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lunedì 19 novembre 2018

L’aura non c’è. Walter Benjamin e la riproducibilità tecnica dell'arte

Rue Hautefeuille, 6th arrondissement, 1898.


Sono due i concetti fondamentali, elaborati da Benjamin, che negli anni Trenta rimettono in discussione la concezione tradizionale dell’arte e della fruizione estetica: la perdita dell’aura e l’inconscio ottico.
Molti teorici dell'epoca cercavano di includere la fotografia e il cinema nell’ambito delle arti, nonostante la loro origine tecnica. La tesi di Benjamin è del tutto opposta: non si tratta di far rientrare in qualche modo la fotografia e il cinema nell’alveo ristretto dell’arte, ma di cambiare radicalmente il concetto medesimo di opera d’arte, un concetto che era stato già di fatto trasformato dalla diffusione dei nuovi mezzi tecnici di riproduzione e diffusione delle immagini. Come si sa, questa è la tesi fondamentale del suo saggio più famoso, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica: fotografia e cinema hanno mutato le condizioni dell’esperienza estetica, così come del concetto tradizionale di arte nel suo complesso, in quanto la riroduzione in serie priva l’opera d’arte di un requisito basilare: l’hic et nunc, cioè la sua esistenza unica e irripetibile nel tempo e nello spazio (il contesto originario di collocazione).


Eugène Atget, Rue de l’Hôtel de Ville, 1921.

Detto in altri termini, la riproduzione, rapida e diffusa, resa possibile dalle nuove tecniche, fa decadere il concetto di “aura”, che definisce la visione tradizionale di opera d’arte, in quanto caratterizzata da unicità, autenticità e originalità e, perciò, dotata di “autorità” e del valore di testimonianza storica. Nella visione tradizionale, l’oggetto artistico originale risultava circonfuso dall’alone di sacralità dato dalla mano del suo creatore e dalla patina che la storia ha depositato su di essa. La riproducibilità, invece, porta alla moltiplicazione del prodotto, che perde così quell’alone sacrale.
Si pensi a ciò che avviene in ambito fotografico e cinematografico: la riproducibilità non concerne soltanto le condizioni di diffusione delle opere, come accade nel caso delle copie pittoriche, ma riguarda la loro stessa produzione, anzi ne è una condizione interna, poiché il dispositivo è intrinsecamente programmato per una riproduzione seriale.

Questa premessa ha una notevole implicazione sul configurarsi della fruizione artistica, che viene sottratta alle condizioni dell’hic et nunc. La riproducibilità tecnica, infatti, emancipando l’arte da quella dimensione religiosa, magica e irrazionale che caratterizzava l'opera artistica tradizionale, sottrae l’esperienza estetica alla modalità di devozione sacrale e di contemplazione individuale, la toglie dal proprio contesto originario e la riveste di un valore prettamente “espositivo”.
Ogni periodo storico è caratterizzato da particolari forme artistiche ed espressive, correlate a determinate modalità di fruizione. Storicamente, le “cornici” principali in cui si è incardinata la fruizione dell’oggetto artistico sono due, quella cultuale (prima magica, poi religiosa) e quella espositiva. La pittura rupestre, la statua del dio o del santo, la pala d’altare, le icone ortodosse ecc. sono artefatti fondati su una propria funzione rituale ( Benjamin li definisce “teologicamente fondati”), che ispira ai fedeli un rapporto di adorazione e di venerazione. Il valore di un’opera d’arte, in questo caso, proviene da contesti esterni: religione, figure del potere o della morale.

Eugène Atget. Rue Hautefeuille. 1922.

Man mano, la secolarizzazione dell’arte sposta l’aura alla performance dell’artista, in quanto talento unico che trasfonde il proprio genio nella creazione. Anche in questo caso, il valore espositivo dell’opera, nel contesto del museo o della galleria, permette ancora di conservarne l’aura, anche se il rapporto dello spettatore con l’oggetto è radicalmente mutato, divenendo soprattutto contemplazione estetica. In ogni caso, pur assumendo diverse forme, la fruizione tradizionale dell’opera d’arte è stata sempre contrassegnata dal carattere della lontananza e dell’inaccessibilità. La riproducibilità tecnica, invece, muta radicalmente il tipo di fruizione, trasformandola in un nuovo tipo di percezione sensoriale, perché l’accesso diretto all’immagine porta alle estreme conseguenze il valore espositivo dell’opera.
La diffusione rapida e capillare dell’informazione e delle immagini rende le opere d’arte meno distanti, più a portata di mano, e “si fa valere in modo sempre più incontestabile l’esigenza di impossessarsi dell’oggetto da una distanza il più possibile ravvicinata nell’immagine, o meglio nell’effigie, nella riproduzione”. La fine dell’aura, pertanto, coincide con la fine di quell’intreccio di distanza, irripetibilità e durata che caratterizzava il rapporto "rituale" con le opere tradizionali e l’avvento di una fruizione dell’arte basata sull’osservazione fugace e ripetibile di riproduzioni (“ricezione nella distrazione”), quali quelle proposte dai giornali illustrati e dai settimanali. L’opera d’arte non è più fruita come oggetto di contemplazione, lontano e irripetibile, ma come oggetto di consumo, vicino e riproducibile, e pertanto anche attuale, non confinato in un passato storico, ma in grado di incidere nel presente.

Cabaret au Tambour, 62 quai de la Tournelle, 5 ° arrondissement, 1908.

Benjamin non considera la perdita dell’aura come una perdita di valore e un fenomeno negativo; al contrario, essa contribuisce alla democratizzazione dell’arte, in quanto la riproduzione la sottrae alla concezione aristocratica e all’egemonia esclusiva delle classi superiori e la rende accessibile anche alle masse.
Con l’avvento della riproducibilità tecnica e la sua diffusione per mezzo della fotografia, venuti meno i valori di unicità e autenticità, cioè decaduta l’aura, è finalmente possibile, secondo il filosofo, l’imporsi definitivo del valore espositivo dell’opera artistica sul valore cultuale, il che conferirà all’arte un nuovo tipo di funzione, di tipo politico. La fine della contemplazione a distanza, infatti, e la tensione verso l’appropriazione di oggetti e immagini, favorita dalla riproducibilità tecnica, lasciano il posto ad un avvicinamento tra l’opera e il suo fruitore fino a un sempre crescente confondersi delle relazioni tra l’arte (come opera) e la vita (con i suoi oggetti e le sue immagini), determinando la perdita di quello che aveva reso l’opera un fatto unico, un oggetto inaccessibile, originale, inimitabile, irriproducibile.
Nelle pagine finali della sua Piccola storia della fotografia, Benjamin sottolinea il potenziale istruttivo ed educativo di alcune opere fotografiche, come le immagini della Parigi deserta di Atget o quelle presenti nel libro Menschen des 20. Jahrhunderts, di August Sander. Le fotografie di Atget illustrano bene, secondo Benjamin, la dimensione politica dello svanire dell'aura. Egli, infatti, riesce a “rimuovere il trucco dalla realtà”, restituendoci una forma di visione pura, libera dagli orpelli del simbolico e del pittoresco; le riprese fotografiche cominciano, così, a divenire documenti di prova nel processo storico. Escludendo il ritratto e la figura umana dalla scena, inoltre, Atget demolisce definitivamente il valore cultuale dell’immagine.

Boulevard de Strasbourg, 1912.

La fotografia degli inizi era attaccata alle tradizioni auratiche della pittura. Per Benjamin, oltre alle caratteristiche di unicità e irripetibilità del dagherrotipo, è la ritrattistica borghese a perpetuare la tradizione dell’aura, in quanto ripropone le convenzioni del “culto del ricordo” e del sentimentalismo della pittura. Le fotografie parigine emancipano la fotografia dall’aura, in quanto si allontanano dalla ritrattistica e ricercano ciò che Benjamin definisce il "principio oggettivo" della fotografia. Atget fotografa soprattutto le strade deserte di Parigi, i suoi angoli più marginali con gli oggetti del quotidiano. Le sue riprese consentono una visione diversa, che sottrae l’aura all’immagine, rivela ciò che è al di là della superficie e permette all’osservatore una fruizione più ravvicinata.
“Atget è stato il primo a disinfettare l'atmosfera stantia che la ritrattistica del periodo della decadenza aveva diffuso. Egli ripulisce questa atmosfera, anzi la disinfetta: introduce quella liberazione dell'oggetto dalla sua aura che costituisce il merito indiscutibile della più recente scuola fotografica. Egli perseguiva gli elementi dimessi, spariti, svaniti, e così le sue immagini si rivoltano contro il suono esotico, pomposo, romantico dei nomi della città; esse risucchiano l'aura dalla realtà, come l'acqua pompata da una nave che affonda. […] Sono queste le opere in cui si prefigura quella provvidenziale estraniazione tra il mondo circostante e l'uomo,che sarà il risultato della fotografia surrealista. Essa libera il campo per l'occhio politicamente educato, un campo in cui tutte le intimità scompaiono a favore del rischiaramento del particolare.”

Eugène Atget, Rue-des-Ursins, Parigi,1900

Benjamin paragona le fotografie di Atget di Parigi alle fotografie di una scena del crimine (Tatort); perché la fotografia ha la capacità di fare qualcosa che altri medium non possono, cioè accedere a ciò che rimane precluso all’esperienza. Lo spazio urbano è reso disponibile per un nuovo tipo di rivelazione, in cui ciò che fino ad allora risultava invisibile è rivelato e investito di valore probatorio.
Nelle fotografie sobrie e dirette di Atget, infatti, manca la rappresentazione di una scena vera e propria. Sono scorci urbani comuni e alquanto marginali, in cui non accade nulla, e sgombri, come se l'evento fosse già avvenuto e adesso fosse rimasto solo il teatro vuoto. Che Benjamin, molto efficacemente, paragona a una "scena del delitto". Il termine "delitto" enfatizza la natura della fotografia, che è quella di essere oggettiva, di riuscire a registrare tutti i particolari, anche quelli che sfuggono allo sguardo umano, come se fossero indizi. Con questo, il filosofo intende dimostrare lo specifico della fotografia, cioè la sua capacità di rivelare, di registrare, di costituirsi come prova storica, di svelare la realtà liberandola dalla patina ideologica che la tradizione gli ha sedimentato addosso, e di assumere, così, un valore sociale e politico.

Oltre ad Atget, nelle ultime pagine della sua Piccola storia della fotografia, Benjamin cita anche le fotografie presenti nel libro Ritratti del Ventesimo Secolo, del fotografo tedesco August Sander, come esempio di immagini private di ogni aura e dal potenziale conoscitivo ed educativo.  Se all’inizio, la ritrattistica fotografica cerca ancora di conservare l’aura, proponendo uno stile che si rifà al ritratto pittorico, Benjamin coglie nella nuova fotografia la crisi del ritratto borghese e l’emergere di un nuovo soggetto. Esempio lampante di questa nuova funzione della fotografia è il lavoro di Sander, che aveva creato una sorta di catalogo che illustrava la società tedesca durante la Repubblica di Weimar. L’opera, articolata in sette gruppi che rispecchiavano i diversi ceti sociali, costituisce una testimonianza della società a lui contemporanea, in quanto, nelle fotografie, le caratteristiche individuali si condensano in tipi sociali.

August Sander, "Muratore", 1928.

“E istantaneamente il volto umano ricomparve sulla lastra con un significato nuovo, enorme. Ma non si trattava più di ritratti. Di che cosa si trattava? È il grande merito di un fotografo tedesco, quello di aver risposto a questa domanda. August Sander ha raccolto una serie di teste che non ha nulla da invidiare alla poderosa galleria di fisionomie di un Eizenštein o di un Pudovkin, e lo ha fatto da un punto di vista scientifico”.
Attraverso l’opera di Sander, che sottomette il ritratto individuale alle esigenze archivistiche della serializzazione, possiamo cogliere un nuovo modo di concepire la fotografia, in grado di assumere delle funzioni sociali. Benjamin sottolinea il potenziale politico e istruttivo del libro del fotografo tedesco (“un atlante su cui esercitarsi”). La sua fotografia è lontana dalla ritrattistica di rappresentanza e appare ai suoi occhi come il corrispettivo, in ambito tedesco, di quell’esplorazione dell’espressività del volto che aveva caratterizzato il cinema sovietico degli anni Venti.




1 commento:

  1. Grazie per questo meraviglioso articolo! Sto studiando sociologia dell'arte e della letteratura, e mi è stato utilissimo! Grazie mille :)

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