio, mentre nel bacile poggiato sul bordo della fontana (e che costituisce il centro dell’opera) pare intravedersi lo stemma della famiglia Bagarotto. Così il quadro è stato collegato al matrimonio celebrato nel maggio del 1514 tra Niccolò Aurelio e Laura Bagarotto. Si trattava di nozze molto speciali, che grande clamore suscitarono nella Venezia del tempo.


L’Aurelio era un eminente uomo politico della città mentre la sposa era figlia di Bertuccio Bagarotto, autorevole giurista padovano condannato come traditore dal Consiglio dei Dieci nel 1509, quando ne era segretario lo stesso Niccolò (l’accusa di tradimento era motivata dal fatto che Bertuccio aveva collaborato con il nemico quando Padova era stata occupata dalle truppe dell’Imperatore, in guerra contro Venezia. Quando quest’ultima aveva riconquistato Padova, il doge Andrea Gritti aveva fatto arrestare Bagarotto, che venne impiccato nel 1511).
Pare dunque che il matrimonio fosse stato in un certo senso "riparatore", in quanto, appurata la falsità dell'accusa, Venezia voleva riconciliarsi con Padova. “Non è difficile – scrive Augusto Gentili – immaginare che per sanare questo contrasto, per trasformare una memoria di morte in promessa di vita, per conciliare la sposa allo sposo, ci vollero insistenze personali e diplomazie famigliari: il quadro ci dice soltanto che ci vollero la mediazione di Amore e la persuasione di Venere”. Ecco il significato dell’allegoria: Amore, rappresentato dal piccolo Cupido, e la nuda Venere devono convincere la sposa, ravvisabile nella donna in abito sontuoso, all’evento imminente.
Questo non significa che la donna vestita sia da identificare con Laura Bagarotto, in quanto la realtà e l’allegoria sono due livelli paralleli, ma non sovrapposti. Significa, piuttosto, che la figura da sempre identificata con l’amor profano, la Venere mondana contrapposta a quella spirituale, è la personificazione allegorica in grado di rappresentare Laura come sposa, così come Venere è la personificazione allegorica della persuasione, mentre Cupido, che rimesta le acque della fontana, rappresenta la conciliazione, cioè la trasformazione della morte in vita (il sarcofago con le scene di violenza in fontana dell’amore con gli stemmi degli sposi), del lutto e del dolore, attraverso il matrimonio, in speranza di nuova felicità e nuova vita.
Questa interpretazione del Gentili è una delle tante date all'opera negli ultimi decenni. La complessità del dipinto forse non porterà mai a una lettura univoca e universalmente accettata, ma probabilmente ogni ipotesi adeguata non potrà mai privilegiare una sola chiave interpretativa, tralasciando le altre. L'opera va letta su più livelli, contemperando il sostrato filosofico e letterario con il riferimento alle circostanze delle origini e della finalità dell'opera.


E’ sublime come Tiziano sia riuscito a orchestrare così felicemente la filosofia neoplatonica con il tema del matrimonio e ancora con le esigenze diplomatiche della committenza, realizzando un così complesso gioco di rimandi allusivi e nel contempo un poema visivo sulla bellezza della natura.
Come il primo piano, anche lo sfondo, diviso in due da una folta vegetazione dietro l’amorino, è formato da due paesaggi complementari. Da una parte un castello arroccato in cima a un paesaggio montuoso, dall’altra un campanile che si eleva da un villaggio in riva a un lago. Dietro la sposa il paesaggio è dunque impervio, con un sentiero in salita percorso da un cavaliere diretto al castello, forse allusione al carattere “secolare” e “civile” dell’amore mondano. A destra è pianeggiante e disteso, con una natura bucolica e ideale e una chiesa in lontananza, forse allusione al carattere spirituale dell’amor sacro. Secondo la studiosa Maria Luisa Ricciardi, invece, che rifiuta ogni lettura umanistica e neoplatonica e identifica nella figura vestita il ritratto di Laura Bagarotto, il paesaggio alle sue spalle non è altro che il richiamo alla città di Padova e quello dietro Venere rappresenta Venezia, mentre sul sarcofago compare la vicenda che ha coinvolto la famiglia, con Venezia, attaccata e tradita da Padova, e la punizione di Bertuccio Bagarotto, traditore della Serenissima.
Comunque lo si voglia interpretare, questo paesaggio, per quanto reso in modo naturalistico e palpitante, è ancora moralisticamente caratterizzato. E tuttavia, una rivoluzione sta avvenendo nella pittura di quegli anni. Una novità messa in luce da una mostra tenutasi al Palazzo Reale di Milano nel 2012, dal titolo “Tiziano e la nascita del paesaggio moderno”, una raccolta di opere del periodo alla scoperta della nascita del paesaggio moderno nella pittura del cinquecento. Il percorso illustrava come il ciclo inaugurato da Giovanni Bellini e da Giorgione fosse stato pienamente sviluppato da Tiziano lasciando ai posteri la magnifica eredità dell'invenzione del paesaggio. Seguendo la lezione dei maestri, infatti, Tiziano ha avuto il merito di elaborare una nuova idea dell’ambiente naturale, di portare la natura e il paesaggio più in generale sullo stesso piano dei soggetti per la maggior parte "sacri", tanto da arrivare a definire nella lingua italiana il termine stesso di “paesaggio” nella sua accezione moderna. La parola “paesaggio” compare infatti per la prima volta nel 1552, in una celebre lettera dello stesso Tiziano all’imperatore Filippo II, dando prova della consapevolezza di una novità piena e clamorosa.


Stefano Boeri spiegava così l’importante novità iconografica:  "Ciò che si verificò in quegli anni, fu una vera rivoluzione poetica: dalla enunciazione di "paese", talvolta espresso come "sfondo" non invasivo della raffigurazione, talvolta come racconto di spaccati di vita contadina in una natura ospitale, si passò a una diversa dichiarazione e quindi a una differente valenza. Il paesaggio si trasforma, perde attinenza con la realtà, si idealizza. Diventa espressione, colore, poesia. Panorami inventati, fenomeni atmosferici impetuosi, vegetazioni spesso improbabili, tramonti fiammeggianti, notturni siderali, accompagnano le scene, finalmente, nel ruolo dell'attore e non della comparsa. Questa è l'invenzione, la moderna poetica del paesaggio".

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