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sabato 25 aprile 2020

CINDY SHERMAN, FRANCESCA WOODMAN E LE ALTRE. L'AUTORAPPRESENTAZIONE DELLA DONNA IN FOTOGRAFIA

Wanda Wulz, Io + gatto, sovrimpressione del volto di Wanda Wulz con l'immagine del proprio gatto. Trieste, 1932.

CINDY SHERMAN, FRANCESCA WOODMAN E LE ALTRE.
L'AUTORAPPRESENTAZIONE DELLA DONNA IN FOTOGRAFIA 

VI. AUTORIFLESSIONE
- Petra Collins e il selfie


Introduzione

Nel corso della storia, l'auto-rappresentazione in immagine - nella forma dell'autoritratto - ha rappresentato per molti gruppi marginali un passaggio alla visibilità e una tappa fondamentale nel processo di costruzione di una propria identità sociale. Uno di questi gruppi è costituito dal genere femminile.
Questo ipertesto prende in esame quelle artiste fotografe che hanno contribuito a modificare e a riplasmare la rappresentazione della donna e, in quest’opera, hanno rivolto l’obiettivo su se stesse, utilizzando soprattutto la forma dell’autoritratto e della messinscena del proprio sé.
Per secoli l'immagine della donna ha subito la definizione e i condizionamenti della cultura patriarcale e dello sguardo maschile. Si trattava, prima di tutto, di emancipare quella immagine dalla pesante sovrastruttura iconografica ereditata dalla tradizione.

Queste artiste portano l'autoritratto ben oltre la sua definizione classica, facendone uno strumento non solo di indagine della propria identità, ma anche di libertà sperimentale, di riflessione e di verifica delle possibilità del mezzo fotografico e delle sue potenzialità linguistico-espressive.
Osservando gli autoritratti delle artiste nel corso dei secoli, da quello della leggendaria pittrice Marcia (1402), passando per le autorappresentazioni di Artemisia Gentileschi, Sofonisba Anguissola (1532-1625), Rosalba Carriera (1675-1757), Lavinia Fontana (1552-1614), Elisabetta Sirani fino a quelle di Adélaïde Labille-Guiard e Berthe Morisot, ci si rende conto di trovarsi di fronte, prima di tutto, a delle dichiarazioni di identità professionale.

Artemisia Gentileschi, Autoritratto come allegoria della pittura, ca. 1639

Se in passato l’autoritratto dell’artista esprimeva una richiesta di riconoscimento sociale e di visibilità per il proprio ruolo, nel corso del Novecento l’autorappresentazione attinge una maggiore profondità e complessità, spaziando verso temi ulteriori, come possono testimoniare le produzioni di artiste quali Frida Kalho e Tamara de Lempicka. L’autoritratto diventa anche racconto, riflessione e narrazione, fino a farsi scandalo e provocatoria rottura di tabù iconografici, che infrangono lo stereotipo della passività e trasformano il corpo femminile, da oggetto inerte dello sguardo maschile, a oggetto della propria e consapevole creatività.

Sofonisba Anguissola, Autoritratto al cavalletto che dipinge un pannello devozionale, 1556

Prima di proseguire, è illuminante riportare un brano, scritto dal giornalista e saggista Stefano Casi, sul suo blog, che ben introduce questa ricerca:
L’autoritratto è un mascheramento, non un disvelamento. [...] Se il ritratto rappresenta un processo di avvicinamento dell’artista al suo oggetto, all’altro da sé, il tentativo di cogliere la superficie e la profondità della persona, l’autoritratto – apparentemente così simile – nasconde un processo diverso: la costruzione di una superficie altra, l’immaginazione di una profondità possibile. In altre parole, l’autoritratto rivela un gesto performativo in cui l’artista si è messo in scena, impersonando un altro sé stesso, un alias, in un’azione di depistaggio. E tuttavia l’autoritratto non è realmente una messa in scena, ma semmai il residuo della messa in scena, quando tutto è già avvenuto e tocca all’osservatore ricostruire la presunta azione precedente attraverso la traccia di un’immagine: ricostruire la simulazione in base a una sfumatura di luce e colore, con la consapevolezza di non poter raggiungere la sua autenticità. (https://casicritici.com/2020/02/22/autoritratta/)

Adélaïde Labille-Guiard, Autoritratto con due allievi, 1785.

Inoltre, la modalità con cui è realizzata la maggior parte degli autoritratti fotografici che andremo ad analizzare, e cioè l'autoscatto, ci consente ulteriori considerazioni. In questa pratica, chi realizza l'immagine è contemporaneamente soggetto e oggetto della rappresentazione, autore e modello. Se da una parte, pertanto, si ha la sensazione di dominare il processo di produzione, dall’altra, l'artista di fronte all'obiettivo, vive anche una condizione di cecità. Il predatore si trasforma in preda, oppure ciò che accade è che l'atto fotografico acquista una componente performativa. 

Donne e fotografia

Oggetto di questo studio è l'autorappresentazione delle donne in fotografia. Essendo escluse dalle Accademie fino all'inizio del Novecento (potevano entrarci solo come modelle), era quasi naturale che le donne adottassero il mezzo fotografico come strumento di esercizio di una certa libertà di espressione, di esplorazione della propria identità, di acquisizione di un nuovo ruolo sociale e politico, insomma come strumento fondamentale nelle strategie di autoconfigurazione e di emancipazione.
Lungo il percorso vedremo, tuttavia, come le autorappresentazioni delle artiste in fotografia saranno soprattutto delle messe in scena che poco hanno a che fare con la forma e la finalità dell'autoritratto. Soprattutto a partire dagli anni Settanta, la fotografia, compresa quella in cui l'autore rivolge l'obiettivo  su se stesso e fa del proprio corpo il soggetto privilegiato della propria produzione, è una fotografia che vuole essere e presentarsi non  tanto come testimonianza quanto piuttosto come costruzione, come artificio che si fa strumento di trasgressione, di svelamento degli stereotipi, ibridando generi e forme. L'autorappresentazione femminile di cui saranno protagoniste molte artiste fotografe non è e non vuole essere la presentazione di un'identità precostituita, ma una maniera per costruire una qualche identità come metamorfosi, un processo in fieri per darle espressione oppure un modo per decostruire schemi percettivi e cliché rappresentativi e di abbattere barriere ideologiche o ancora per riflettere sulla stessa natura delle immagini e della fotografia.
L'autorappresentazione diventa allora un modo per la donna di non mostrarsi più come oggetto, ma per acquisire lo status di soggetto. Un soggetto che rivendica non solo il possesso del proprio corpo, sottraendolo all'arbitrio dello sguardo maschile, ma anche la possibilità di plasmarlo, di concettualizzarlo e di semantizzarlo, di farne la base per la costruzione di nuovi immaginari e di nuove identità. 

Frida Kahlo, Arbol de la Esperanza (Albero della speranza) , 1946


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