La fotografia positivista ottocentesca tratta il corpo essenzialmente come oggetto catalogabile e non come sembiante di un individuo con un’identità sua propria. Il ritratto giudiziario, quello medico e quello etnografico si interessano ai tipi generali e anche la fotografia che studia il corpo come macchina in movimento non prende in considerazione la particolarità del soggetto ripreso, anzi si sforza di mantenerla nascosta dietro il puro dato anatomico, studiato anch’esso nella sua impersonale generalità.
La documentazione tipologica della figura umana passa il confine del secolo e approda nella Germania degli anni ’10 e ’20, periodo in cui il fotografo August Sander intraprende l’ambizioso progetto di documentare e classificare le tipologie sociali dell’uomo tedesco, poi pubblicato nel celebre Menschen des 20. Jahrhunderts Portraitphotographien 1892 – 1952 (Ritratti del Ventesimo Secolo), citato da Benjamin come esempio di immagini private di ogni aura e dal potenziale conoscitivo ed educativo, in grado di rivendicare alla fotografia una funzione sociale e politica, piuttosto che estetica. “L’opera di Sander è più di una raccolta di fotografie: è un atlante su cui esercitarsi”, scriveva nel 1931 nella sua “Piccola storia della fotografia”. In quelle immagini, infatti, egli coglieva la crisi del ritratto borghese e di rappresentanza e l’emergere di un nuovo soggetto, il volto di un’intera epoca, l’Antlitz der Zeit, insomma, come recitava il titolo del primo libro di Sander, pubblicato nel 1929. Questo era introdotto da un testo di Alfred Döblin, il quale scriveva: “Di fronte a questi ritratti incontriamo la forza collettiva della società umana, della classe, del livello culturale… si tratta di un ampliamento del nostro campo visivo”.
L’intento del fotografo è quello di “vedere le cose come sono e non come dovrebbero o potrebbero essere”, mettendo la fotografia al servizio della verità. Siamo dopotutto nel primo dopoguerra, caratterizzato dall’ansia di superare le velleità artistiche e sentimentali del pittorialismo e dall’esigenza di una “Nuova Obiettività”, che cerca di coniugare costruttivismo e oggettività, generale e particolare. Ed è proprio questa relazione, che è una tensione continua, tra documento e icona, tra individuale e universale, a caratterizzare i Ritratti del Ventesimo Secolo, conferendo loro grande fascino.
Sander dà vita a una sorta di catalogo che illustra la società tedesca durante la Repubblica di Weimar. L’opera, articolata in sette gruppi (“Il contadino”, “L’operaio”, “Gli artisti”, “La donna”, “La città”, “Classi e professioni”, “Gli ultimi”) che rispecchiano i diversi ceti sociali, costituisce una testimonianza della società a lui contemporanea, in quanto, nelle fotografie, le caratteristiche individuali si condensano in tipi, rappresentativi delle varie professioni e dei vari strati sociali. Sander non è interessato al ritratto individuale, ma alla relazione tra l’individuo e la società in cui vive, all'uomo in quanto prodotto sociale. La legenda dei ritratti, infatti, non fornisce un nome (tranne che per gli artisti e per alcuni membri dell’élite) ma indica uno stato sociale, orientando la visione dello spettatore. Lo scopo del fotografo tedesco è quello di eseguire un ritratto della Germania del suo tempo e per questo ricerca delle fotografie rappresentative, cioè in grado di superare la barriera dell’individualità e di ricostruire le appartenenze alla trama sociale, caratterizzata dalla divisione in classi.
Il valore dell’opera non risiede nel consentire di riconoscere, tramite l'immagine fotografica, un'appartenenza fisiognomica o razziale iscritta in modo permanente nei tratti del volto. Piuttosto, nell’intenzione di Sander si trattava di cogliere tutti quegli aspetti esteriori dell'uomo – sguardi, espressioni del volto, posture corporee, abiti, pose, ambienti, strumenti di lavoro – che ne testimoniassero la collocazione sociale. Sander è, infatti, un materialista, convinto che il mestiere di un individuo influisce sul suo corpo, sul volto, sull’espressione, sulla postura, determinandone dei tratti distinguibili, tanto da poter essere suddivisi per tipologie.
A tal proposito, può essere chiamato in causa l’idealtipo (o tipo ideale) proposto da Max Weber, il quale “rappresenta un quadro concettuale il quale non è la realtà storica, e neppure la realtà ‘vera e propria’, ma tuttavia serve né più né meno come schema in cui la realtà deve essere sussunta come esempio”. Tali costruzioni teoriche vengono formate estrapolando dei dati storici e sociologici riconducibili a un unico modello. Allo stesso modo Sander cerca di individuare degli elementi che consentano di elaborare la generalità tipica del gruppo a cui appartiene il soggetto fotografato.
Sander pensava al fotografo come un raccoglitore impassibile di dati e il suo è uno studio storico-sociale, condotto per mezzo della fotografia e di uno sguardo che si mantiene neutro e imparziale davanti a ogni soggetto. Le sue immagini rivelano, infatti, una certa sistematicità: ritratto in piedi e frontale, soggetto al centro dell’immagine, viso e sguardo orientati verso l’obiettivo. Sander mette il suo soggetto in primo piano, a volte isolandolo dal contesto, focalizzando la nostra attenzione sul suo ruolo e la sua appartenenza a un gruppo sociale tramite la didascalia e l’organizzazione delle immagini in gruppi e sottogruppi.
Come scrive Susan Sontag: “[…] la macchina fotografica non può fare a meno di rivelare i visi come maschere sociali” (Sulla fotografia). Nonostante la sua contingenza, dovuta alla propria natura indicale, la fotografia è anche in grado di assumere la generalità dell’icona, di trasformare i soggetti in maschere, come intenderà Roland Barthes:
“Dal momento che ogni foto è contingente (e perciò stesso fuori senso), la Fotografia può significare (definire una generalità) solo assumendo una maschera. Questa è la parola che giustamente Calvino usa per designare ciò che fa d’un volto il prodotto di una società e della sua storia.” (Barthes, La camera chiara)
Tuttavia, malgrado le persone fotografate da Sander siano connotate come prototipi di diversi gruppi sociali, esse non si riducono a stereotipi o a comparse. D’altra parte il fotografo tedesco concedeva ai suoi soggetti di mettersi in posa e di vestirsi nel modo in cui preferivano, e la loro caratterizzazione va oltre la loro natura rappresentativa. E così l’abbigliamento dei tre contadini col bastone da passeggio, il libro e gli occhiali tenuti dalle mani callose di chi è abituato a lavorare la terra dell’agricoltore di Westerwald, sembrano fare resistenza ad ogni tentativo di racchiuderli all’interno di un tipo ideale, sfuggendo a ogni cornice che voglia ingabbiare la loro individualità nel modello impersonale della didascalia. Come scrive D. Gavagnin, “l’analisi del soggetto in Sander è infatti così accurata che quasi sempre riesce a penetrare oltre la scorza della maschera sociale, del ruolo che il soggetto impersona, e finisce così per far affiorare i tratti sommersi, ma irriducibili, della sua personalità.” (D. Gavagnin, Homini & Domini. Il corpo nell’arte fotografica)
E questi tratti personali affiorano anzi più nei ritratti di Sander che in quelli borghesi di rappresentanza, nei quali la persona si risolveva davvero nel ruolo stesso che impersonava, ostentando la propria autorità di classe dominante, senza cedere alcunché della propria intimità.
La fotografia di Sander non poteva di certo essere accettata dall’ideologia nazista, fondata come sappiamo sui toni celebrativi della propaganda che annullava le divisioni di classe e sull’iconografia dell’individuo appartenente alla pura razza ariana, dal corpo e volto perfetti e uniformi. Nel 1936, infatti, la Gestapo distruggerà le lastre e impedirà a Sander la pubblicazione degli altri volumi. Ma la sua influenza sulla fotografia del XX secolo sarà grande, consacrata dalla partecipazione alla mostra The Family of Man, organizzata da Edward Steichen nel 1955.
Ai nostri giorni, l’artista Michael Somoroff ha ripreso le immagini di Sander e con un intervento digitale ha rimosso le figure umane, ricostruendo interamente gli sfondi e colpendo il nostro sguardo con una sensazione perturbante di vuoto e di assenza di qualcosa di familiare; smascherando l’illusorietà della promessa, da parte della fotografia, di restituire una presenza impossibile, di mostrare l'apparenza di corpi già dissolti, di tenere in vita chi ormai non c’è più, inghiottito dal tempo e dalla storia.
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