Johann Heinrich Füssli – Signora alla finestra al chiaro di luna, 1800-1810, Frankfurt a.M., Goethe-Museum.
Johann Heinrich Füssli fu un letterato e pittore svizzero, ma naturalizzato inglese. Fu precursore del Romanticismo, che prese l'avvio in Germania alla fine del XVIII secolo, sulla scia dello Sturm und Drang, il movimento letterario di Goethe e Schiller, attivo fra il 1765 e il 1785, sorto in opposizione al razionalismo illuministico allora imperante. Come i Neoclassici egli studia e ammira l'arte greca e romana, ma non per i suoi caratteri di equilibrata armonia, semmai per gli aspetti di eroismo drammatico e sovrumano. Nella sua opera l’estetica del sublime trova una delle sue più intense espressioni, e ad essa si rifaranno i maggiori pittori del Romanticismo.
L'idea di "sublime" aveva conosciuto la sua prima definizione teorica nel saggio del 1756 di E. Burke, "Inchiesta sul Bello e il Sublime", in cui l'autore considerava il bello e il sublime tra loro opposti. Il sublime non nasce dal piacere della misura, dell'ordine e della forma bella dell'oggetto, ma ha la sua origine nei sentimenti di terrore, di sgomento, di smarrimento suscitati dalla dismisura, da “tutto ciò che è terribile o riguarda cose terribili” (per es. il vuoto, l’oscurità, la solitudine, il silenzio, l'infinito ecc.).
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mercoledì 27 luglio 2016
Porte e finestre - Donne alla finestra. Gli spazi del desiderio sessuale nel Rinascimento
Bartolomé Esteban Murillo, Galiziane alla finestra (o Las Gallegas), 1655-60, National Gallery di Washington.
Bartolomé Esteban Pérez Murillo, tra le più importanti figure del barocco spagnolo, ebbe successo in vita per le sue opere di argomento religioso, ma è nei suoi dipinti di scene popolaresche, raffiguranti ragazze e monelli di strada, che mette in luce gli aspetti più personali e geniali del suo linguaggio. In queste sue tele, il mondo picaresco del Seicento spagnolo si rivela in colori e luci del tutto moderni. Murillo subì molti influssi, tra cui sicuramente quello del caravaggismo spagnolo e dell'arte fiamminga. Questo dipinto ritrae due donne, una giovane e l'altra più anziana, affacciate alla finestra: la più giovane sorride, mentre l'altra nasconde il viso dietro uno scialle.
Alcune interpretazioni inquadrano la scena come un momento di corteggiamento, altre invece vedono nelle due donne delle prostitute che esercitano il mestiere, all'epoca un ripiego diffuso tra le donne della Galizia, regione molto povera, che si recavano a Siviglia, città di Murillo, a praticare il meretricio.
Bartolomé Esteban Pérez Murillo, tra le più importanti figure del barocco spagnolo, ebbe successo in vita per le sue opere di argomento religioso, ma è nei suoi dipinti di scene popolaresche, raffiguranti ragazze e monelli di strada, che mette in luce gli aspetti più personali e geniali del suo linguaggio. In queste sue tele, il mondo picaresco del Seicento spagnolo si rivela in colori e luci del tutto moderni. Murillo subì molti influssi, tra cui sicuramente quello del caravaggismo spagnolo e dell'arte fiamminga. Questo dipinto ritrae due donne, una giovane e l'altra più anziana, affacciate alla finestra: la più giovane sorride, mentre l'altra nasconde il viso dietro uno scialle.
Alcune interpretazioni inquadrano la scena come un momento di corteggiamento, altre invece vedono nelle due donne delle prostitute che esercitano il mestiere, all'epoca un ripiego diffuso tra le donne della Galizia, regione molto povera, che si recavano a Siviglia, città di Murillo, a praticare il meretricio.
Porte e finestre - Confini di un mondo privato
Pieter De Hooch, Donna che si allaccia il corpetto vicino a una culla, 1660 circa, Gemäldegalerie, Berlin.
Anche l'olandese Pieter de Hooch, come Vermeer, è un pittore del Secolo d'oro dell'arte olandese. La sua carriera si svolge soprattutto a Delft, stessa città in cui operava Vermeer, ritraendo in particolar modo interni e scene familiari di vita borghese, caratterizzati da grande cura per i dettagli di vita quotidiana.
Personaggi privilegiati da De Hooch sono le donne a casa con i loro figli: la madre che sorveglia la culla, che serve la sua famiglia a tavola, che lavora nella sua cucina o cuce o legge una lettera seduta vicino a una finestra (testimonianza, peraltro, del livello di alfabetizzazione femminile). La nota fondamentale di ogni singolo quadro è una intima semplicità; il pittore ci conduce in un ambiente calmo e tranquillo, molto pulito e ordinato, abitato da persone benestanti, un mondo la cui calma non è mai infranta da alcun evento sensazionale.
Anche l'olandese Pieter de Hooch, come Vermeer, è un pittore del Secolo d'oro dell'arte olandese. La sua carriera si svolge soprattutto a Delft, stessa città in cui operava Vermeer, ritraendo in particolar modo interni e scene familiari di vita borghese, caratterizzati da grande cura per i dettagli di vita quotidiana.
Personaggi privilegiati da De Hooch sono le donne a casa con i loro figli: la madre che sorveglia la culla, che serve la sua famiglia a tavola, che lavora nella sua cucina o cuce o legge una lettera seduta vicino a una finestra (testimonianza, peraltro, del livello di alfabetizzazione femminile). La nota fondamentale di ogni singolo quadro è una intima semplicità; il pittore ci conduce in un ambiente calmo e tranquillo, molto pulito e ordinato, abitato da persone benestanti, un mondo la cui calma non è mai infranta da alcun evento sensazionale.
Porte e finestre - La finestra come limite
Jan Vermeer, Donna che legge una lettera davanti alla finestra, 1657 circa, Gemäldegalerie di Dresda.
Questo è un dipinto di Jan Vermeer del 1657. Siamo nell'Olanda del Secolo d'oro, il Paese dove è presente il più nutrito e coeso ceto borghese del continente: mercantile sul piano economico e riformato sul piano religioso. In questo contesto, si sviluppa una produzione artistica destinata non più ai tradizionali committenti della corte o della Chiesa, ma alla nuova classe dirigente, la borghesia appunto, ai cui valori questi artisti danno forma. E questo committente preferisce delle rappresentazioni legate ai temi della vita quotidiana, piuttosto che i classici soggetti mitologici o religiosi. Si diffonde la pittura di genere: paesaggi, nature morte, ritratti, interni domestici, contesti quotidiani in cui la società borghese può specchiarsi e riconoscersi.
Questo è un dipinto di Jan Vermeer del 1657. Siamo nell'Olanda del Secolo d'oro, il Paese dove è presente il più nutrito e coeso ceto borghese del continente: mercantile sul piano economico e riformato sul piano religioso. In questo contesto, si sviluppa una produzione artistica destinata non più ai tradizionali committenti della corte o della Chiesa, ma alla nuova classe dirigente, la borghesia appunto, ai cui valori questi artisti danno forma. E questo committente preferisce delle rappresentazioni legate ai temi della vita quotidiana, piuttosto che i classici soggetti mitologici o religiosi. Si diffonde la pittura di genere: paesaggi, nature morte, ritratti, interni domestici, contesti quotidiani in cui la società borghese può specchiarsi e riconoscersi.
Porte e finestre - Una finestra nell'occhio
Albrecht Dürer, Leprotto, 1502.
Si, avete visto bene: è un leprotto. Vi starete chiedendo cosa c'entra una lepre con porte e finestre. Eppure, se ingrandite l'immagine e guardate nell'occhio di questa bestiola, vedrete raffigurata una finestrella luminosa.
Si, avete visto bene: è un leprotto. Vi starete chiedendo cosa c'entra una lepre con porte e finestre. Eppure, se ingrandite l'immagine e guardate nell'occhio di questa bestiola, vedrete raffigurata una finestrella luminosa.
Porte e finestre - La pittura come "finestra aperta sul mondo"
Lorenzo Di Credi, Annunciazione, 1480, Galleria degli Uffizi, Firenze.
Come lo specchio, anche la finestra affascina per la sua ambiguità: oggetto apribile e chiudibile al tempo stesso, separa e unisce, permette di vedere e di essere visti oppure di celare e di celarsi, contiene in sé la trasparenza del vetro e l'opacità del battente o della tapparella.
Come lo specchio inoltre, anche la finestra è un simbolo con cui l’artista può riflettere sul proprio mestiere di “fare pittura”. In una poesia Rainer Maria Rilke scriveva: «Non sei forse tu, finestra, la nostra geometria, forma così semplice che senza sforzo circoscrivi la nostra vita immensa?».
Rilke era attratto dalle finestre, convinto com'era che la loro forma modellasse la nostra idea del mondo: circoscrivendo una porzione della realtà, esse ci permettono di avere una visione chiara, altrimenti inattingibile nella vastità confusa della nostra "vita immensa". Ma questa intuizione non era una novità, ma si poneva nel solco di una tradizione che ha la sua origine nell'Umanesimo, quando la pittura occidentale si era data l'obiettivo di farsi mimesi del reale e per questo aveva codificato i principi della rappresentazione dello spazio nella geometria della prospettiva lineare.
Come lo specchio, anche la finestra affascina per la sua ambiguità: oggetto apribile e chiudibile al tempo stesso, separa e unisce, permette di vedere e di essere visti oppure di celare e di celarsi, contiene in sé la trasparenza del vetro e l'opacità del battente o della tapparella.
Come lo specchio inoltre, anche la finestra è un simbolo con cui l’artista può riflettere sul proprio mestiere di “fare pittura”. In una poesia Rainer Maria Rilke scriveva: «Non sei forse tu, finestra, la nostra geometria, forma così semplice che senza sforzo circoscrivi la nostra vita immensa?».
Rilke era attratto dalle finestre, convinto com'era che la loro forma modellasse la nostra idea del mondo: circoscrivendo una porzione della realtà, esse ci permettono di avere una visione chiara, altrimenti inattingibile nella vastità confusa della nostra "vita immensa". Ma questa intuizione non era una novità, ma si poneva nel solco di una tradizione che ha la sua origine nell'Umanesimo, quando la pittura occidentale si era data l'obiettivo di farsi mimesi del reale e per questo aveva codificato i principi della rappresentazione dello spazio nella geometria della prospettiva lineare.
Porte e finestre - La finestra come "veduta"
Tiziano: Venere con organista e amorino, 1550.
Iniziamo un nuovo percorso, prendendo in esame alcune opere in cui porte o finestre costituiscono elementi rappresentativi o simbolici di rilievo. Non sarà un discorso sull'architettura, ma per introdurlo partiamo da un brano che parla di essa. E' tratto dal libro "La finestra e la comunicazione architettonica" del 1979 di Giannino Cusano:
"La finestra non è un semplice «buco nel muro», ma uno strumento linguistico fondamentale in due sensi: a) configura e vitalizza lo spazio quantificandone e qualificandone la luce; b) segnala nel volume e sulle superfici le funzioni interne dell'edificio. Dal Medioevo al barocco, dal razionalismo all'espressionismo, da Wright a Le Corbusier e Mendelsohn, la finestra comunica l'intero dramma architettonico. Taglia e cuce, levita o appesantisce, squarcia o morde il masso costruito, media o rende più dissonante il rapporto tra pieni e vuoti. In sostanza, una finestra offre la carta d'identità di un architetto e di un costume urbano, fornendo un mezzo diretto per «leggere» l'architettura".
In questo percorso vedremo invece porte e finestre soprattutto nel loro aspetto simbolico.
Iniziamo un nuovo percorso, prendendo in esame alcune opere in cui porte o finestre costituiscono elementi rappresentativi o simbolici di rilievo. Non sarà un discorso sull'architettura, ma per introdurlo partiamo da un brano che parla di essa. E' tratto dal libro "La finestra e la comunicazione architettonica" del 1979 di Giannino Cusano:
"La finestra non è un semplice «buco nel muro», ma uno strumento linguistico fondamentale in due sensi: a) configura e vitalizza lo spazio quantificandone e qualificandone la luce; b) segnala nel volume e sulle superfici le funzioni interne dell'edificio. Dal Medioevo al barocco, dal razionalismo all'espressionismo, da Wright a Le Corbusier e Mendelsohn, la finestra comunica l'intero dramma architettonico. Taglia e cuce, levita o appesantisce, squarcia o morde il masso costruito, media o rende più dissonante il rapporto tra pieni e vuoti. In sostanza, una finestra offre la carta d'identità di un architetto e di un costume urbano, fornendo un mezzo diretto per «leggere» l'architettura".
In questo percorso vedremo invece porte e finestre soprattutto nel loro aspetto simbolico.
martedì 26 luglio 2016
Ribelli e rivoluzionari - ROSA PARKS
Don Cravens, Rosa Parks, 1956. |
Cominciamo oggi un nuovo percorso che ci porterà attraverso le storie di uomini e donne, personaggi storici o mitologici, che hanno incarnato la figura del ribelle o del rivoluzionario.
Cercare di dare delle definizioni di questi due tipi ideali e di illustrarne le differenze non è semplice, per cui è meglio restare alla superficie della questione.
Il ribelle è il dissidente, il libero pensatore, l'individuo che si oppone a un pensiero o a un ordine costituito. E' l'anticonformista che rifiuta qualsiasi ortodossia. In un certo senso il ribelle incarna un "modo di essere", un modo di porsi di fronte agli altri e ai modi di organizzazione di cui questi si dotano.
Ribelli e rivoluzionari - L'angelo ribelle
Franz Von Stuck, Lucifero, 1889-90, National Gallery for Foreign Art di Sofia.
In questo percorso alterneremo un personaggio storico a un personaggio del mito e della leggenda.
Parlando di ribelli, la prima figura che viene in mente è il "ribelle" per eccellenza, l'angelo caduto, il nemico di Dio, cioè Lucifero ("Portatore di luce"). Nella tradizione giudaico-cristiana egli è un serafino, quindi appartenente alla più alta schiera degli angeli (tra l'altro il serafino è anche chiamato "serpente di fuoco"), che per superbia e per desiderio di usurpare Dio, oppure per gelosia nei confronti della predilezione mostrata da Dio per l'uomo appena creato, si ribella a lui e gli muove guerra insieme agli altri angeli che si schierano dalla sua parte. Sarà sconfitto dall'arcangelo Michele e dall'esercito degli angeli rimasti fedeli e fatto precipitare nell'abisso degli Inferi, insieme agli altri ribelli.
In questo percorso alterneremo un personaggio storico a un personaggio del mito e della leggenda.
Parlando di ribelli, la prima figura che viene in mente è il "ribelle" per eccellenza, l'angelo caduto, il nemico di Dio, cioè Lucifero ("Portatore di luce"). Nella tradizione giudaico-cristiana egli è un serafino, quindi appartenente alla più alta schiera degli angeli (tra l'altro il serafino è anche chiamato "serpente di fuoco"), che per superbia e per desiderio di usurpare Dio, oppure per gelosia nei confronti della predilezione mostrata da Dio per l'uomo appena creato, si ribella a lui e gli muove guerra insieme agli altri angeli che si schierano dalla sua parte. Sarà sconfitto dall'arcangelo Michele e dall'esercito degli angeli rimasti fedeli e fatto precipitare nell'abisso degli Inferi, insieme agli altri ribelli.
Ribelli e rivoluzionari - MARTIN LUTHER KING
Bob Adelman, Martin Luther King delivers the "I have a dream" speech from the podium, 28 agosto 1963, Washington DC
Questa foto, notissima, ritrae Martin Luther King durante il celebre discorso davanti al Lincoln Memorial di Washington il 28 agosto del 1963, al termine di una marcia di protesta per i diritti civili, la "marcia per il lavoro e la libertà".
Chi non conosce le parole di questo discorso? "I have a dream", "io ho un sogno. E' un sogno profondamente radicato nel sogno americano, che un giorno questa nazione si leverà in piedi e vivrà fino in fondo il senso delle sue convinzioni: noi riteniamo ovvia questa verità, che tutti gli uomini sono creati uguali". Da quel momento l'espressione «I have a dream» diventa un'icona universale. In un discorso di 17 minuti il reverendo Martin Luther King condensa la potenza del suo messaggio e da quel momento la lotta contro il razzismo e la segregazione razziale non è più la stessa, ma trova nuova forza, radici e soprattutto un simbolo.
Questa foto, notissima, ritrae Martin Luther King durante il celebre discorso davanti al Lincoln Memorial di Washington il 28 agosto del 1963, al termine di una marcia di protesta per i diritti civili, la "marcia per il lavoro e la libertà".
Chi non conosce le parole di questo discorso? "I have a dream", "io ho un sogno. E' un sogno profondamente radicato nel sogno americano, che un giorno questa nazione si leverà in piedi e vivrà fino in fondo il senso delle sue convinzioni: noi riteniamo ovvia questa verità, che tutti gli uomini sono creati uguali". Da quel momento l'espressione «I have a dream» diventa un'icona universale. In un discorso di 17 minuti il reverendo Martin Luther King condensa la potenza del suo messaggio e da quel momento la lotta contro il razzismo e la segregazione razziale non è più la stessa, ma trova nuova forza, radici e soprattutto un simbolo.
Ribelli e rivoluzionari - PROMETEO
Alejandro Kokocinski, Prometeo |
Il nome Prometeo in greco significa "colui che riflette prima". Egli è infatti molto scaltro e intelligente. Prometeo è figlio del titano Giapeto e di Climene, figlia del titano Oceano. Ma chi sono questi titani? Essi sono delle divinità antichissime, precedenti agli dei olimpici e rappresentano le forze primordiali dell'universo. Dunque Prometeo è un titano di seconda generazione, ma pur sempre una divinità. La particolarità di questo dio è che gli stanno particolarmente a cuore gli uomini, mentre è in contrasto con il dio supremo, Zeus, del quale rappresenta in un certo senso l'antitesi.
Secondo alcune versioni del mito, Zeus, per la stima che in un primo momento riponeva in Prometeo, gli diede l'incarico di forgiare l'uomo. Prometeo lo modellò dal fango, lo animò con il fuoco divino e, in seguitò, gli donò le doti dell'intelligenza e della memoria che aveva rubato ad Atena.
Ribelli e rivoluzionari - MALCOLM X
Gordon Parks, Malcolm X holding up Black Muslim newspaper., Harlem, New York, 1963.
Se Martin Luther King predica la non violenza e l'integrazione negli stati del sud, Malcolm X si rende conto che questa strategia di lotta è impossibile da attuare nei centri urbani e nelle metropoli del Nord degli Stati Uniti, dove vivono comunità di neri ghettizzate e disgregate. Rispetto agli altri leaders neri, Malcolm X sviluppa la strategia di lotta che in quelle circostanze più delle altre rispondeva alle istanze degli afroamericani che vivevano la tumultuosa esperienza dei ghetti urbani in rivolta. Lo scopo finale non è più l’integrazione, ma il sovvertimento del sistema americano. Malcolm X è il miglior interprete di quel mondo di miseria, ignoranza e rabbia in ebollizione che minacciava di esplodere perché, a differenza degli altri leaders neri che provenivano dagli ambienti borghesi, Malcolm ci era cresciuto. Nei ghetti degradati e violenti di New York, quale idea poteva far nascere una speranza di riscatto? La non violenza e la resistenza passiva no di certo, non potevano attecchire. Attraverso l’identificazione con una religione, la Nation of Islam offriva un’identità adeguata alle aspirazioni di quei neri marginali, l’identità di muslims (musulmani), che permetteva loro di riappropriarsi della memoria storica e di riconoscersi come comunità in lotta.
Se Martin Luther King predica la non violenza e l'integrazione negli stati del sud, Malcolm X si rende conto che questa strategia di lotta è impossibile da attuare nei centri urbani e nelle metropoli del Nord degli Stati Uniti, dove vivono comunità di neri ghettizzate e disgregate. Rispetto agli altri leaders neri, Malcolm X sviluppa la strategia di lotta che in quelle circostanze più delle altre rispondeva alle istanze degli afroamericani che vivevano la tumultuosa esperienza dei ghetti urbani in rivolta. Lo scopo finale non è più l’integrazione, ma il sovvertimento del sistema americano. Malcolm X è il miglior interprete di quel mondo di miseria, ignoranza e rabbia in ebollizione che minacciava di esplodere perché, a differenza degli altri leaders neri che provenivano dagli ambienti borghesi, Malcolm ci era cresciuto. Nei ghetti degradati e violenti di New York, quale idea poteva far nascere una speranza di riscatto? La non violenza e la resistenza passiva no di certo, non potevano attecchire. Attraverso l’identificazione con una religione, la Nation of Islam offriva un’identità adeguata alle aspirazioni di quei neri marginali, l’identità di muslims (musulmani), che permetteva loro di riappropriarsi della memoria storica e di riconoscersi come comunità in lotta.
Ribelli e rivoluzionari - ICARO
Henri Matisse, Icaro, dalla raccolta “Jazz”, 1946-1947, New York Metropolitan Museum.
Icaro è il prototipo dell'adolescente trasgressivo e ribelle. Figlio di Dedalo, architetto del celebre Labirinto voluto da Minosse, venne imprigionato con il padre a Creta, perché quest’ultimo non rivelasse a nessuno i segreti del Labirinto di Cnosso. Grazie al suo ingegno, Dedalo riesce a costruire delle ali di piume e cera, un paio per lui e un paio per il figlio. Prima di partire e tentare la fuga, Dedalo spiega al ragazzo come usarle e dove posizionarsi nell’aria: non troppo in basso altrimenti l’umidità avrebbe bagnato le piume e impedito il volo, non troppo in alto o il sole avrebbe fatto sciogliere la cera che univa le piume. Ma Icaro si lascia prendere dall’euforia del volo e si avvicina troppo al sole. La cera si scioglie e il ragazzo precipita in mare.
Icaro è il prototipo dell'adolescente trasgressivo e ribelle. Figlio di Dedalo, architetto del celebre Labirinto voluto da Minosse, venne imprigionato con il padre a Creta, perché quest’ultimo non rivelasse a nessuno i segreti del Labirinto di Cnosso. Grazie al suo ingegno, Dedalo riesce a costruire delle ali di piume e cera, un paio per lui e un paio per il figlio. Prima di partire e tentare la fuga, Dedalo spiega al ragazzo come usarle e dove posizionarsi nell’aria: non troppo in basso altrimenti l’umidità avrebbe bagnato le piume e impedito il volo, non troppo in alto o il sole avrebbe fatto sciogliere la cera che univa le piume. Ma Icaro si lascia prendere dall’euforia del volo e si avvicina troppo al sole. La cera si scioglie e il ragazzo precipita in mare.
GANDHI E L'INSEGNAMENTO DELL'ARCOLAIO
Margaret Bourke-White, Mahatma Gandhi at His Spinning Wheel, Poona, India, 1946.
Fondare non solo una strategia di lotta politica, ma tutta un'etica sulla disobbedienza civile: un'impresa che poteva riuscire solo a una "grande anima". Mohandas Karamchand Gandhi è stato uno dei pionieri e dei teorici del satyagraha, la resistenza all'oppressione tramite la disobbedienza civile di massa che ha portato l'India all'indipendenza.
Questa foto di Margaret Bourke-White, una delle più famose di Gandhi, è del 1946 e lo ritrae seduto dietro a un arcolaio (charkha, in lingua hindi). Il soggetto in primo piano di questo scatto è in realtà proprio il consunto attrezzo, che veniva utilizzato per districare le matasse di cotone; così comune in quella terra da comparire come effigie nella bandiera indiana fino agli anni ’40 del secolo scorso. Gandhi attribuisce un immenso valore morale a questo attrezzo. Esso incarna il suo ideale di offrire agli abitanti delle aree rurali dell’India un impiego e un ambiente dignitosi, evitando le grandi migrazioni verso le grandi città. Lo strumento di una vera e propria controrivoluzione industriale che ha visto Gandhi impegnato in prima persona non solo nella diffusione ma anche nell’uso di questo antico strumento per filare manualmente la seta e il cotone.
Fondare non solo una strategia di lotta politica, ma tutta un'etica sulla disobbedienza civile: un'impresa che poteva riuscire solo a una "grande anima". Mohandas Karamchand Gandhi è stato uno dei pionieri e dei teorici del satyagraha, la resistenza all'oppressione tramite la disobbedienza civile di massa che ha portato l'India all'indipendenza.
Questa foto di Margaret Bourke-White, una delle più famose di Gandhi, è del 1946 e lo ritrae seduto dietro a un arcolaio (charkha, in lingua hindi). Il soggetto in primo piano di questo scatto è in realtà proprio il consunto attrezzo, che veniva utilizzato per districare le matasse di cotone; così comune in quella terra da comparire come effigie nella bandiera indiana fino agli anni ’40 del secolo scorso. Gandhi attribuisce un immenso valore morale a questo attrezzo. Esso incarna il suo ideale di offrire agli abitanti delle aree rurali dell’India un impiego e un ambiente dignitosi, evitando le grandi migrazioni verso le grandi città. Lo strumento di una vera e propria controrivoluzione industriale che ha visto Gandhi impegnato in prima persona non solo nella diffusione ma anche nell’uso di questo antico strumento per filare manualmente la seta e il cotone.
Ribelli e rivoluzionari - GIUDITTA
Artemisia Gentileschi, Giuditta che decapita Oloferne, 1620, Galleria degli Uffizi, Firenze.
Giuditta è un personaggio dell'Antico Testamento, le cui vicende sono narrate nel Libro di Giuditta. La storia, ambientata al tempo di Nabucodonosor, racconta che a quel tempo la città giudea di Betulia era sotto assedio da parte di Oloferne, generale assiro. Giuditta è una giovane e bella vedova ebrea, che non si arrende alla decisione di resa al nemico, presa dal governo della città e decide con coraggio di proseguire la battaglia ricorrendo alle armi femminili della seduzione. Indossa belle vesti e gioielli e si presenta ad Oloferne con la sua serva e con doni, fingendo di essere venuta a tradire i suoi.
Oloferne, dopo un banchetto, si apparta con lei nella sua tenda completamente ubriaco. Giuditta impugna con una mano la scimitarra del suo nemico, con l'altra gli afferra i capelli e con forza gli stacca la testa dal collo. Morto il suo generale, l'esercito assiro toglie l'assedio e Giuditta viene celebrata dal suo popolo come una salvatrice.
Giuditta è un personaggio dell'Antico Testamento, le cui vicende sono narrate nel Libro di Giuditta. La storia, ambientata al tempo di Nabucodonosor, racconta che a quel tempo la città giudea di Betulia era sotto assedio da parte di Oloferne, generale assiro. Giuditta è una giovane e bella vedova ebrea, che non si arrende alla decisione di resa al nemico, presa dal governo della città e decide con coraggio di proseguire la battaglia ricorrendo alle armi femminili della seduzione. Indossa belle vesti e gioielli e si presenta ad Oloferne con la sua serva e con doni, fingendo di essere venuta a tradire i suoi.
Oloferne, dopo un banchetto, si apparta con lei nella sua tenda completamente ubriaco. Giuditta impugna con una mano la scimitarra del suo nemico, con l'altra gli afferra i capelli e con forza gli stacca la testa dal collo. Morto il suo generale, l'esercito assiro toglie l'assedio e Giuditta viene celebrata dal suo popolo come una salvatrice.
Ribelli e rivoluzionari - CHE GUEVARA
Alberto Korda, Guerrillero Heroico, L'Avana, 1960.
Qualcuno penserà che la scelta di questa immagine è fin troppo scontata. Personalmente avrei preferito parlarvi delle foto scattate al Che da Elliott Erwitt o da Burri, ma queste, seppure famosissime, non hanno la valenza iconica che ha avuto e continua ad avere questo scatto di Alberto Korda.
Ernesto Guevara de la Serna, conosciuto come il "Che", è stato uno dei più celebri rivoluzionari del Novecento, oltre che guerrigliero, scrittore e medico. Nato a Rosario, in Argentina, negli anni Cinquanta si recò in Guatemala dove entrò in contatto con alcuni esuli cubani e si avvicinò alle idee marxiste. Qui ricevette il soprannome Che, dovuto all'intercalare tipicamente argentino "che" usato per attirare l'attenzione - un po' come in italiano "ehi" -, che il rivoluzionario usava molto spesso. Nel 1956 decise di partire insieme a loro per Cuba, dove prese parte attivamente alla rivoluzione che portò, il primo gennaio 1959, a rovesciare il dittatore Fulgencio Batista. Dopo alcune esperienze nel governo di Fidel Castro, Guevara decise nel 1965 di lasciare l'isola caraibica con l'intento di portare la rivoluzione in altri Paesi del mondo: si recò prima nel Congo belga, poi in Bolivia. Qui l'8 ottobre 1967 venne ferito, catturato e poi giustiziato dall'esercito boliviano.
Questa foto contribuì in modo decisivo a fare di Guevara un mito non solo per le generazioni di allora. Questa icona ha valicato il millennio, continuando a mantenere grande popolarità, sebbene la sua valenza simbolica sia mutata rispetto a qualche decennio fa.
L'autore, Alberto Korda (anche se il vero nome era Alberto Diaz Gutierrez ) era un fotografo cubano di moda che, dopo la caduta di Batista, era diventato fotografo della Rivoluzione e amico di Castro.
La foto fu scattata il 5 marzo 1960, durante la cerimonia funebre dei 136 morti nello scoppio della nave francese La Coubre, probabilmente a causa di un sabotaggio, che trasportava armi a L'Avana. Korda era lì per un servizio per il giornale Revolución e si era avvicinato alla piattaforma degli oratori. Con Castro c'erano altri leader della rivoluzione, gli scrittori francesi Jean-Paul Sartre e Simone de Beauvoir e, naturalmente, il Che. Quando Korda arrivò vicino, si accorse che il Che - che era stato in piedi nella parte posteriore del palco - si era spostato in avanti. Fu colpito dalla sua espressione che, affermava Korda, mostrava "implacabilità assoluta", così come rabbia e dolore. Il fotografo impugnava una Leica M2 con lenti di 90 mm e con pellicola Kodak Plus-X, che conteneva già fotogrammi di Jean-Paul Sartre, Simone de Beauvoir e Fidel Castro, tutti presenti alla cerimonia. Egli riuscì a fare due scatti - uno verticale e uno orizzontale - prima che il Che facesse un passo indietro. Nel primo scatto, orizzontale, Che Guevara venne ritratto tra alcune foglie di palma e il giornalista argentino Jorge Josè Ricardo Masetti Blanco (di origini bolognesi, noto anche come Comandante Segundo, desaparecido in Argentina nel 1964).
In seguito, nel corso del processo di elaborazione della pellicola, lo stesso Korda decise di isolare la figura del "Che" tramite una operazione di cropping, e di stampare solamente il primo piano del rivoluzionario argentino. Ironia della sorte, il giornale non utilizzò, per la pubblicazione del servizio, l'immagine del Che, ma scelse uno scatto di Castro con Sartre e de Beauvoir. Le foto rimasero a languire per anni sulla parete dello studio di Korda fino a quando, nel 1967, un editore italiano, Giangiacomo Feltrinelli, venne con una lettera del governo cubano chiedendo a Korda di aiutarlo a trovare un ritratto del Che. Il fotografo gli regalò due copie della sua foto, senza volere alcun compenso. Tornato in Italia, Feltrinelli scelse proprio il ritratto realizzato da Korda come copertina del "Diario in Bolivia" di Ernesto Guevara. Ma il punto di svolta per l'immagine fu il mese di ottobre del 1967, dopo l'esecuzione del Comandante in Bolivia. Dimostrazioni di condanna scoppiarono dappertutto e Feltrinelli decise di stampare numerosi poster con la foto del Che, tappezzando Milano. Lo scatto di Korda acquisì il nome di "Guerrillero Heroico" e da allora è divenuta una delle fotografie più celebri e più riprodotte della storia, in ambito ideologico, artistico e anche commerciale. L'immagine, nella reintepretazione operata nel 1968 dall'irlandese Jim Fitzpatrick (gli scarni tratti in bianco e nero del volto del Che su uno sfondo rosso fuoco), è entrata a tutti gli effetti nell’immaginario collettivo, diventando simbolo dei crescenti moti di rivolta operai e studenteschi di tutto il mondo, grazie alla sua massiccia riproduzione industriale su maglie, poster e bandiere.
Nonostante questo, Alberto Korda non ha mai reclamato i diritti né ha ricevuto alcun compenso.
Poiché Fidel non aveva riconosciuto o firmato la Convenzione di Berna per la protezione delle opere letterarie e artistiche, né Korda né la famiglia Guevara ha ricavato nulla dai miliardi di riproduzioni delle immagini. Senza la protezione del copyright, chiunque poteva usarli e pubblicarli. Nel 2000, però, Korda intraprese una battaglia legale contro l'azienda russa Smirnoff, rea di aver utilizzato la foto del Che per pubblicizzare la propria vodka. La vicenda si è conclusa con un accordo extra-giudiziale, che ha comportato l'esborso di 50.000 dollari da parte dell'azienda, che il fotografo ha donato al sistema sanitario cubano.
Resta, invece, ignota l’identità di colui che utilizzò l’immagine di Korda per creare serigrafie con lo stile di Warhol spacciandole come opere dell’artista statunitense.
Con riutilizzi infiniti per scopi commerciali e sociali, la foto ha subito un processo di trasformazione da icona a oggetto di consumo di massa, perdendo gran parte della sua individualità. Tuttavia, allo stesso tempo, ha anche acquisito una grande universalità, in quanto l'astrattezza del simbolo ha allontanato l'icona dall'individualità storica, controversa e complessa, di Ernesto Guevara, elaborandosi come ideale di lotta per la libertà semplificato ma privo di contraddizioni, immediatamente riconoscibile e adottato a livello planetario. L'immagine intensa dell'eroe, morto giovane e dunque destinato a un'eterna giovinezza, ha una qualità mitica che è avvincente. Il suo berretto, la barba, i capelli incolti lo legano all'uomo comune, mentre il suo sguardo lontano, distante, proiettato verso un orizzonte interiore e irraggiungibile, non è dissimile da quello presente nelle raffigurazioni del Buddha o di Cristo. Un'ambiguità iconografica che rende un personaggio abbastanza comune da potersi riconoscere e identificare in esso e nello stesso tempo eroico e distante da costituire un ideale utopico di riferimento.
Celebri sono anche le fotografie che del Che scattò Elliott Erwitt:
Questo link rimanda alla celebre Hasta siempre, scritta da Carlos Puebla nel 1965. Una canzone che, insieme all'immagine, ha fortemente contribuito alla costruzione del mito.
Qualcuno penserà che la scelta di questa immagine è fin troppo scontata. Personalmente avrei preferito parlarvi delle foto scattate al Che da Elliott Erwitt o da Burri, ma queste, seppure famosissime, non hanno la valenza iconica che ha avuto e continua ad avere questo scatto di Alberto Korda.
Ernesto Guevara de la Serna, conosciuto come il "Che", è stato uno dei più celebri rivoluzionari del Novecento, oltre che guerrigliero, scrittore e medico. Nato a Rosario, in Argentina, negli anni Cinquanta si recò in Guatemala dove entrò in contatto con alcuni esuli cubani e si avvicinò alle idee marxiste. Qui ricevette il soprannome Che, dovuto all'intercalare tipicamente argentino "che" usato per attirare l'attenzione - un po' come in italiano "ehi" -, che il rivoluzionario usava molto spesso. Nel 1956 decise di partire insieme a loro per Cuba, dove prese parte attivamente alla rivoluzione che portò, il primo gennaio 1959, a rovesciare il dittatore Fulgencio Batista. Dopo alcune esperienze nel governo di Fidel Castro, Guevara decise nel 1965 di lasciare l'isola caraibica con l'intento di portare la rivoluzione in altri Paesi del mondo: si recò prima nel Congo belga, poi in Bolivia. Qui l'8 ottobre 1967 venne ferito, catturato e poi giustiziato dall'esercito boliviano.
Questa foto contribuì in modo decisivo a fare di Guevara un mito non solo per le generazioni di allora. Questa icona ha valicato il millennio, continuando a mantenere grande popolarità, sebbene la sua valenza simbolica sia mutata rispetto a qualche decennio fa.
L'autore, Alberto Korda (anche se il vero nome era Alberto Diaz Gutierrez ) era un fotografo cubano di moda che, dopo la caduta di Batista, era diventato fotografo della Rivoluzione e amico di Castro.
La foto fu scattata il 5 marzo 1960, durante la cerimonia funebre dei 136 morti nello scoppio della nave francese La Coubre, probabilmente a causa di un sabotaggio, che trasportava armi a L'Avana. Korda era lì per un servizio per il giornale Revolución e si era avvicinato alla piattaforma degli oratori. Con Castro c'erano altri leader della rivoluzione, gli scrittori francesi Jean-Paul Sartre e Simone de Beauvoir e, naturalmente, il Che. Quando Korda arrivò vicino, si accorse che il Che - che era stato in piedi nella parte posteriore del palco - si era spostato in avanti. Fu colpito dalla sua espressione che, affermava Korda, mostrava "implacabilità assoluta", così come rabbia e dolore. Il fotografo impugnava una Leica M2 con lenti di 90 mm e con pellicola Kodak Plus-X, che conteneva già fotogrammi di Jean-Paul Sartre, Simone de Beauvoir e Fidel Castro, tutti presenti alla cerimonia. Egli riuscì a fare due scatti - uno verticale e uno orizzontale - prima che il Che facesse un passo indietro. Nel primo scatto, orizzontale, Che Guevara venne ritratto tra alcune foglie di palma e il giornalista argentino Jorge Josè Ricardo Masetti Blanco (di origini bolognesi, noto anche come Comandante Segundo, desaparecido in Argentina nel 1964).
In seguito, nel corso del processo di elaborazione della pellicola, lo stesso Korda decise di isolare la figura del "Che" tramite una operazione di cropping, e di stampare solamente il primo piano del rivoluzionario argentino. Ironia della sorte, il giornale non utilizzò, per la pubblicazione del servizio, l'immagine del Che, ma scelse uno scatto di Castro con Sartre e de Beauvoir. Le foto rimasero a languire per anni sulla parete dello studio di Korda fino a quando, nel 1967, un editore italiano, Giangiacomo Feltrinelli, venne con una lettera del governo cubano chiedendo a Korda di aiutarlo a trovare un ritratto del Che. Il fotografo gli regalò due copie della sua foto, senza volere alcun compenso. Tornato in Italia, Feltrinelli scelse proprio il ritratto realizzato da Korda come copertina del "Diario in Bolivia" di Ernesto Guevara. Ma il punto di svolta per l'immagine fu il mese di ottobre del 1967, dopo l'esecuzione del Comandante in Bolivia. Dimostrazioni di condanna scoppiarono dappertutto e Feltrinelli decise di stampare numerosi poster con la foto del Che, tappezzando Milano. Lo scatto di Korda acquisì il nome di "Guerrillero Heroico" e da allora è divenuta una delle fotografie più celebri e più riprodotte della storia, in ambito ideologico, artistico e anche commerciale. L'immagine, nella reintepretazione operata nel 1968 dall'irlandese Jim Fitzpatrick (gli scarni tratti in bianco e nero del volto del Che su uno sfondo rosso fuoco), è entrata a tutti gli effetti nell’immaginario collettivo, diventando simbolo dei crescenti moti di rivolta operai e studenteschi di tutto il mondo, grazie alla sua massiccia riproduzione industriale su maglie, poster e bandiere.
Nonostante questo, Alberto Korda non ha mai reclamato i diritti né ha ricevuto alcun compenso.
Poiché Fidel non aveva riconosciuto o firmato la Convenzione di Berna per la protezione delle opere letterarie e artistiche, né Korda né la famiglia Guevara ha ricavato nulla dai miliardi di riproduzioni delle immagini. Senza la protezione del copyright, chiunque poteva usarli e pubblicarli. Nel 2000, però, Korda intraprese una battaglia legale contro l'azienda russa Smirnoff, rea di aver utilizzato la foto del Che per pubblicizzare la propria vodka. La vicenda si è conclusa con un accordo extra-giudiziale, che ha comportato l'esborso di 50.000 dollari da parte dell'azienda, che il fotografo ha donato al sistema sanitario cubano.
Resta, invece, ignota l’identità di colui che utilizzò l’immagine di Korda per creare serigrafie con lo stile di Warhol spacciandole come opere dell’artista statunitense.
Con riutilizzi infiniti per scopi commerciali e sociali, la foto ha subito un processo di trasformazione da icona a oggetto di consumo di massa, perdendo gran parte della sua individualità. Tuttavia, allo stesso tempo, ha anche acquisito una grande universalità, in quanto l'astrattezza del simbolo ha allontanato l'icona dall'individualità storica, controversa e complessa, di Ernesto Guevara, elaborandosi come ideale di lotta per la libertà semplificato ma privo di contraddizioni, immediatamente riconoscibile e adottato a livello planetario. L'immagine intensa dell'eroe, morto giovane e dunque destinato a un'eterna giovinezza, ha una qualità mitica che è avvincente. Il suo berretto, la barba, i capelli incolti lo legano all'uomo comune, mentre il suo sguardo lontano, distante, proiettato verso un orizzonte interiore e irraggiungibile, non è dissimile da quello presente nelle raffigurazioni del Buddha o di Cristo. Un'ambiguità iconografica che rende un personaggio abbastanza comune da potersi riconoscere e identificare in esso e nello stesso tempo eroico e distante da costituire un ideale utopico di riferimento.
Celebri sono anche le fotografie che del Che scattò Elliott Erwitt:
Elliott Erwitt – Che Guevara in Cuba, 1964 |
Elliott Erwitt, Cuba. 1964. Che Guevara. |
Questo link rimanda alla celebre Hasta siempre, scritta da Carlos Puebla nel 1965. Una canzone che, insieme all'immagine, ha fortemente contribuito alla costruzione del mito.
Ribelli e rivoluzionari - ANTIGONE
Jean-Joseph Benjamin-Constant, Antigone presso il corpo di Polinice, 1868. Photothèque Musée des Augustins
Il nome Antigone significa "nata contro”; contiene in sé la particella "anti" che esprime opposizione. Il mito di Antigone è indagato da tremila anni da vari autori: da Sofocle nel V secolo a.C., alla Cavani nel suo film I cannibali del 1969 e oltre. La tragedia racconta dello scontro tra Antigone, figlia di Edipo – che vuole seppellire i resti mortali del fratello Polinice, morto mentre assediava la città di Tebe per usurpare il potere al fratello Eteocle – e Creonte, lo zio, divenuto tiranno di Tebe, che invece vuole lasciare il nipote insepolto, in pasto a cani e avvoltoi, perché nemico della città. La pena per chiunque proverà a seppellirne il corpo è la morte. Apprendendo questa notizia, un'infuriata Antigone, si ostina a pretendere che il corpo del fratello venga sepolto affinché il suo spirito possa riposare in pace.
Antigone contravvenendo al divieto va dunque al campo di battaglia davanti a Tebe, copre di sabbia il corpo di Polinice ed effettua i riti di sepoltura. Si lascia quindi docilmente arrestare da una guardia uscita da Tebe ed insospettita dal sollevarsi della polvere. Una fiera Antigone è portata davanti a Creonte. Al cospetto del rappresentate dello Stato Antigone afferma le ragioni della propria condotta. Non alle leggi scritte lei ha inteso obbedire, ma alle leggi degli dèi, alle norme interne, non scritte e indistruttibili dettate dalla natura e dalla propria coscienza. Incredulo che una donna abbia osato disobbedire ai suoi ordini, Creonte decide l'imprigionamento di Antigone e ne decreta l'esecuzione. La fa rinchiudere pertanto in una caverna ad attendervi la morte. Nel frattempo l'indovino cieco Tiresia avverte Creonte che gli dèi sono molto adirati per aver egli rifiutato la sepoltura a Polinice e gli preannuncia imminenti sciagure. Il re di Tebe va dunque a liberare Antigone dalla caverna in cui è imprigionata, ma è troppo tardi per evitare la tragedia: Antigone si è appesa ad una corda. Questo porta al suicidio il figlio di Creonte, Emone (promesso sposo di Antigone), e poi la moglie di Creonte, Euridice, lasciando Creonte solo a maledire la propria stoltezza.
Il nucleo del dramma sofocleo risiede nello scontro fra due volontà e due concezioni del mondo: quella di Antigone, fanciulla fragile fisicamente ma fortissima moralmente, di rispettare le leggi non scritte della natura (physis) e quella di Creonte tesa a imporre la forza dello Stato e della legge (nomos).
Ciascuno dà ai suoi principi (diritto del ghenos per Antigone, che esige di compiere il rituale funebre per garantire la coesione della famiglia nelle sue relazioni con gli dei, contro il diritto della polis per Creonte, che esige che le decisioni dell'autorità politica siano rispettate per garantire la coesione civica) un valore assoluto ben oltre il dato contingente della vicenda che li vede contrapposti . Come sempre le tragedie deflagrano non quando la ragione sta da una parte o dall'altra - il che risolverebbe il conflitto - ma quando tutti hanno ragione, la propria ragione, soggettivamente ed oggettivamente, e, come in questo caso, il diritto non riesce a cogliere due ordini morali entrambi legittimi. E' in questo conflitto insanabile il senso del tragico.
Creonte trova intollerabile l’opposizione di Antigone non solo perché si contravviene a un suo ordine, ma anche perché a farlo è una donna. Nel suo ribellarsi però la donna risulta essere una figura meno dirompente di altre eroine come Clitennestra o Medea, poiché la sua azione non è rivolta a scardinare le leggi su cui si fonda la polis, ma solo a tutelare i suoi affetti familiari e la legge naturale che sente dentro di sé.
L'Antigone è la tragedia della "opposizione". Essa contiene in un concatenamento fatale i cinque conflitti inconciliabili che caratterizzano la vita degli umani in ogni tempo: uomo-donna, vecchi-giovani, individuo-società, leggi divine-leggi umane, vivi-morti.
Questo mito ritorna con intensità quasi ossessiva nel teatro e nel pensiero del Novecento, perché se ne riconosce l'estrema l'attualità: Antigone, con la sua autorità morale e la sua debolezza si fa carico - e diventa simbolo - di una serie di contraddizioni, che continuano a lacerare l’essere umano e la storia. In particolare oggi come non mai è vivo il dilemma: come agire, quando la legge della comunità particolare in cui si vive è in contrasto con un ordine di giustizia universale?
Presentando lo scontro tra privato cittadino e Stato dispotico, l’Antigone è stata spesso vista, in tempi moderni, come una metafora dei diritti del singolo contro gli Stati totalitari (anche se in questo caso viene meno lo spirito tragico classico, fondato sul conflitto insanabile tra due istanze entrambe legittime). Emblematiche, a questo proposito, la riscrittura di Anouilh, le rappresentazioni di Bertolt Brecht, Salvador Espriu o quella più recente del Living Theatre. L'altro elemento su cui hanno fatto leva le interpretazioni moderne è quello femminile, in quanto Antigone, come altre donne del mito, costituisce un fertile archetipo che consente una comprensione più profonda dell’immagine della donna e delle sue potenzialità (Maria Zambrano, Marguerite Yourcenar, Luce Irigary).
Ho trovato invece singolare che questo mito abbia trovato relativamente poche interpretazioni nell'arte figurativa. La pittura ha rappresentato molte volte Antigone in veste di figlia devota, mentre accompagna il padre cieco nel suo esilio di espiazione fino al bosco delle Eumenidi, ma non ha fatto altrettanto con l'episodio della ribellione di Antigone. Quelle che ho trovato, a parte alcune pitture dell'antichità classica, si collocano tutte nel XIX secolo e sono opere di artisti che, per convenzione, definiamo minori.
Questo dipinto è del pittore francese tardo romantico Jean-Joseph Benjamin-Constant. Il pittore ha dato alla rappresentazione un'atmosfera tragica e solenne. Al centro del quadro risalta la figura chiara e luminosa di Antigone, mentre in alto a destra incombe come una minaccia il castello simbolo del potere. La donna è ritratta nell'atto in cui copre pietosamente il fratello morto. Il braccio di lei è parallelo a quello del cadavere e con esso crea uno spazio chiuso e raccolto, staccato dalle altre figure.
Il nome Antigone significa "nata contro”; contiene in sé la particella "anti" che esprime opposizione. Il mito di Antigone è indagato da tremila anni da vari autori: da Sofocle nel V secolo a.C., alla Cavani nel suo film I cannibali del 1969 e oltre. La tragedia racconta dello scontro tra Antigone, figlia di Edipo – che vuole seppellire i resti mortali del fratello Polinice, morto mentre assediava la città di Tebe per usurpare il potere al fratello Eteocle – e Creonte, lo zio, divenuto tiranno di Tebe, che invece vuole lasciare il nipote insepolto, in pasto a cani e avvoltoi, perché nemico della città. La pena per chiunque proverà a seppellirne il corpo è la morte. Apprendendo questa notizia, un'infuriata Antigone, si ostina a pretendere che il corpo del fratello venga sepolto affinché il suo spirito possa riposare in pace.
Antigone contravvenendo al divieto va dunque al campo di battaglia davanti a Tebe, copre di sabbia il corpo di Polinice ed effettua i riti di sepoltura. Si lascia quindi docilmente arrestare da una guardia uscita da Tebe ed insospettita dal sollevarsi della polvere. Una fiera Antigone è portata davanti a Creonte. Al cospetto del rappresentate dello Stato Antigone afferma le ragioni della propria condotta. Non alle leggi scritte lei ha inteso obbedire, ma alle leggi degli dèi, alle norme interne, non scritte e indistruttibili dettate dalla natura e dalla propria coscienza. Incredulo che una donna abbia osato disobbedire ai suoi ordini, Creonte decide l'imprigionamento di Antigone e ne decreta l'esecuzione. La fa rinchiudere pertanto in una caverna ad attendervi la morte. Nel frattempo l'indovino cieco Tiresia avverte Creonte che gli dèi sono molto adirati per aver egli rifiutato la sepoltura a Polinice e gli preannuncia imminenti sciagure. Il re di Tebe va dunque a liberare Antigone dalla caverna in cui è imprigionata, ma è troppo tardi per evitare la tragedia: Antigone si è appesa ad una corda. Questo porta al suicidio il figlio di Creonte, Emone (promesso sposo di Antigone), e poi la moglie di Creonte, Euridice, lasciando Creonte solo a maledire la propria stoltezza.
Il nucleo del dramma sofocleo risiede nello scontro fra due volontà e due concezioni del mondo: quella di Antigone, fanciulla fragile fisicamente ma fortissima moralmente, di rispettare le leggi non scritte della natura (physis) e quella di Creonte tesa a imporre la forza dello Stato e della legge (nomos).
Ciascuno dà ai suoi principi (diritto del ghenos per Antigone, che esige di compiere il rituale funebre per garantire la coesione della famiglia nelle sue relazioni con gli dei, contro il diritto della polis per Creonte, che esige che le decisioni dell'autorità politica siano rispettate per garantire la coesione civica) un valore assoluto ben oltre il dato contingente della vicenda che li vede contrapposti . Come sempre le tragedie deflagrano non quando la ragione sta da una parte o dall'altra - il che risolverebbe il conflitto - ma quando tutti hanno ragione, la propria ragione, soggettivamente ed oggettivamente, e, come in questo caso, il diritto non riesce a cogliere due ordini morali entrambi legittimi. E' in questo conflitto insanabile il senso del tragico.
Creonte trova intollerabile l’opposizione di Antigone non solo perché si contravviene a un suo ordine, ma anche perché a farlo è una donna. Nel suo ribellarsi però la donna risulta essere una figura meno dirompente di altre eroine come Clitennestra o Medea, poiché la sua azione non è rivolta a scardinare le leggi su cui si fonda la polis, ma solo a tutelare i suoi affetti familiari e la legge naturale che sente dentro di sé.
L'Antigone è la tragedia della "opposizione". Essa contiene in un concatenamento fatale i cinque conflitti inconciliabili che caratterizzano la vita degli umani in ogni tempo: uomo-donna, vecchi-giovani, individuo-società, leggi divine-leggi umane, vivi-morti.
Questo mito ritorna con intensità quasi ossessiva nel teatro e nel pensiero del Novecento, perché se ne riconosce l'estrema l'attualità: Antigone, con la sua autorità morale e la sua debolezza si fa carico - e diventa simbolo - di una serie di contraddizioni, che continuano a lacerare l’essere umano e la storia. In particolare oggi come non mai è vivo il dilemma: come agire, quando la legge della comunità particolare in cui si vive è in contrasto con un ordine di giustizia universale?
Presentando lo scontro tra privato cittadino e Stato dispotico, l’Antigone è stata spesso vista, in tempi moderni, come una metafora dei diritti del singolo contro gli Stati totalitari (anche se in questo caso viene meno lo spirito tragico classico, fondato sul conflitto insanabile tra due istanze entrambe legittime). Emblematiche, a questo proposito, la riscrittura di Anouilh, le rappresentazioni di Bertolt Brecht, Salvador Espriu o quella più recente del Living Theatre. L'altro elemento su cui hanno fatto leva le interpretazioni moderne è quello femminile, in quanto Antigone, come altre donne del mito, costituisce un fertile archetipo che consente una comprensione più profonda dell’immagine della donna e delle sue potenzialità (Maria Zambrano, Marguerite Yourcenar, Luce Irigary).
Ho trovato invece singolare che questo mito abbia trovato relativamente poche interpretazioni nell'arte figurativa. La pittura ha rappresentato molte volte Antigone in veste di figlia devota, mentre accompagna il padre cieco nel suo esilio di espiazione fino al bosco delle Eumenidi, ma non ha fatto altrettanto con l'episodio della ribellione di Antigone. Quelle che ho trovato, a parte alcune pitture dell'antichità classica, si collocano tutte nel XIX secolo e sono opere di artisti che, per convenzione, definiamo minori.
Questo dipinto è del pittore francese tardo romantico Jean-Joseph Benjamin-Constant. Il pittore ha dato alla rappresentazione un'atmosfera tragica e solenne. Al centro del quadro risalta la figura chiara e luminosa di Antigone, mentre in alto a destra incombe come una minaccia il castello simbolo del potere. La donna è ritratta nell'atto in cui copre pietosamente il fratello morto. Il braccio di lei è parallelo a quello del cadavere e con esso crea uno spazio chiuso e raccolto, staccato dalle altre figure.
Ribelli e rivoluzionari - PRAGA 1968
Josef Koudelka, Praga, agosto 1968.
E' l'estate umida e calda del 1968 nella città di Kafka, dove ciò che non ti aspetti sta lì dietro un angolo, pronto ad irrompere e sconvolgere una apparente normalità. Uno squillo di telefono nella notte. Un risveglio improvviso. Bisogna alzarsi, rivestirsi, appendere al collo la macchina fotografica e uscire in strada. Questa volta non per riprendere i carri degli zingari. Ci sono altri carri da fotografare. I campi degli zingari fanno parte del mondo del sogno, un passato che si ostina a chiudersi in una malinconica poesia. Quella notte invece bisogna documentare la storia, che si spalanca come una città violata da centinaia di carri armati. Sono lì per soffocare la primavera di un'utopia, quel "comunismo dal volto umano" che si è aperto a un processo di democratizzazione e di riforme, promosso da A. Dubček e sostenuto dalla popolazione. Una bomba a orologeria posizionata nel cuore del Patto di Varsavia. Nella notte fra il 20 ed il 21 agosto, mezzo milione di soldati sovietici e circa 5.000 carri armati invadono la Cecoslovacchia, soffocando la "Primavera di Praga". Quella notte aprì una ferita lunga più di vent'anni.
Ribelli e rivoluzionari - MEDEA
Henri Klagmann, Medea, 1868, Nancy, Musée des Beaux-Arts.
Oggi parliamo di un personaggio assoluto, estremo, il cui atto di ribellione si compie in un gesto indicibile, il più mostruoso dei delitti, che nessuna legge, né umana né divina, potrà mai giustificare: l'uccisione dei propri figli. Medea è il personaggio tragico per eccellenza, che vive conflitti insanabili: è una maga barbara che proviene da una civiltà arcaica e che non riesce ad integrarsi nell'universo razionale di Corinto, dove le donne vivono una condizione di totale sottomissione all’uomo. Quella di Medea è una condizione di emarginazione, guardata da tutti con sospetto per via del suo essere straniera e dotata dell’oscura e potente sapienza della magia, condannata alla solitudine e all’esilio spirituale. Ma in questa tragedia di Euripide non esplodono solo conflitti tra personaggi diversi e diverse visioni del mondo. Per la prima volta nella storia della tragedia greca, il conflitto si dibatte entro un animo solo: è lei Medea che da sola si dilania tra sentimenti opposti, lacerata tra razionalità e passione, tra l’amore dei suoi figli e il suo desiderio di vendetta e di riscatto dell’oltraggio subito e dell’onore violato.
Oggi parliamo di un personaggio assoluto, estremo, il cui atto di ribellione si compie in un gesto indicibile, il più mostruoso dei delitti, che nessuna legge, né umana né divina, potrà mai giustificare: l'uccisione dei propri figli. Medea è il personaggio tragico per eccellenza, che vive conflitti insanabili: è una maga barbara che proviene da una civiltà arcaica e che non riesce ad integrarsi nell'universo razionale di Corinto, dove le donne vivono una condizione di totale sottomissione all’uomo. Quella di Medea è una condizione di emarginazione, guardata da tutti con sospetto per via del suo essere straniera e dotata dell’oscura e potente sapienza della magia, condannata alla solitudine e all’esilio spirituale. Ma in questa tragedia di Euripide non esplodono solo conflitti tra personaggi diversi e diverse visioni del mondo. Per la prima volta nella storia della tragedia greca, il conflitto si dibatte entro un animo solo: è lei Medea che da sola si dilania tra sentimenti opposti, lacerata tra razionalità e passione, tra l’amore dei suoi figli e il suo desiderio di vendetta e di riscatto dell’oltraggio subito e dell’onore violato.
Ribelli e rivoluzionari - THICH QUANG DUC: THE BURNING MONK
Malcolm Browne, “The Burning Monk”, 11 giugno 1963, Saigon, Vietnam.
E' il 10 giugno 1963 nella città di Saigon, Vietnam del Sud. Intorno alle nove di mattina, un'auto azzurra avanza lentamente nella strada, seguita da centinaia di monaci e monache buddhisti che marciano insieme. Recano cartelli, scritti in vietnamita e in inglese, che inneggiano all'uguaglianza religiosa. Ad un incrocio, l'auto si ferma. Un cuscino da meditazione viene posato sull'asfalto e un monaco vi si siede nella posizione del loto. Medita e recita il mantra del Buddha Amitābha, sgranando i grani di legno dell'Akṣamālā. Dopo un po' si avvicina un altro monaco. Reca una tanica piena di benzina. La solleva sul capo del suo confratello e comincia a versargliela su tutto il corpo. Passano ancora lunghi secondi. Poi il monaco seduto avvampa in una grande fiamma mossa dal vento, un enorme fiore di loto dai lunghi petali di fuoco. Nel cuore del rogo, l'uomo non si scompone.
E' il 10 giugno 1963 nella città di Saigon, Vietnam del Sud. Intorno alle nove di mattina, un'auto azzurra avanza lentamente nella strada, seguita da centinaia di monaci e monache buddhisti che marciano insieme. Recano cartelli, scritti in vietnamita e in inglese, che inneggiano all'uguaglianza religiosa. Ad un incrocio, l'auto si ferma. Un cuscino da meditazione viene posato sull'asfalto e un monaco vi si siede nella posizione del loto. Medita e recita il mantra del Buddha Amitābha, sgranando i grani di legno dell'Akṣamālā. Dopo un po' si avvicina un altro monaco. Reca una tanica piena di benzina. La solleva sul capo del suo confratello e comincia a versargliela su tutto il corpo. Passano ancora lunghi secondi. Poi il monaco seduto avvampa in una grande fiamma mossa dal vento, un enorme fiore di loto dai lunghi petali di fuoco. Nel cuore del rogo, l'uomo non si scompone.
Ribelli e rivoluzionari - SISIFO
Tiziano Vecellio, Sisifo, 1548 circa, Madrid, Museo del Prado.
Nell'oscurità degli inferi, un uomo sale lentamente verso la cima di un monte. Arranca curvo, con i muscoli tesi, i piedi ad ogni passo si puntano sulla roccia, le braccia muscolose sono piegate e spingono un enorme macigno. Tra orrendi spasmi, è riuscito a issare il masso sulla cima della montagna, ma, come attratto da una forza misteriosa, esso torna indietro rotolando velocemente giù per il pendio, fino ai piedi dell'altura. E allora l'uomo si raddrizza sulle gambe e ridiscende. Protende le braccia sul macigno e ricomincia a spingerlo piano, tra spasmi e sudori, su per il monte. E ogni volta la storia si ripete uguale, senza fine. Questo è il castigo eterno di Sisifo, così come descritto da Omero, perché egli ha osato ribellarsi agli dei.
Sisifo incarna un gesto di ribellione particolare. Figlio del dio Eolo, fu saggio e prudente per alcuni, scaltro e un po' brigante per altri. Fonda e governa la città di Corinto e, per dare alla sua città una fonte d'acqua perenne, rivela ad Asopo, dio dei fiumi, che la figlia Egina è stata rapita da Zeus. Per punirlo dello sgarbo, il padre degli dei gli invia Thanatos, la morte, per condurlo nell'oscura voragine del Tartaro. Ma Sisifo è forte ed astuto. Prima riesce a farlo ubriacare e poi lo lega con delle catene. Ha sconfitto la morte con la forza dei suoi muscoli e con la sua scaltrezza e sulla terra non perisce più nessuno. Ares, il dio della guerra, è furioso: sui campi di battaglia non muore neanche un soldato. Così interviene per liberare Thanatos, che riesce a trascinare Sisifo nel Tartaro. Ma l'astuzia dell'eroe non ha limiti. Prima di andare, Sisifo comanda alla moglie di non dargli gli onori della sepoltura, cosa inaccettabile anche per gli dei degli Inferi. Così Sisifo ottiene il permesso di ritornare sulla terra per tre giorni per imporre alla moglie di eseguire i riti funebri, ma una volta riemerso nel mondo dei vivi, non tiene fede ai patti. Quando la morte ritornerà a prenderlo, alla fine dei suoi giorni, Sisifo ritornerà nel Tartaro, dove sarà sottoposto alla terribile punizione di Zeus: spingere fino alla cima di un monte un grosso macigno, il quale, raggiunta la vetta, rotola immancabilmente giù. E Sisifo deve cominciare la sua fatica da capo.
Anche Sisifo, come Prometeo, osa sfidare la legge degli dei, ma non certo in nome di un ideale, di una causa giusta, come era stato per colui che aveva donato il fuoco all'umanità. La sua ribellione alla volontà di Zeus è dovuta soltanto al suo attaccamento alla vita terrena. Sisifo è l'eroe che si ribella alla morte.
La punizione di Sisifo è il castigo del non-senso, la pena dell'assurdo. E proprio con il sottotitolo "Saggio sull'assurdo", il filosofo e scrittore francese Albert Camus pubblica il suo libro "Il mito di Sisifo" (1942). La vita vale o non vale la pena di essere vissuta? E' questo il vero problema della filosofia. Per Camus la vita è come il castigo di Sisifo: l'uomo si affanna a costruire opere e a cercare una ragione e uno scopo in ciò che fa, ma il tempo corrode tutto e alla fine l'unico esito è sempre la morte. La dimensione costitutiva e più peculiare dell'esistenza umana è l'assurdità: le cose e gli eventi non hanno alcun senso. La giusta risposta di fronte a tale assurdo è la non-rassegnazione, anzi la rivolta (uno dei concetti-chiave della filosofia di Camus). Contro l'insensatezza del mondo l'uomo può e deve avere il coraggio di reagire levando alta la sua voce, la sua protesta; solo ribellandosi, l'esistenza può acquistare un suo significato. In un'opera successiva, "L'uomo in rivolta", con la frase " mi rivolto, dunque siamo ", Camus stravolgerà completamente il "cogito ergo sum" cartesiano.
Questo dipinto di Tiziano raffigura, nell’oscurità della voragine infernale, la fatica del corpo di Sisifo che sconta la sua pena. Il dipinto in esame fa parte della serie di tele che Tiziano realizzò tra il 1548 e il 1549, raffiguranti i quattro ribelli del mito, puniti eternamente nell'Ade: Issione, Tantalo, Tizio e Sisifo. I dipinti erano stati commissionati a Tiziano dalla regina Maria d'Ungheria, sorella dell'imperatore Carlo V, con l’intento di associare ai quattro soggetti delle tele i principi tedeschi che si erano sollevati contro suo fratello, che li aveva sconfitti un anno prima a Mülhberg.
Di queste quattro opere, soltanto due sono sopravvissute, il Tizio e il Sisifo, che attualmente si conservano presso il Museo del Prado di Madrid.
Dal tardo XVI secolo e per tutto il Barocco, questi soggetti saranno molto amati dai pittori che, dipingendo quei corpi nudi dall’anatomia in estrema tensione, dimostravano tutta la loro maestria realizzando le monumentali figure nude, ritratte in scorci complessi e in atteggiamenti sofferenti, tipici della sensibilità barocca.
Questo dipinto mostra bene quelle che sono le caratteristiche tecniche principali dello stile di Tiziano, dove protagonista assoluto è il colore. La scoperta dei pittori veneti consisteva nell'utilizzare come mezzo rappresentativo solo il colore o prevalentemente il colore. Tale scoperta prese il nome di Tonalismo . E' la gradazione di tonalità coloristiche ciò che suggerisce rilievo e atmosfera e plasma le immagini. Più che al disegno, che Tiziano considerava solo uno schema, sono la luce e il colore gli elementi che danno forza espressiva all'opera.
Questa in basso è invece l'interpretazione del mito che ne diede il pittore simbolista Franz Von Stuck, caratterizzata da un'atmosfera densa di mistero e di cupa visionarietà.
Nell'oscurità degli inferi, un uomo sale lentamente verso la cima di un monte. Arranca curvo, con i muscoli tesi, i piedi ad ogni passo si puntano sulla roccia, le braccia muscolose sono piegate e spingono un enorme macigno. Tra orrendi spasmi, è riuscito a issare il masso sulla cima della montagna, ma, come attratto da una forza misteriosa, esso torna indietro rotolando velocemente giù per il pendio, fino ai piedi dell'altura. E allora l'uomo si raddrizza sulle gambe e ridiscende. Protende le braccia sul macigno e ricomincia a spingerlo piano, tra spasmi e sudori, su per il monte. E ogni volta la storia si ripete uguale, senza fine. Questo è il castigo eterno di Sisifo, così come descritto da Omero, perché egli ha osato ribellarsi agli dei.
Sisifo incarna un gesto di ribellione particolare. Figlio del dio Eolo, fu saggio e prudente per alcuni, scaltro e un po' brigante per altri. Fonda e governa la città di Corinto e, per dare alla sua città una fonte d'acqua perenne, rivela ad Asopo, dio dei fiumi, che la figlia Egina è stata rapita da Zeus. Per punirlo dello sgarbo, il padre degli dei gli invia Thanatos, la morte, per condurlo nell'oscura voragine del Tartaro. Ma Sisifo è forte ed astuto. Prima riesce a farlo ubriacare e poi lo lega con delle catene. Ha sconfitto la morte con la forza dei suoi muscoli e con la sua scaltrezza e sulla terra non perisce più nessuno. Ares, il dio della guerra, è furioso: sui campi di battaglia non muore neanche un soldato. Così interviene per liberare Thanatos, che riesce a trascinare Sisifo nel Tartaro. Ma l'astuzia dell'eroe non ha limiti. Prima di andare, Sisifo comanda alla moglie di non dargli gli onori della sepoltura, cosa inaccettabile anche per gli dei degli Inferi. Così Sisifo ottiene il permesso di ritornare sulla terra per tre giorni per imporre alla moglie di eseguire i riti funebri, ma una volta riemerso nel mondo dei vivi, non tiene fede ai patti. Quando la morte ritornerà a prenderlo, alla fine dei suoi giorni, Sisifo ritornerà nel Tartaro, dove sarà sottoposto alla terribile punizione di Zeus: spingere fino alla cima di un monte un grosso macigno, il quale, raggiunta la vetta, rotola immancabilmente giù. E Sisifo deve cominciare la sua fatica da capo.
Anche Sisifo, come Prometeo, osa sfidare la legge degli dei, ma non certo in nome di un ideale, di una causa giusta, come era stato per colui che aveva donato il fuoco all'umanità. La sua ribellione alla volontà di Zeus è dovuta soltanto al suo attaccamento alla vita terrena. Sisifo è l'eroe che si ribella alla morte.
La punizione di Sisifo è il castigo del non-senso, la pena dell'assurdo. E proprio con il sottotitolo "Saggio sull'assurdo", il filosofo e scrittore francese Albert Camus pubblica il suo libro "Il mito di Sisifo" (1942). La vita vale o non vale la pena di essere vissuta? E' questo il vero problema della filosofia. Per Camus la vita è come il castigo di Sisifo: l'uomo si affanna a costruire opere e a cercare una ragione e uno scopo in ciò che fa, ma il tempo corrode tutto e alla fine l'unico esito è sempre la morte. La dimensione costitutiva e più peculiare dell'esistenza umana è l'assurdità: le cose e gli eventi non hanno alcun senso. La giusta risposta di fronte a tale assurdo è la non-rassegnazione, anzi la rivolta (uno dei concetti-chiave della filosofia di Camus). Contro l'insensatezza del mondo l'uomo può e deve avere il coraggio di reagire levando alta la sua voce, la sua protesta; solo ribellandosi, l'esistenza può acquistare un suo significato. In un'opera successiva, "L'uomo in rivolta", con la frase " mi rivolto, dunque siamo ", Camus stravolgerà completamente il "cogito ergo sum" cartesiano.
Questo dipinto di Tiziano raffigura, nell’oscurità della voragine infernale, la fatica del corpo di Sisifo che sconta la sua pena. Il dipinto in esame fa parte della serie di tele che Tiziano realizzò tra il 1548 e il 1549, raffiguranti i quattro ribelli del mito, puniti eternamente nell'Ade: Issione, Tantalo, Tizio e Sisifo. I dipinti erano stati commissionati a Tiziano dalla regina Maria d'Ungheria, sorella dell'imperatore Carlo V, con l’intento di associare ai quattro soggetti delle tele i principi tedeschi che si erano sollevati contro suo fratello, che li aveva sconfitti un anno prima a Mülhberg.
Di queste quattro opere, soltanto due sono sopravvissute, il Tizio e il Sisifo, che attualmente si conservano presso il Museo del Prado di Madrid.
Dal tardo XVI secolo e per tutto il Barocco, questi soggetti saranno molto amati dai pittori che, dipingendo quei corpi nudi dall’anatomia in estrema tensione, dimostravano tutta la loro maestria realizzando le monumentali figure nude, ritratte in scorci complessi e in atteggiamenti sofferenti, tipici della sensibilità barocca.
Questo dipinto mostra bene quelle che sono le caratteristiche tecniche principali dello stile di Tiziano, dove protagonista assoluto è il colore. La scoperta dei pittori veneti consisteva nell'utilizzare come mezzo rappresentativo solo il colore o prevalentemente il colore. Tale scoperta prese il nome di Tonalismo . E' la gradazione di tonalità coloristiche ciò che suggerisce rilievo e atmosfera e plasma le immagini. Più che al disegno, che Tiziano considerava solo uno schema, sono la luce e il colore gli elementi che danno forza espressiva all'opera.
Questa in basso è invece l'interpretazione del mito che ne diede il pittore simbolista Franz Von Stuck, caratterizzata da un'atmosfera densa di mistero e di cupa visionarietà.
Franz Von Stuck, Sisifo, 1920. |
Ribelli e rivoluzionari - JAN ROSE KASMIR: LA FILLE A LA FLEUR
Marc Riboud, Jan Rose Kasmir, Washington, 21 ottobre 1967.
Jan Rose Kasmir è una ragazza di 17 anni. Vive nel Maryland e frequenta la scuola. Quella mattina del 21 ottobre 1967 prende l'autobus, ma non per andare a seguire le lezioni. Quel giorno si terranno decine di manifestazioni, in molte parti del mondo, per protestare contro la guerra nel Vietnam, una guerra assurda, in un paese lontano, dal quale molti giovani americani tornano feriti, mutilati o in una cassa di legno. E' priva di senso quella guerra che si vede in tv, che entra nelle case con un orrore senza fine. Quella mattina Jan Rose deve andare a gridare il suo "no" contro quella carneficina.
Il luogo della protesta è a Washington, davanti al Lincoln Memorial. Una protesta pacifica: si sfila, si sollevano i cartelli e gli striscioni, si gridano gli slogan, si canta. Ci sono tante bandiere colorate. Sul palco si alternano discorsi e musica. Sono in 100.000, quella mattina nel West Potomac Park, la maggior parte giovani studenti. Il loro grido è un deciso "no" alla guerra. Jan Rose è una dei tanti, persa nella folla. Ha i capelli tagliati corti, indossa un abito a fiori e l'entusiasmo ribelle della sua giovinezza. Molti dei suoi amici hanno ricevuto la cartolina di chiamata alle armi. La portano con sé nelle tasche. Un pezzo di carta che pesa come un macigno.
Jan Rose Kasmir è una ragazza di 17 anni. Vive nel Maryland e frequenta la scuola. Quella mattina del 21 ottobre 1967 prende l'autobus, ma non per andare a seguire le lezioni. Quel giorno si terranno decine di manifestazioni, in molte parti del mondo, per protestare contro la guerra nel Vietnam, una guerra assurda, in un paese lontano, dal quale molti giovani americani tornano feriti, mutilati o in una cassa di legno. E' priva di senso quella guerra che si vede in tv, che entra nelle case con un orrore senza fine. Quella mattina Jan Rose deve andare a gridare il suo "no" contro quella carneficina.
Il luogo della protesta è a Washington, davanti al Lincoln Memorial. Una protesta pacifica: si sfila, si sollevano i cartelli e gli striscioni, si gridano gli slogan, si canta. Ci sono tante bandiere colorate. Sul palco si alternano discorsi e musica. Sono in 100.000, quella mattina nel West Potomac Park, la maggior parte giovani studenti. Il loro grido è un deciso "no" alla guerra. Jan Rose è una dei tanti, persa nella folla. Ha i capelli tagliati corti, indossa un abito a fiori e l'entusiasmo ribelle della sua giovinezza. Molti dei suoi amici hanno ricevuto la cartolina di chiamata alle armi. La portano con sé nelle tasche. Un pezzo di carta che pesa come un macigno.
Ribelli e rivoluzionari - BACI RIBELLI
Marco Bertorello, Manifestazione in Val di Susa, Novembre 2013.
Prima di leggere, guardate questa foto. Cosa vedete? Cosa vi comunica?
In questa immagine vediamo una ragazza che abbraccia e bacia con trasporto un poliziotto, anch'egli molto giovane, o meglio la visiera in plexiglass del suo casco. Bastano due elementi per capire immediatamente che il contesto non è pacifico, ma è quello di una contrapposizione tesa tra due schieramenti: i poliziotti sono schierati e indossano la divisa antisommossa, con casco a visiera calata. Dalla parte opposta una ragazza sola, a viso scoperto, senza nessun segno particolare o accessori di abbigliamento che denotino l'appartenenza a qualche gruppo radicale, a parte un piccolo orecchino collocato in una parte insolita dell'orecchio, ma oggigiorno del tutto insignificante. Anzi, il suo aspetto è quello della ragazza comune, innocua, la prima della classe con gli occhiali, le mani da bambina, che si spinge a un gesto temerario, baciando a occhi chiusi e con labbra sensuali un ragazzo, anche lui con il viso pulito, da bravo ragazzo. Il suo gesto pare dettato da uno slancio di tenerezza, corrisposto dagli occhi chiusi di lui, che sembra gustarsi quel bacio inaspettato. E' una foto che sembra la cover di quella che ritrae Jan Rose Kasmir mentre fronteggia con il suo fiore le baionette della Guardia Nazionale a Washington. Ma, mentre in quella foto si era portati immediatamente a simpatizzare per una parte sola, cioè la ragazza, l'unica perfettamente riconoscibile, personificazione della pace e dell'amore contrapposte all'orrore e alla violenza delle armi spianate, qui l'impressione che si ricava è quella della riconciliazione reciproca, della tensione riappacificata, del "facciamo l'amore, non facciamo la guerra".
Prima di leggere, guardate questa foto. Cosa vedete? Cosa vi comunica?
In questa immagine vediamo una ragazza che abbraccia e bacia con trasporto un poliziotto, anch'egli molto giovane, o meglio la visiera in plexiglass del suo casco. Bastano due elementi per capire immediatamente che il contesto non è pacifico, ma è quello di una contrapposizione tesa tra due schieramenti: i poliziotti sono schierati e indossano la divisa antisommossa, con casco a visiera calata. Dalla parte opposta una ragazza sola, a viso scoperto, senza nessun segno particolare o accessori di abbigliamento che denotino l'appartenenza a qualche gruppo radicale, a parte un piccolo orecchino collocato in una parte insolita dell'orecchio, ma oggigiorno del tutto insignificante. Anzi, il suo aspetto è quello della ragazza comune, innocua, la prima della classe con gli occhiali, le mani da bambina, che si spinge a un gesto temerario, baciando a occhi chiusi e con labbra sensuali un ragazzo, anche lui con il viso pulito, da bravo ragazzo. Il suo gesto pare dettato da uno slancio di tenerezza, corrisposto dagli occhi chiusi di lui, che sembra gustarsi quel bacio inaspettato. E' una foto che sembra la cover di quella che ritrae Jan Rose Kasmir mentre fronteggia con il suo fiore le baionette della Guardia Nazionale a Washington. Ma, mentre in quella foto si era portati immediatamente a simpatizzare per una parte sola, cioè la ragazza, l'unica perfettamente riconoscibile, personificazione della pace e dell'amore contrapposte all'orrore e alla violenza delle armi spianate, qui l'impressione che si ricava è quella della riconciliazione reciproca, della tensione riappacificata, del "facciamo l'amore, non facciamo la guerra".
Ribelli e rivoluzionari - ROCK: MUSICA RIBELLE
Jim Marshall, Jimi Hendrix brucia la chitarra al Monterey Festival, 1967.
Il rock è stata la grande rivoluzione musicale del dopoguerra, esso stesso simbolo di ribellione per le giovani generazioni.
Questo nuovo genere di musica popolare nasce dall’incontro tra il rhythm and blues dei neri e il country and western dei bianchi, con influenze jazz, blues, boogie-woogie, folk e gospel. L’anno a cui si fa risalire l’origine del nuovo stile è il 1954, quando entrano in uno studio di registrazione Bill Haley, che incide Rock Around the Clock, ed Elvis Presley.
In quegli anni si parla di rock and roll. Le due parole indicano il ritmo della musica e un sottinteso erotico derivante dal blues. Alla sua base, infatti, vi è il blues delle piantagioni e soprattutto quello urbano, che nasce nei ghetti neri delle grandi città americane.
Il rock è stata la grande rivoluzione musicale del dopoguerra, esso stesso simbolo di ribellione per le giovani generazioni.
Questo nuovo genere di musica popolare nasce dall’incontro tra il rhythm and blues dei neri e il country and western dei bianchi, con influenze jazz, blues, boogie-woogie, folk e gospel. L’anno a cui si fa risalire l’origine del nuovo stile è il 1954, quando entrano in uno studio di registrazione Bill Haley, che incide Rock Around the Clock, ed Elvis Presley.
In quegli anni si parla di rock and roll. Le due parole indicano il ritmo della musica e un sottinteso erotico derivante dal blues. Alla sua base, infatti, vi è il blues delle piantagioni e soprattutto quello urbano, che nasce nei ghetti neri delle grandi città americane.
Ribelli e rivoluzionari - SOCRATE
Jacques Louis David, La morte di Socrate, 1787, Metropolitan Museum of Art, New York.
Fin qui abbiamo seguito due sentieri paralleli, dei quali uno si snoda attraverso i miti dell’antichità passati in rassegna tramite alcune interpretazioni pittoriche e l’altro invece attraversa il Novecento, con i suoi personaggi o fenomeni rivoluzionari testimoniati da foto famose.
Su questo duplice percorso, d’ora in poi innesteremo altre derivazioni. In particolare apriamo oggi una piccola rassegna di personaggi storici che, dall’antichità ai nostri giorni, hanno elaborato un messaggio o intrapreso un’azione rivoluzionari, e anche di alcuni eventi storici di tal portata, attraverso il ricorso ad immagini pittoriche. Voglio cominciare da un personaggio che non si è mai ribellato alle leggi, che anzi è morto per continuare a rispettarle fino alla fine e che tuttavia, con la sua vita e il suo pensiero, ha avuto un’influenza rivoluzionaria su tutto il pensiero occidentale: Socrate, il filosofo ateniese del V secolo a.C., che non ha lasciato neanche una parola scritta e ha affidato il suo messaggio esclusivamente all’oralità. Quali sono le novità rivoluzionarie di Socrate? In maniera molto schematica, e con la consapevolezza che non tutti gli studiosi sono concordi, indichiamo quelle fondamentali:
Fin qui abbiamo seguito due sentieri paralleli, dei quali uno si snoda attraverso i miti dell’antichità passati in rassegna tramite alcune interpretazioni pittoriche e l’altro invece attraversa il Novecento, con i suoi personaggi o fenomeni rivoluzionari testimoniati da foto famose.
Su questo duplice percorso, d’ora in poi innesteremo altre derivazioni. In particolare apriamo oggi una piccola rassegna di personaggi storici che, dall’antichità ai nostri giorni, hanno elaborato un messaggio o intrapreso un’azione rivoluzionari, e anche di alcuni eventi storici di tal portata, attraverso il ricorso ad immagini pittoriche. Voglio cominciare da un personaggio che non si è mai ribellato alle leggi, che anzi è morto per continuare a rispettarle fino alla fine e che tuttavia, con la sua vita e il suo pensiero, ha avuto un’influenza rivoluzionaria su tutto il pensiero occidentale: Socrate, il filosofo ateniese del V secolo a.C., che non ha lasciato neanche una parola scritta e ha affidato il suo messaggio esclusivamente all’oralità. Quali sono le novità rivoluzionarie di Socrate? In maniera molto schematica, e con la consapevolezza che non tutti gli studiosi sono concordi, indichiamo quelle fondamentali:
Ribelli e rivoluzionari - LA MARIANNA DEL MAGGIO FRANCESE
Jean-Pierre Rey, La Marianne de Mai 68, Francia, 1968.
Ai giorni nostri la parola “rivoluzione”, abituati come siamo a sentirla snocciolata continuamente (soprattutto nei messaggi pubblicitari che ogni giorno lanciano il prodotto in grado di rivoluzionare il nostro stile di vita,) ha perso ogni potere destabilizzante. Al massimo ci aspettiamo la rivoluzione che opererà il lancio sul mercato di uno smartphone di nuova generazione. Ma meno di cinquanta anni fa, alcuni paesi europei credettero di essere davvero a un passo da un capovolgimento radicale e del modo di vivere e delle istituzioni. Quel termine affascinò e mobilitò un’intera generazione, che visse un periodo storico senza precedenti: il Sessantotto. La Francia, in particolare, conobbe una stagione particolarmente calda, passata alla storia come il “maggio francese”, una crisi sociale e politica avviata dalla contestazione studentesca a Parigi, ma che vide una inedita compartecipazione di studenti e operai e che portò il paese di De Gaulle sull’orlo di una autentica Rivoluzione.
Ai giorni nostri la parola “rivoluzione”, abituati come siamo a sentirla snocciolata continuamente (soprattutto nei messaggi pubblicitari che ogni giorno lanciano il prodotto in grado di rivoluzionare il nostro stile di vita,) ha perso ogni potere destabilizzante. Al massimo ci aspettiamo la rivoluzione che opererà il lancio sul mercato di uno smartphone di nuova generazione. Ma meno di cinquanta anni fa, alcuni paesi europei credettero di essere davvero a un passo da un capovolgimento radicale e del modo di vivere e delle istituzioni. Quel termine affascinò e mobilitò un’intera generazione, che visse un periodo storico senza precedenti: il Sessantotto. La Francia, in particolare, conobbe una stagione particolarmente calda, passata alla storia come il “maggio francese”, una crisi sociale e politica avviata dalla contestazione studentesca a Parigi, ma che vide una inedita compartecipazione di studenti e operai e che portò il paese di De Gaulle sull’orlo di una autentica Rivoluzione.
L'iconografia di Gesù tra Oriente e Occidente
Cristo Pantocratore nella Cappella Palatina di Palazzo dei Normanni a Palermo. |
Gesù, inteso qui solo come personaggio storico, fu un rivoluzionario? Il suo messaggio di sicuro lo fu. Esporrò solo le ragioni che ritengo più significative:
- Il nuovo comandamento. Gesù capovolge la tradizione e la prospettiva giuridico-legalistica della religione giudaica, introducendo un elemento assolutamente nuovo: l'amore incondizionato per il prossimo e addirittura per i nemici diventa il basilare paradigma che sostituisce la cieca osservanza della Legge. La salvezza non appartiene a chi osserva semplicemente i comandamenti, benché lo faccia con scrupolo e devozione, ma solo a chi apre interamente il suo cuore al bene e all'amore di Dio e del prossimo. Questo comandamento fonda non solo una nuova religione, ma anche una nuova etica universale, costituendo il presupposto al fatto che non ci può essere dominio dell’uomo sull’uomo.
- Il messaggio predicato da Gesù è anticonformista. Nelle sue parabole, il soggetto posto come esempio da imitare è sempre l'altro, il diverso, il nemico addirittura (come nel racconto del buon samaritano). Non è il sacerdote o il fariseo, o il bravo osservante della legge, non è lo scrupoloso esecutore dei comandamenti a suscitare la simpatia di Gesù, che si rivolta spesso contro ogni esteriorità religiosa e contro ogni ipocrisia. Egli sta sempre dalla parte di coloro che sono oggetto di diffidenza se non di aperta discriminazione: i pubblicani, le prostitute, i poveri, i lebbrosi, i malati, i samaritani.
RIBELLIONI ALL'INTERNO DI UNIVERSI CONCENTRAZIONARI
Miloš Forman, "Qualcuno volò sul nido del cuculo" (One flew over the cuckoo's nest), 1975. |
A partire dagli anni Trenta si costruisce nel cinema un archetipo narrativo basato sull'idea di ribellione giovanile all'interno di un universo collettivo e concentrazionario (la scuola, il college, il collegio religioso, la caserma, il carcere, l'ospedale psichiatrico). In questo universo identificabile con un luogo o un'istituzione, è sempre il singolo individuo a contrapporsi, a lottare o a fuggire, separandosi dal resto della collettività.
A parte alcuni titoli, in cui il finale del film termina con la fuga (ad esempio Fuga di Mezzanotte di Alan Parker oppure Le ali della libertà di Darabont), il destino che attende il ribelle è un destino tragico: il ritorno alla normalità, oppure quello di soccombere o di essere strumentalizzato da altri.
lunedì 25 luglio 2016
Ribelli e rivoluzionari - GLI ANNI DI PIOMBO
Paolo Pedrizzetti, 14 maggio 1977, via De Amicis (Milano).
Questa foto, scattata il 14 maggio 1977 a Milano, in via De Amicis, è entrata nell’immaginario collettivo come icona degli anni di piombo: il ritratto di un dimostrante con il volto coperto da un passamontagna, le gambe divaricate, le ginocchia flesse, mentre impugna una pistola a braccia tese.
Autore della foto è Paolo Pedrizzetti, allora studente di Architettura al Politecnico di Milano e fotografo freelance, che quel giorno è lì con la sua macchina fotografica in via De Amicis quando scoppiano gli scontri. Riparatosi su un lato della via, nell'androne di un palazzo, scatta la celebre foto dell’autonomo che, tenendo la pistola con le mani unite, fa fuoco contro la polizia. La foto viene pubblicata il 16 maggio 1977 dal «Corriere d’Informazione», e nei giorni seguenti rimbalza su molti altri giornali, in Italia e all'estero.
Questa foto, scattata il 14 maggio 1977 a Milano, in via De Amicis, è entrata nell’immaginario collettivo come icona degli anni di piombo: il ritratto di un dimostrante con il volto coperto da un passamontagna, le gambe divaricate, le ginocchia flesse, mentre impugna una pistola a braccia tese.
Autore della foto è Paolo Pedrizzetti, allora studente di Architettura al Politecnico di Milano e fotografo freelance, che quel giorno è lì con la sua macchina fotografica in via De Amicis quando scoppiano gli scontri. Riparatosi su un lato della via, nell'androne di un palazzo, scatta la celebre foto dell’autonomo che, tenendo la pistola con le mani unite, fa fuoco contro la polizia. La foto viene pubblicata il 16 maggio 1977 dal «Corriere d’Informazione», e nei giorni seguenti rimbalza su molti altri giornali, in Italia e all'estero.
RIBELLI ALL'INTERNO DI MONDI DISTOPICI
Matrix, regia di Lana e Andy Wachowski, 1999.
Se il termine “utopia” indica il luogo ideale dove tutto è come dovrebbe essere, “distopia” indica proprio il suo contrario. Nelle scienze sociali, in letteratura e nel cinema viene utilizzato soprattutto in riferimento alla rappresentazione di una società ipotetica (spesso ambientata nel futuro) nella quale alcune tendenze sociali, politiche e tecnologiche avvertite nel presente sono portate a estremi negativi. Il futuro distopico è dunque indesiderabile o addirittura terrificante.
Se il termine “utopia” indica il luogo ideale dove tutto è come dovrebbe essere, “distopia” indica proprio il suo contrario. Nelle scienze sociali, in letteratura e nel cinema viene utilizzato soprattutto in riferimento alla rappresentazione di una società ipotetica (spesso ambientata nel futuro) nella quale alcune tendenze sociali, politiche e tecnologiche avvertite nel presente sono portate a estremi negativi. Il futuro distopico è dunque indesiderabile o addirittura terrificante.
Ribelli e rivoluzionari - SPARTACO: LO SCHIAVO CHE SFIDO’ ROMA
Vincenzo Vela, Spartaco, 1847, Museo Vela di Ligornetto.
Se un viandante si fosse avventurato lungo la via Appia, quella mattina del 71 a.C., avrebbe assistito a uno spettacolo agghiacciante: migliaia di croci piantate lungo la strada da Capua a Roma, un percorso di strazio e di morte. Così finiva la gloriosa rivolta dello schiavo Spartaco, che era riuscito a formare un esercito di ribelli e a sfidare la potenza di Roma in nome della libertà. Per anni i viaggiatori furono costretti a vedere le croci a distanza di trenta, quaranta metri, monito orrendo e sigillo del completo ripristino dell’autorità dello Stato.
Se un viandante si fosse avventurato lungo la via Appia, quella mattina del 71 a.C., avrebbe assistito a uno spettacolo agghiacciante: migliaia di croci piantate lungo la strada da Capua a Roma, un percorso di strazio e di morte. Così finiva la gloriosa rivolta dello schiavo Spartaco, che era riuscito a formare un esercito di ribelli e a sfidare la potenza di Roma in nome della libertà. Per anni i viaggiatori furono costretti a vedere le croci a distanza di trenta, quaranta metri, monito orrendo e sigillo del completo ripristino dell’autorità dello Stato.
Ribelli e rivoluzionari - La rivoluzione delle donne
Paola Agosti , Roma, aprile 1977. Manifestazione davanti al Tribunale per il processo ai violentatori di Claudia Caputi.
“Tremate, tremate, le streghe son tornate!”. Negli anni 70 questo era lo slogan dei movimenti femministi. Ma oltre agli slogan, nelle manifestazioni e nei cortei delle donne di quegli anni circolava un gesto, fatto con le mani (pollici e indici congiunti a evocare l’organo sessuale femminile), che ha contribuito a formare l’iconografia e l’immaginario estetico del femminismo. Quel gesto iconico, metaforico, visivamente “violento”, venne adottato trasversalmente da migliaia di donne, di diversi ceti sociali che acquistavano coscienza di sé e si riappropriavano del proprio corpo, liberandolo dalle sovrastrutture che ne avevano fatto un oggetto su cui si esercitava l’autorità di una società maschilista e patriarcale.
Quel gesto ha avuto un’origine europea: apparso per la prima volta ne “Le Torchon Brulé” la rivista femminista militante francese di cui uscirono solo cinque numeri tra il ’71 e il ’73, fu fatto pubblicamente da una donna italiana, Giovanna Pala, durante il convegno femminista della Mutualité a Parigi.
Potente, irriverente, provocatorio è il gesto del sesso, il gesto di liberazione della sessualità femminile, che in questo modo viene resa visibile e politicizzata. E’ il gesto politico che negli anni 70 accompagna le lotte per l’autodeterminazione, l’aborto, la contraccezione, la libertà di decidere del proprio corpo e della propria vita, la scoperta e la rivendicazione del piacere. Perché quel movimento non si limitò a denunciare le discriminazioni di genere e a rivendicare i diritti civili, ma entrò nella sfera privata, all’interno delle famiglie, nelle relazioni tra padri e figlie, mariti e mogli, fratelli e sorelle. Il Femminismo legava insieme la sfera privata e pubblica della donna, mostrando il legame tra il personale e il politico.
Vi immaginate che impatto sconvolgente poteva avere un gesto così scabroso e sovversivo in un’Italia che ancora penalizzava l’adulterio femminile e ammetteva il delitto d'onore, "le pene corporali" dei mariti e dei padri, il matrimonio riparatore, la riduzione della violenza sessuale a reato di oltraggio al pudore?
Quello fu il gesto iconico delle lotte femministe, che affidava alle mani delle donne, non più angeli del focolare, il simbolo dello scandalo. Le dita ribelli annunciavano al mondo che le donne erano padrone: del proprio corpo, della sessualità, della contraccezione. Di nuove relazioni sentimentali e sociali. Di un modo diverso di stare a casa, in fabbrica o all'università. E di un nuovo immaginario che ribaltava logiche patriarcali. Un atto di affermazione di sé che esprimeva al contempo il rifiuto per il ruolo sociale imposto alle donne. Un gesto che voleva dire: “Non siamo mogli, madri e figlie, siamo espressione della nostra autonoma e autodeterminata sessualità”. L’ambizione del gesto femminista è stata molteplice: esporre il corpo in quanto tale, sottraendolo all’invisibilità e alla vergogna, agendo sul piano dell’immagine e della cultura, denunciare come la sessualità della donna fosse il veicolo di rapporti di potere consolidati e liberare le donne dal proprio destino biologico attraverso la riappropriazione della propria sessualità, trasformandola da strumento di soggezione in uno spazio di possibilità.
Come scrivono Ilaria Bussoni e Raffaella Perna ne “Il gesto femminista. La rivolta delle donne nel corpo, nel lavoro, nell’arte” (DeriveApprodi, 2014):“Un gesto che, così come compare, in una genealogia incerta, poi scompare(…) Sembra durare circa un decennio: i Settanta. Spunta insieme ai movimenti delle donne, al femminismo. Insieme alla pillola anticoncezionale, ai consultori, allo speculum, al divorzio, all’aborto, ai processi per stupro, dopo le minigonne forse insieme agli zoccoli. Va a mettersi tra uomini e donne, tra marito e moglie, tra compagno e compagna, anche tra donna e donna. All’incrocio di relazioni amorose, affettive, familiari. Di rapporti di potere, di gerarchie, di forme di subordinazione. Di rapporti di produzione e di riproduzione”.
Il Femminismo fu anche un movimento culturale e artistico, che coinvolse la letteratura, il teatro, la fotografia, anche se non è possibile inquadrarlo in alcuni stilemi precisi, come potrebbero esserlo il Cubismo o il Dadaismo. Quello che unisce queste artiste è una coscienza collettiva, e una delle conquiste più importanti dell'avanguardia femminista fu quella di decostruire, attraverso questa consapevolezza collettiva che le univa, l'immagine della donna. Un'immagine che nei secoli era stata investita di proiezioni, stereotipi, nostalgia e desideri maschili, in parte anche grazie agli artisti. L'avanguardia femminista riuscì a dissolvere questo rapporto a senso unico tra soggetto e oggetto in una molteplicità di identità e di costruzioni identitarie.
Se fino al dopoguerra il movimento femminista era stato soprattutto un movimento di “emancipazione” (rivendicazione del diritto al voto, al lavoro, alla parità salariale), il movimento che prende vita con le grandi contestazioni del ’68 va al di là e si propone di essere un movimento di “liberazione”. Non si trattava semplicemente di avanzare delle rivendicazioni, ma di mettere in discussione i ruoli di genere accettati e consolidati da secoli, i diritti civili, il diritto all’autodeterminazione della persona.
Nel 1970 nascono i primi collettivi femministi, all’interno dei gruppi che facevano parte del cosiddetto “Movimento Studentesco”. Nel 1972 i collettivi delle donne crescono e si moltiplicano in tutta la penisola. C’è il “Movimento Liberazione Donna“ (M.L.D.), c’è il “Fronte Liberazione Donna“, che nasce all’interno dei sindacati, c’è “Rivolta Femminile“, un gruppo teorico a cui aderiscono donne avvocato per studiare la riforma delle vecchie leggi e le proposte di leggi nuove. Viene coniata l’espressione: “Il privato è politico”.
In quegli anni si cominciò a pensare di riscrivere alcune vecchie leggi che risalivano ai primi anni del fascismo, e questo portò alla approvazione del nuovo diritto di famiglia, avvenuta nel 1975. In seguito sarebbe stata cancellata dal codice penale l’attenuante per delitti d’onore, e sarebbe cessato l’obbligo per le ragazze minorenni di accettare il “matrimonio riparatore“.
Nel 1974 non passò il referendum per abrogare la legge sul divorzio entrata in vigore nel 1970, mentre molto più travagliata e sofferta fu la legge per la legalizzazione dell’aborto, che era già in vigore in altri stati europei.
L’ultima legge proposta dai movimenti delle donne fu quella sulla violenza sessuale, nel 1980. Il vecchio codice Rocco qualificava lo stupro come semplice “offesa al pudore“, e quindi non perseguibile in sede penale. Ma lo stupro è reato contro la persona, e come tale doveva essere riconosciuto.
Tuttavia questa battaglia fu più difficile delle precedenti, anche perché il Movimento aveva ormai perso la sua spinta propulsiva ed era venuto man mano disgregandosi. La mancanza di una vera pressione femminile permise al parlamento di accantonare la legge sulla violenza sessuale, che fu poi approvata solo nel 1996.
Oggi quel gesto è sicuramente inattuale, privo di significato. I corpi delle donne hanno ormai perso il loro potenziale irriverente, sovversivo, rivoluzionario. Eppure proprio di recente sono esplosi dei movimenti femministi che ricorrono al corpo come strumento di provocazione e di lotta. FEMEN, movimento femminista di protesta ucraino fondato a Kiev nel 2008, è infatti divenuto famoso, su scala internazionale, per la pratica di manifestare mostrando i seni contro il turismo sessuale, il sessismo e altre discriminazioni sociali. FEMEN ha giustificato i suoi metodi provocatori affermando "che è l'unico modo per essere ascoltati in questo paese. Se avessimo manifestato con il solo ausilio di cartelloni le nostre richieste non sarebbero state nemmeno notate". In Russia è attivo il gruppo delle Pussy Riot (Pussy è un termine equivocabile in quanto significa micio e, nello slang anglosassone, indica l'organo sessuale femminile). Il gruppo agisce soprattutto a Mosca, città che fa da palcoscenico ai flash mob e alle performance estemporanee attraverso cui il gruppo dà espressione a provocazioni politiche nei confronti dell'establishment politico e istituzionale, su argomenti come la situazione delle donne in Russia, o, più recentemente, contro la campagna, e i presunti brogli elettorali, con cui, nel 2012, il primo ministro Vladimir Putin si sarebbe assicurato la rielezione per la seconda volta a presidente della Russia.
In Italia non sono attivi movimenti femministi, ma i temi delle relazioni tra generi, della dignità della donna come persona a prescindere dai ruoli sono ancora attuali. Lo dicono le statistiche dei reati di violenza sulle donne e di femminicidio. Quello femminista degli anni 70 era un gesto muto, senza voce, ma fatto nelle piazze insieme a tante altre donne. Oggi molte donne rimangono sole nelle proprie case, case che spesso si trasformano in trappole mortali, nelle quali il grido delle donne rimane inascoltato.
A questo link il filmato di un corteo femminista degli anni Settanta.
https://www.youtube.com/watch?v=S1E65SqPchA
“Tremate, tremate, le streghe son tornate!”. Negli anni 70 questo era lo slogan dei movimenti femministi. Ma oltre agli slogan, nelle manifestazioni e nei cortei delle donne di quegli anni circolava un gesto, fatto con le mani (pollici e indici congiunti a evocare l’organo sessuale femminile), che ha contribuito a formare l’iconografia e l’immaginario estetico del femminismo. Quel gesto iconico, metaforico, visivamente “violento”, venne adottato trasversalmente da migliaia di donne, di diversi ceti sociali che acquistavano coscienza di sé e si riappropriavano del proprio corpo, liberandolo dalle sovrastrutture che ne avevano fatto un oggetto su cui si esercitava l’autorità di una società maschilista e patriarcale.
Quel gesto ha avuto un’origine europea: apparso per la prima volta ne “Le Torchon Brulé” la rivista femminista militante francese di cui uscirono solo cinque numeri tra il ’71 e il ’73, fu fatto pubblicamente da una donna italiana, Giovanna Pala, durante il convegno femminista della Mutualité a Parigi.
Potente, irriverente, provocatorio è il gesto del sesso, il gesto di liberazione della sessualità femminile, che in questo modo viene resa visibile e politicizzata. E’ il gesto politico che negli anni 70 accompagna le lotte per l’autodeterminazione, l’aborto, la contraccezione, la libertà di decidere del proprio corpo e della propria vita, la scoperta e la rivendicazione del piacere. Perché quel movimento non si limitò a denunciare le discriminazioni di genere e a rivendicare i diritti civili, ma entrò nella sfera privata, all’interno delle famiglie, nelle relazioni tra padri e figlie, mariti e mogli, fratelli e sorelle. Il Femminismo legava insieme la sfera privata e pubblica della donna, mostrando il legame tra il personale e il politico.
Vi immaginate che impatto sconvolgente poteva avere un gesto così scabroso e sovversivo in un’Italia che ancora penalizzava l’adulterio femminile e ammetteva il delitto d'onore, "le pene corporali" dei mariti e dei padri, il matrimonio riparatore, la riduzione della violenza sessuale a reato di oltraggio al pudore?
Quello fu il gesto iconico delle lotte femministe, che affidava alle mani delle donne, non più angeli del focolare, il simbolo dello scandalo. Le dita ribelli annunciavano al mondo che le donne erano padrone: del proprio corpo, della sessualità, della contraccezione. Di nuove relazioni sentimentali e sociali. Di un modo diverso di stare a casa, in fabbrica o all'università. E di un nuovo immaginario che ribaltava logiche patriarcali. Un atto di affermazione di sé che esprimeva al contempo il rifiuto per il ruolo sociale imposto alle donne. Un gesto che voleva dire: “Non siamo mogli, madri e figlie, siamo espressione della nostra autonoma e autodeterminata sessualità”. L’ambizione del gesto femminista è stata molteplice: esporre il corpo in quanto tale, sottraendolo all’invisibilità e alla vergogna, agendo sul piano dell’immagine e della cultura, denunciare come la sessualità della donna fosse il veicolo di rapporti di potere consolidati e liberare le donne dal proprio destino biologico attraverso la riappropriazione della propria sessualità, trasformandola da strumento di soggezione in uno spazio di possibilità.
Come scrivono Ilaria Bussoni e Raffaella Perna ne “Il gesto femminista. La rivolta delle donne nel corpo, nel lavoro, nell’arte” (DeriveApprodi, 2014):“Un gesto che, così come compare, in una genealogia incerta, poi scompare(…) Sembra durare circa un decennio: i Settanta. Spunta insieme ai movimenti delle donne, al femminismo. Insieme alla pillola anticoncezionale, ai consultori, allo speculum, al divorzio, all’aborto, ai processi per stupro, dopo le minigonne forse insieme agli zoccoli. Va a mettersi tra uomini e donne, tra marito e moglie, tra compagno e compagna, anche tra donna e donna. All’incrocio di relazioni amorose, affettive, familiari. Di rapporti di potere, di gerarchie, di forme di subordinazione. Di rapporti di produzione e di riproduzione”.
Il Femminismo fu anche un movimento culturale e artistico, che coinvolse la letteratura, il teatro, la fotografia, anche se non è possibile inquadrarlo in alcuni stilemi precisi, come potrebbero esserlo il Cubismo o il Dadaismo. Quello che unisce queste artiste è una coscienza collettiva, e una delle conquiste più importanti dell'avanguardia femminista fu quella di decostruire, attraverso questa consapevolezza collettiva che le univa, l'immagine della donna. Un'immagine che nei secoli era stata investita di proiezioni, stereotipi, nostalgia e desideri maschili, in parte anche grazie agli artisti. L'avanguardia femminista riuscì a dissolvere questo rapporto a senso unico tra soggetto e oggetto in una molteplicità di identità e di costruzioni identitarie.
Se fino al dopoguerra il movimento femminista era stato soprattutto un movimento di “emancipazione” (rivendicazione del diritto al voto, al lavoro, alla parità salariale), il movimento che prende vita con le grandi contestazioni del ’68 va al di là e si propone di essere un movimento di “liberazione”. Non si trattava semplicemente di avanzare delle rivendicazioni, ma di mettere in discussione i ruoli di genere accettati e consolidati da secoli, i diritti civili, il diritto all’autodeterminazione della persona.
Nel 1970 nascono i primi collettivi femministi, all’interno dei gruppi che facevano parte del cosiddetto “Movimento Studentesco”. Nel 1972 i collettivi delle donne crescono e si moltiplicano in tutta la penisola. C’è il “Movimento Liberazione Donna“ (M.L.D.), c’è il “Fronte Liberazione Donna“, che nasce all’interno dei sindacati, c’è “Rivolta Femminile“, un gruppo teorico a cui aderiscono donne avvocato per studiare la riforma delle vecchie leggi e le proposte di leggi nuove. Viene coniata l’espressione: “Il privato è politico”.
In quegli anni si cominciò a pensare di riscrivere alcune vecchie leggi che risalivano ai primi anni del fascismo, e questo portò alla approvazione del nuovo diritto di famiglia, avvenuta nel 1975. In seguito sarebbe stata cancellata dal codice penale l’attenuante per delitti d’onore, e sarebbe cessato l’obbligo per le ragazze minorenni di accettare il “matrimonio riparatore“.
Nel 1974 non passò il referendum per abrogare la legge sul divorzio entrata in vigore nel 1970, mentre molto più travagliata e sofferta fu la legge per la legalizzazione dell’aborto, che era già in vigore in altri stati europei.
L’ultima legge proposta dai movimenti delle donne fu quella sulla violenza sessuale, nel 1980. Il vecchio codice Rocco qualificava lo stupro come semplice “offesa al pudore“, e quindi non perseguibile in sede penale. Ma lo stupro è reato contro la persona, e come tale doveva essere riconosciuto.
Tuttavia questa battaglia fu più difficile delle precedenti, anche perché il Movimento aveva ormai perso la sua spinta propulsiva ed era venuto man mano disgregandosi. La mancanza di una vera pressione femminile permise al parlamento di accantonare la legge sulla violenza sessuale, che fu poi approvata solo nel 1996.
Oggi quel gesto è sicuramente inattuale, privo di significato. I corpi delle donne hanno ormai perso il loro potenziale irriverente, sovversivo, rivoluzionario. Eppure proprio di recente sono esplosi dei movimenti femministi che ricorrono al corpo come strumento di provocazione e di lotta. FEMEN, movimento femminista di protesta ucraino fondato a Kiev nel 2008, è infatti divenuto famoso, su scala internazionale, per la pratica di manifestare mostrando i seni contro il turismo sessuale, il sessismo e altre discriminazioni sociali. FEMEN ha giustificato i suoi metodi provocatori affermando "che è l'unico modo per essere ascoltati in questo paese. Se avessimo manifestato con il solo ausilio di cartelloni le nostre richieste non sarebbero state nemmeno notate". In Russia è attivo il gruppo delle Pussy Riot (Pussy è un termine equivocabile in quanto significa micio e, nello slang anglosassone, indica l'organo sessuale femminile). Il gruppo agisce soprattutto a Mosca, città che fa da palcoscenico ai flash mob e alle performance estemporanee attraverso cui il gruppo dà espressione a provocazioni politiche nei confronti dell'establishment politico e istituzionale, su argomenti come la situazione delle donne in Russia, o, più recentemente, contro la campagna, e i presunti brogli elettorali, con cui, nel 2012, il primo ministro Vladimir Putin si sarebbe assicurato la rielezione per la seconda volta a presidente della Russia.
In Italia non sono attivi movimenti femministi, ma i temi delle relazioni tra generi, della dignità della donna come persona a prescindere dai ruoli sono ancora attuali. Lo dicono le statistiche dei reati di violenza sulle donne e di femminicidio. Quello femminista degli anni 70 era un gesto muto, senza voce, ma fatto nelle piazze insieme a tante altre donne. Oggi molte donne rimangono sole nelle proprie case, case che spesso si trasformano in trappole mortali, nelle quali il grido delle donne rimane inascoltato.
A questo link il filmato di un corteo femminista degli anni Settanta.
https://www.youtube.com/watch?v=S1E65SqPchA
Ribelli e rivoluzionari - RIBELLI ON THE ROAD: EASY RIDER
“Easy Rider”, regia di Dennis Hopper, 1969. |
L’epoca moderna ha fatto del viaggio un gesto di ribellione: si pensi alla fuga solitaria dell’artista o dell’intellettuale ottocentesco, lontano da valori sociali e morali che non condivide più. Questo disagio esistenziale e storico spinge al viaggio come evasione e ricerca di un’autenticità diversa, lontana dalla società borghese, utilitaristica e bellicista. Il viaggio viene così ad assumere caratteri antiborghesi, antitetico all’organizzazione dei rapporti sociali e lavorativi moderni. In questo modo, il "mettersi per strada" si rivela un’esperienza, in maniera consapevole o inconsapevole, di ribellione.
Il rifiuto del mondo borghese si traduce in una fuga individuale dalla civiltà e un porsi ai margini di essa. La strada diventa pertanto il luogo dell’inquietudine e della fuga, del progressivo distaccarsi dalle proprie radici culturali: in altre parole la strada diventa lo spazio privilegiato di ribellione, uno spazio libero, che corre ai margini del mondo civilizzato, lo spazio di Jack London e poi di Jack Kerouac.
Jack Kerouac, con il suo “On the road”, ha fatto di questa poetica e pratica di evasione il motivo fondante della Beat Generation, che contesta la società borghese e consumista, il suo conformismo e la sua ipocrisia. Molti giovani di quella generazione hanno ricalcato, concretamente o idealmente, le orme di Kerouac attraverso la scelta di un’esistenza vagabonda sulle strade e sui treni d’America. Si tratta di un atteggiamento volutamente passivo, che non si propone di abbattere le istituzioni per stabilirne altre più consone alle esigenze dell’uomo, ma contrappone, alla falsità della società borghese, la chiusura in un proprio mondo individualista e solitario.
Anche il cinema ha fatto ampiamente proprio questo motivo della fuga dalla vita borghese, che ritroviamo in numerose pellicole: “Easy Rider”, “Zabriskie Point”, “Punto Zero”, “Cinque pezzi facili”, “Paris, Texas”, “Thelma & Louise”, “Into the Wild”, solo per citarne alcuni, tutti molto diversi l’uno dall’altro, ma accomunati dal motivo del rifiuto e della fuga che culminano quasi sempre nello stesso finale: la sola meta che attende i fuggiaschi è la morte, il loro unico destino è quello di soccombere: alla polizia, alla violenza cieca o al destino. Il viaggio di fuga è sempre un viaggio tragico.
Easy Rider esce nel 1969, in un clima particolare per gli Stati Uniti, che nel giro di soli cinque anni aveva vissuto una serie di eventi luttuosi e destabilizzanti: John Fitzgerald Kennedy a Dallas nel 1963, Malcolm X nel ’65, Martin Luther King e il fratello di JFK, Bob, in un solo bimestre nel corso del 1968. E su tutto, l’ombra incombente e mortifera della guerra in Vietnam da una parte e la spinta della controcultura giovanile dall’altra. Questo è il clima in cui nasce l’idea di Easy Rider, il cui titolo è un’espressione gergale del Sud che si riferisce alla possibilità di andare con una prostituta e di usufruire di una “corsa facile”, cioè di una prestazione gratis, evitando di pagare il dovuto.
Easy Rider mette in luce lo stato di degradazione di un’America che ha perso i valori fondativi e si trova ormai in una situazione di stallo, in cui lo smarrimento dell’identità e la violenza sigillano la fine del sogno americano.
Billy e Wyatt, detto Capitan America, partono sui loro choppers. La loro destinazione è verso est (l’esatto contrario di quella di molti film western, genere di cui peraltro il road movie è una filiazione). Fanno molti incontri, piacevoli e no. Nel viaggio di ritorno sono uccisi a fucilate.
Il tema classico del viaggio si mescola con quelli della cultura alternativa degli anni '60: marijuana ed LSD, musica rock (Steppenwolf, The Birds, Jimi Hendrix, Bob Dylan), protesta hippy, pacifismo, crisi del mito americano. La colonna sonora in particolare spesso diventa protagonista della narrazione.
La tecnica di montaggio è quantomeno “bizzarra”, frammentaria, psichedelica, senza regole, con libere associazioni, ripetizioni di parti della scena, scomparsa dell'audio della presa diretta. Non c'è una narrazione lineare, ma ci sono movimenti, spostamenti, piccoli dialoghi e azioni sconnesse, tratteggiate sotto l'occhio documentarista del regista Dennis Hopper.
Il viaggio si caratterizza fin dall’inizio come quello di due outsiders: oltre al loro aspetto fisico, anche il gesto iniziale di Wyatt, che, prima di mettersi in viaggio insieme a Billy, getta via l’orologio dopo esserselo sfilato dal polso, chiarisce le loro intenzioni di tirarsi fuori non solo dal consorzio sociale, con le sue regole e i suoi ritmi, ma anche dai suoi stessi criteri spazio-temporali. Nella scena del cimitero, inoltre, decidono di provare un’esclusione definitiva, eclissandosi e autoannullandosi fuori dalla dimensione storica e sociale, assumendo una dose di LSD, l’acido lisergico diventato il simbolo della Controcultura della fine degli Anni Sessanta. Questa scena rimane la più emozionante del film. Peter Fonda sotto l'effetto dell’LSD si arrampica sino ad abbracciare una statua e si mette a piangere, a farfugliare come un bambino triste e arrabbiato il suo odio verso la madre (la Grande Madre America, all’interno della metafora del film) che lo aveva abbandonato morendo. Visto all'interno del film, il pianto di Fonda si trasforma in preghiera, in lamento verso un'America non più capace di raccogliere i sogni e i desideri delle nuove generazioni.
Il finale lascia l’amaro in bocca, l’amaro della disillusione e della perdita completa di ogni speranza. Tanto più se si pensa che quel finale fu apertamente applaudito nelle sale cinematografiche del Sud degli Stati Uniti, che non era proprio riuscito ad identificarsi in Billy e Wyatt.
Nonostante ciò, Easy Rider, sebbene realizzato a basso costo, divenne ben presto un film di culto, in cui le nuove generazioni potevano riconoscere se stesse e il proprio rifiuto dell’omologazione, che si manifestava nei loro costumi di vita e nel loro aspetto fisico. Oltre ad aver saputo interpretare e mitizzare le aspirazioni di tutta un’epoca, questo film si affermò inoltre come capostipite di un nuovo genere cinematografico, il Road Movie.
Durante il viaggio, i due personaggi incontrano George, un avvocato per i diritti civili, alcolizzato, interpretato da Jack Nicholson. Questo è uno spezzone del dialogo tra lui e Billy:
Billy: Noi non possiamo neanche andare in un alberghetto da 2 soldi. E intendo dire proprio da 2 soldi, capisci? Credono che li sgozzeremo. Hanno paura.
George: Ma non hanno paura di voi. Hanno paura di quello che voi rappresentate.
Billy: per loro noi siamo solo della gente che ha bisogno di tagliarsi i capelli.
George: Oh, no! Quello che voi rappresentate per loro... è la libertà.
Billy: E che c'è di male? La libertà è tutto.
George: Ma certo, è vero, la libertà è tutto. Ma parlare di libertà, ed essere liberi sono due cose diverse. È molto difficile essere liberi quando ti comprano e ti vendono al mercato. (…) Certo sono capaci di parlare e riparlare di questa famosa libertà individuale. Ma quando vedono un individuo davvero libero, allora hanno paura.
Billy: Questa paura però non li fa certo scappare.
George: No, ma li rende pericolosi.
A questo link, i titoli di testa del film, con la celebre “Born to be wild”. Da notare il gesto iniziale di Wyatt, prima di iniziare il viaggio: si toglie l’orologio e lo butta via. Il viaggio che stanno per intraprendere non ha bisogno di uno strumento che regola il tempo della società borghese fondata sul lavoro e sui ritmi produttivi.
https://www.youtube.com/watch?v=s8aftCh3wYI
A questo link la canzone “Ballad of Easy Rider” dei Byrds:
https://www.youtube.com/watch?v=m6wMKprHV9c
IL RIBELLE SCONOSCIUTO DI PIAZZA TIENANMEN
Jeff Widener, Unknown Rebel (Tank Man) - Pechino, Cina, 1989.
Uno degli eroi più famosi del Novecento è un ragazzo senza volto e senza nome. Noi ne abbiamo conosciuto solo l'esile corpo visto di spalle, mentre fronteggia una colonna di carri armati, che avanzano verso Piazza Tienanmen, a Pechino, e che di lì a poco soffocheranno nel sangue la manifestazione di protesta degli studenti cinesi, che da giorni occupano quel luogo per chiedere maggiore democrazia. Negli Usa ricordano questo ragazzo coraggioso come The Tank Man (l’uomo del carro armato), la rivista Time, nel 1998, lo ha definito The Unknown Rebel, "il ribelle sconosciuto", e lo ha inserito nella lista de “Le persone che più hanno influenzato il XX secolo”.
Non è mai stato identificato con certezza, né si sa bene che fine abbia fatto. C'è chi sostiene che sia stato fucilato assieme al militare conduttore del carro armato che non lo ha travolto, c'è invece chi afferma che sia vivo, emigrato clandestinamente negli USA.
Uno degli eroi più famosi del Novecento è un ragazzo senza volto e senza nome. Noi ne abbiamo conosciuto solo l'esile corpo visto di spalle, mentre fronteggia una colonna di carri armati, che avanzano verso Piazza Tienanmen, a Pechino, e che di lì a poco soffocheranno nel sangue la manifestazione di protesta degli studenti cinesi, che da giorni occupano quel luogo per chiedere maggiore democrazia. Negli Usa ricordano questo ragazzo coraggioso come The Tank Man (l’uomo del carro armato), la rivista Time, nel 1998, lo ha definito The Unknown Rebel, "il ribelle sconosciuto", e lo ha inserito nella lista de “Le persone che più hanno influenzato il XX secolo”.
Non è mai stato identificato con certezza, né si sa bene che fine abbia fatto. C'è chi sostiene che sia stato fucilato assieme al militare conduttore del carro armato che non lo ha travolto, c'è invece chi afferma che sia vivo, emigrato clandestinamente negli USA.
Ribelli e rivoluzionari - RIBELLI SENZA CAUSA: I PUGNI IN TASCA
I pugni in tasca, regia di Marco Bellocchio, 1965.
Già a partire da “Rebel without a cause” (Gioventù bruciata, 1955) il cinema ha fatto dell’istituzione familiare, soprattutto nella sua accezione piccolo borghese, repressa e conformista, il bersaglio della ribellione giovanile, che spesso esplode come rabbia cieca, “senza causa” appunto, un rifiuto privo di alcuna elaborazione consapevole o progetto ideale che dia forma al furore eversivo.
Nel 1965, come un pugno nello stomaco, vede la luce in sala l’opera prima di Marco Bellocchio, “I pugni in tasca”, che riveste di malinconica poesia il cinismo e la crudeltà che danno vita a una violenta e corrosiva dissacrazione della famiglia, della morale cattolica e degli altri pilastri della società borghese di quegli anni.
Già a partire da “Rebel without a cause” (Gioventù bruciata, 1955) il cinema ha fatto dell’istituzione familiare, soprattutto nella sua accezione piccolo borghese, repressa e conformista, il bersaglio della ribellione giovanile, che spesso esplode come rabbia cieca, “senza causa” appunto, un rifiuto privo di alcuna elaborazione consapevole o progetto ideale che dia forma al furore eversivo.
Nel 1965, come un pugno nello stomaco, vede la luce in sala l’opera prima di Marco Bellocchio, “I pugni in tasca”, che riveste di malinconica poesia il cinismo e la crudeltà che danno vita a una violenta e corrosiva dissacrazione della famiglia, della morale cattolica e degli altri pilastri della società borghese di quegli anni.
Ribelli e rivoluzionari - I SEM TERRA DI SALGADO
Sebastião Salgado, Manifestazione di Contadini Sem Terra. |
Il Movimento Sem Terra (MST, Movimento dei lavoratori rurali Senza Terra) è un movimento politico-sociale brasiliano che nasce nel 1984, dalle occupazioni contadine di terra nello stato del Paranà, nel sud del Brasile. Il suo slogan principale è “La terra a chi la lavora” e il suo obiettivo è la riforma agraria, cioè la distribuzione della terra ai contadini. Nonostante già dal 1964 il diritto brasiliano riconosca la necessità di espropriare le terre improduttive, una enorme porzione rurale del paese è concentrata nelle mani di pochi latifondisti e rimane improduttiva.
Dagli anni Trenta fino alla dittatura militare degli anni settanta, in Brasile si perseguì una politica di allontanamento forzato dalla campagna dei piccoli proprietari e di concentrazione della terra in grandi latifondi. Questo processo (raccontato ad esempio nei romanzi di Jorge Amado) fu portato avanti con la forza delle armi: la violenza, unita al "grillagem", la manomissione dei documenti di proprietà, portò alla formazione dei più grandi latifondi esistenti al mondo. Durante la dittatura militare l'allontanamento dalle campagne fu motivato dalla richiesta da parte delle città, dove venivano installate le grandi industrie di Stato, di manodopera a basso prezzo.
La lotta per la terra in Brasile esiste in realtà da 500 anni. Essa nacque come lotta degli Indi a cui si aggiunsero poi i Neri, ex schiavi, e infine i contadini, e venne interrotta durante la dittatura militare (1964-1984). La lotta per la terra negli anni 80 si differenzia nettamente da quella precedente alla dittatura: mentre quella era una battaglia per restare nella campagna, questa ha una natura più globale, in quanto mira non solo alla riforma agraria, e quindi alla distribuzione della terra coltivabile, ma punta anche alla cittadinanza, cioè al riconoscimento di alcuni diritti fondamentali. Infatti, l’azione del MST procede per fasi: prima un gruppo di famiglie di contadini occupa la terra, dopo crea l’accampamento. A questo punto lo Stato è obbligato a iniziare un processo, che potrà concludersi con l'esproprio della terra ai latifondisti o lo sgombero degli occupanti: ma se il terreno ha alcune caratteristiche (per esempio è improduttivo), l'esproprio è una dovuta applicazione della legge. In questo caso la lotta continua nell'accampamento fino a che non viene riconosciuto ai lavoratori il possesso di un'area sufficiente al sostentamento di tutte le famiglie, nessuna esclusa: l'accampamento diventa assentamento e inizia la formazione della città. La lotta per la cittadinanza è l'avventura della comunità che deve formare la città. Nel caso degli assentamenti legati all'MST i lavoratori pretendono dallo stato che vengano loro riconosciuti tutti i diritti di cittadinanza brasiliani. Innanzitutto i servizi: strade, energia elettrica, acqua corrente, servizio di trasporti, ecc.
Il movimento è stato negli anni oggetto di una violenta repressione ad opera di guardie armate (pistoleiros), militari e sicari di latifondisti, madereiros e multinazionali. I massacri di Corumbiara (9 agosto 1995), Eldorado dos Carajás (17 aprile 1996) e Felisburgo (20 novembre 2004) hanno segnato la storia del movimento.
Nonostante i massacri e i tanti lutti dovuti alla morte di molti loro compagni, il movimento Sem Terra non ha perduto la forza d’animo per tornare a lottare ogni volta per rivendicare i propri diritti: Ocupar, resistir, produzir!
Un aspetto che ha sempre affascinato e, al tempo stesso, dato forza al Mst, è il fatto che l’azione politica non è disgiunta dalla ricerca di un profondo cambiamento delle coscienze, in grado di produrre atteggiamenti nuovi di fraternità tra le persone, ed è proprio qui che si rivelano la grandezza e la generosità del Mst, che non inneggia alla riforma agraria e al cambiamento sociale come parole d’ordine ideologiche, ma prova a mettere in pratica questi concetti nelle occupazioni, negli accampamenti e nelle scuole rurali del movimento. E allora, l’uomo e la donna che campeggiano, sulla bandiera del Mst in campo rosso, rappresentano la costruzione dell’uomo e della donna nuovi e della nuova società, che significa anche una nuova relazione con la natura e con i frutti della terra. I Sem terra sono dei sognatori che aspirano al mondo capovolto, quello in cui sono i movimenti del sud del mondo ad insegnare come si fa autogestione di fabbriche o terre occupate o come si coltiva in modo agroecologico.
Il fotografo Sebastião Salgado, uno dei più grandi fotografi documentaristi del mondo, sempre in viaggio in ogni latitudine, da oltre quarant’anni si è reso testimone dei grandi processi che interessano il nostro mondo: conflitti internazionali, genocidi, carestie, sfruttamento, migrazioni ed esodi di massa, il dramma delle comunità minacciate, catastrofi ambientali così come le polimorfie di grandiosi paesaggi naturali e la bellezza violata del pianeta.
Nel 1986, durane l’occupazione della fazenda Giacometti da parte dei contadini Sem Terra, Salgado era lì, da sempre amico di quel Movimento. Nel 1996 ha progettato la mostra “Terra”, composta da fotografie eseguite dal 1980 al 1996, cedendo tutti i diritti d’autore al Movimento dei Senza Terra brasiliani, che ha deciso di distribuirne le copie ad Associazioni e gruppi interessati a diffondere la conoscenza dell’MST nel mondo. Le immagini della mostra raccontano, in un bianco e nero nitidissimo, le difficoltà quotidiane dei Sem Terra, le lotte per il rispetto dei più elementari diritti civili nei territori brasiliani penalizzati dal latifondo. Ci sono i bambini, così spesso ripresi dall'obiettivo di Salgado, e le scene di vita familiare, ma anche le lotte dei contadini, la miseria dei minatori che estraggono l'oro nella tristemente famosa miniera di Serra Pelada nel Sertao, gli scontri con la polizia.
«Ci sono molti sguardi in macchina nelle foto di Salgado. Di persone e di animali. Ma anche se non guardano direttamente nell’obiettivo, senti sempre che c’è un accordo tra il fotografo e i soggetti delle foto. Nessuna di quelle immagini è stata presa di nascosto, clandestinamente. E questo è essenziale nel suo lavoro. Bisogna dare la massima dignità possibile a ciò che si fotografa per non cadere nel voyeurismo. Contrariamente ai reporter che arrivano, scattano qualche foto al volo e ripartono, Sebastião trascorre ogni volta più tempo possibile con le persone che fotografa. Stabilisce un rapporto, condivide la loro esistenza. La ricerca del linguaggio migliore, della “bellezza”, nasce da lì». (Wenders)
Salgado statuisce con forza che, prima della fotografia, esiste la relazione con altri esseri umani e con l'ambiente in cui essi vivono e che, pertanto, non vi può essere fotografia valida se distaccata dalla dinamica d'una relazione intensa e forte, fondamentalmente di rispetto, nei confronti dell'altro da sé.
Senza questa forma di profondo e commosso rispetto la fotografia rischierebbe di diventare un'attività di puro e semplice voyeurismo, deputata a "rubare" l'anima altrui, destituendola di senso e verità.
Proprio per questo egli sostiene di aver sempre rifiutato l'etichetta di essere fotografo di "desperados", di gente disperata e sull'orlo del collasso psico-fisico. No, egli ribatte di essere fotografo di esseri umani che vivono momenti di grandi difficoltà e che, ciò nonostante, mantengono una serena dignità, cercando - con forza e determinazione - di conquistare per sé rispetto e accettazione e, soprattutto, dignità attraverso il lavoro.
In questo senso, sono profondamente eloquenti i suoi ritratti, alcuni dei quali visibili appunto nella mostra "Terra".
Le foto di Salgado sono un omaggio all'uomo e alla sua dignità che rimane intatta, come suo unico e immenso patrimonio, anche nelle condizioni più disperate e difficili.
Ma vi è anche l'omaggio alla terra come luogo delle radici e della costruzione dell'identità dell'uomo che vi abita. Un viaggio intenso attraverso "... la terra amica dell'uomo, terra che diventa nemica quando accaparramento e speculazione la spogliano della sua funzione sociale" (S. Salgado).
L’uomo che ha prodotto un’incredibile enciclopedia visiva della seconda metà del ’900, forgiando la nostra comprensione del mondo, anche se per alcuni deformata da un filtro estetizzante, nelle sue fotografie ci testimonia una cosa importante su tutte: la dignità dell’uomo, sempre e malgrado tutto.
A questo link, un filmato costituito da alcune foto di Salgado, appartenenti a diversi progetti:
Questa foto, invece, di autore ignoto, testimonia il movimento per la terra in un altro luogo e un'altra epoca: la Sicilia degli anni quaranta. Questa foto, infatti, è riportata nei resoconti in rete a proposito di uno degli eventi più sanguinosi dell'Italia del dopoguerra: l'eccidio di Portella della Ginestra. ll primo maggio del 1947, nei pressi della Piana degli Albanesi, vicino Palermo, durante la Festa del Lavoro, circa duemila lavoratori, in prevalenza contadini, si riunirono in località Portella della Ginestra, nella vallata circoscritta dai monti Kumeta e Maja e Pelavet, per manifestare contro il latifondismo, a favore dell'occupazione delle terre incolte. Alcuni banditi, guidati da Salvatore Giuliano, spararono sulla folla e uccisero 12 persone. In quella circostanza si compì per molti, il primo grande mistero dell'Italia repubblicana.