Marco Bertorello, Manifestazione in Val di Susa, Novembre 2013.
Prima di leggere, guardate questa foto. Cosa vedete? Cosa vi comunica?
In questa immagine vediamo una ragazza che abbraccia e bacia con trasporto un poliziotto, anch'egli molto giovane, o meglio la visiera in plexiglass del suo casco. Bastano due elementi per capire immediatamente che il contesto non è pacifico, ma è quello di una contrapposizione tesa tra due schieramenti: i poliziotti sono schierati e indossano la divisa antisommossa, con casco a visiera calata. Dalla parte opposta una ragazza sola, a viso scoperto, senza nessun segno particolare o accessori di abbigliamento che denotino l'appartenenza a qualche gruppo radicale, a parte un piccolo orecchino collocato in una parte insolita dell'orecchio, ma oggigiorno del tutto insignificante. Anzi, il suo aspetto è quello della ragazza comune, innocua, la prima della classe con gli occhiali, le mani da bambina, che si spinge a un gesto temerario, baciando a occhi chiusi e con labbra sensuali un ragazzo, anche lui con il viso pulito, da bravo ragazzo. Il suo gesto pare dettato da uno slancio di tenerezza, corrisposto dagli occhi chiusi di lui, che sembra gustarsi quel bacio inaspettato. E' una foto che sembra la cover di quella che ritrae Jan Rose Kasmir mentre fronteggia con il suo fiore le baionette della Guardia Nazionale a Washington. Ma, mentre in quella foto si era portati immediatamente a simpatizzare per una parte sola, cioè la ragazza, l'unica perfettamente riconoscibile, personificazione della pace e dell'amore contrapposte all'orrore e alla violenza delle armi spianate, qui l'impressione che si ricava è quella della riconciliazione reciproca, della tensione riappacificata, del "facciamo l'amore, non facciamo la guerra".
In poche parole, questa foto sollecita un desiderio inconscio dentro di noi: quello della conciliazione dei contrari, la cessazione delle ostilità, la passione che scoppia ai lati opposti della barricata, la violenza che si trasforma in bacio, il lieto fine. Una foto che, nell'epoca di internet e dei social network, ha fatto subito il giro della rete e del mondo, come simbolo, ancora una volta, della rivoluzione pacifica all'insegna della fraternizzazione tra manifestanti e polizia.
Non si può negare che l'immagine in sé è molto evocativa e di grande impatto. E' una immagine-icona, nel senso che manifesta in modo semplice e immediato il suo messaggio non violento.
Lo scatto appartiene a un fotografo dell'Associazione Fotografi Professionisti, Marco Bertorello, realizzato durante una manifestazione NoTav, nel novembre del 2013 in Val di Susa. Qualche giorno dopo, però, la giovane attivista, una ventenne milanese, sulle pagine di Repubblica ha dichiarato che quel bacio non aveva nulla a che fare con la pace e con l'amore, ma era stato solo un gesto di provocazione e di disprezzo. Altro che fraternizzazione! Aveva usato il suo corpo e il suo potere di seduzione come atto di sfida contro un altro potere, quello dello stato e dei suoi corpi di repressione.
Di questa foto e delle sue implicazioni ne parla Michele Smargiassi in un interessante articolo su Fotocrazia e, riportando la dichiarazione della ragazza ("Ho cercato di provocare questo ragazzo con le modalità di una sex worker, una prostituta insomma. Gli ho anche leccato la visiera, mi sono bagnata le dita e ho toccato le sue labbra"), il giornalista chiosa: "Tecnicamente, un porno-sanpietrino". Lo stesso, poi, aggiunge che la ragazza ha in realtà perso la sua sfida simbolica, in quanto la foto del suo gesto si è rivoltata contro di lei, divenendo simbolo di qualcosa di totalmente opposto rispetto alle sue intenzioni. Cosa fosse successo in realtà lo sapevano la ragazza, il poliziotto (che ha subito interpretato il bacio come una provocazione) e anche il fotografo che scattava. Scrive Smargiassi: "La fotografia coglie e riproduce le apparenze dei gesti, non le loro intenzioni. E quei gesti oltretutto li semplifica, li piega al loro senso più semplice, li sottopone a una catalogazione superficiale e automatica, a dispetto delle intenzioni di tutti, fotografo compreso. Un bacio è sempre solo un bacio, in fotografia. Non è uno sputo". E ancora: "Non avete mai sentito dire da certi estimatori del Bacio dell'Hotel de Ville di Doisneau, nonostante si sappia ormai che quelli erano attori pagati, che quella foto comunica ugualmente passione, amore e romanticismo? Bene, le icone sono così. Sono ideologie congelate, monumenti di bronzo, e se ne fregano di quel che è accaduto davvero, perché si creano attorno da sole la propria realtà".
Quando una immagine diventa un fenomeno virale e decontestualizzato, il rischio maggiore è quello che abbia il sopravvento l'interpretazione più semplice, e d'altra parte, l'immagine diventa un fenomeno globale proprio perché è suscettibile di tanta semplificazione. Una volta fermato e isolato l'istante dal tutto, sganciate dalla complessità del loro contesto, queste immagini prendono una strada autonoma, non sempre in sintonia né con l'accadimento reale, né con le intenzioni del fotografo.
La foto che diventa icona non potrà mai liberarsi della sua costitutiva ambiguità: è un documento infedele o un manifesto? Quanto si deve tener conto del suo legame con la realtà che l'ha originata? E' come per i miti: il loro spunto sarà stato un fatto vero, ma il loro significato simbolico vive una vita del tutto autonoma e, per questo, universale ed eterna. Come conciliare verità storica e universalità? Possono il documento e l'icona, la testimonianza e l'ideologia coesistere?
Resta l'importanza della consapevolezza che occorre una cultura visuale, in grado di smontare e decodificare un'immagine, come si fa con un qualsiasi linguaggio. Che occorre partire dal dato di fatto che il nostro modo di "vedere" funziona così, tende a semplificare, soprattutto se l'immagine è già "semplificata" di suo. L'icona è un mondo chiuso, privo di tensione e di qualunque contraddizione, ed è una scorciatoia, che aggira la fatica del documentario, della narrazione complessa, e punta dritta al cuore dello spettatore, qualche volta alla sua coscienza. Di fatto, spesso l'immagine-simbolo segue un percorso che parte dalla volontà di documentare un fatto che accade e giunge a racchiudere nell'immagine un contenuto ideologico lontano dalla realtà di partenza e persino dalle intenzioni del fotografo. E' l'immagine che funziona così. Quanti esempi racconta la storia della fotografia, dal bacio di Times Square del 1945 al Vancouver riot kiss del giugno 2011 (rimanendo nel "romantico")?
Da parte mia, aggiungo a ciò che scrive Michele Smargiassi che questo processo non è dovuto soltanto all'identità costituiva della fotografia, ma anche alla dinamica della percezione, che non è mai un semplice e puro "acquisire", ma è sempre un rielaborare, sulla base di strutture mentali che precedono la percezione, strutture fatte di pre-giudizi, di stratificazioni culturali, di esperienze del passato, di immaginario comune. In poche parole, quando si guarda un'immagine, non si può prescindere da tutte le immagini viste fino ad allora e da tutto ciò che si è conosciuto e vissuto fino a quel momento. E quando questa rielaborazione avviene in senso collettivo, allora si genera il mito.
Ma anche i miti possono essere smontati.
A questo link l'articolo su Fotocrazia: http://smargiassi-michele.blogautore.repubblica.it/2013/11/22/bacio-rubato-sputo-fallito/comment-page-1/
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