Pagine

venerdì 16 novembre 2018

«C’est le regardeur qui fait l'oeuvre». Marcel Duchamp

Marcel Duchamp, Ruota di bicicletta, 1913.

L’inizio del XX secolo è segnato da cambiamenti importanti nel rapporto tra arte e spettatore. Il più dirompente, senza dubbio, è quello provocato da Marcel Duchamp, con i suoi ready-made, che implicano una svolta radicale nell’arte occidentale.
Quest’ultima, ormai da secoli, si era sempre mossa nel solco della “rappresentazione”. Rappresentare significa rimpiazzare qualcosa di assente, sostituire una cosa mancante attraverso l’immagine di essa (si pensi al mito di Dibutade, fondativo della pittura). La rappresentazione rende presente una persona o un oggetto che non c’è, senza purtuttavia confondersi con essi.

L’arte del Novecento, invece, intraprende anche un’altra strada, che è quella della “presentazione”, dove l’oggetto artistico non sostituisce qualcosa di assente, ma si presenta allo spettatore per se stesso, per la sua materia, forma, colore, plasticità. Più che rinviare a un qualcosa che non c’è, la presentazione si dona come presenza vera e propria. Quando lo spettatore guarda un quadro che riproduce una sedia, egli non si trova al cospetto dell’oggetto, ma della sua immagine. Viceversa, di fronte a un’installazione che impiega una sedia vera, lo spettatore è al cospetto di un dispositivo di presentazione, cioè dell’oggetto come presenza. In questo caso, l’opera non è più solo retinica (secondo un termine usato da Duchamp), ma, con la sua fisicità, essa sollecita tutti i sensi dello spettatore, non solo la sua vista, e implica la possibilità che egli assuma diverse posizioni, non solo quella frontale come avviene al cospetto di un’immagine bidimensionale.
Nella storia occidentale, l’inizio del XX secolo è descritto come un momento di svolta, in cui alla rappresentazione, alla sua forza di seduzione e di illusione, subentra la presentazione, che prende due forme: l’astrazione da una parte, dall’altra l’introduzione dell’oggetto reale nell’opera, proprio come i ready-made di Duchamp, figura fondamentale per comprendere le dinamiche profonde dell’arte novecentesca e contemporanea.

Fotografia di Alfred Stieglitz, Fountain, di Marcel Duchamp, 1917.

I ready-made sono degli oggetti di uso comune, prodotti in serie secondo il metodo industriale, che l’artista sceglie, rinomina e firma. Il suo intervento non consiste nel creare; dal punto di vista operativo è minimo, consistendo semplicemente nella ‘scelta’ di un oggetto che esiste già e che basta semplicemente indicare affinché prenda a vivere in una dimensione ‘altra’. E l’oggetto scelto, fino a quel momento identico a mille altri, ricollocato in un contesto nuovo, comincia in tal modo, grazie al semplice gesto dell’artista che l’ha scelto, a far parte di una dimensione altra, ideale, diversa da quella inerte e priva di significato delle cose comuni. E’ grazie a questo che un orinatoio qualsiasi si trasforma, per inframince, in “Fountaine”.
Siamo talmente abituati a identificare la forma di un oggetto con la sua funzione, che la prima finisce per essere ignorata. Solo sospendendo il valore funzionale dell'oggetto, possiamo finalmente vederne la forma. Astrarre un prodotto industriale dal suo valore utilitaristico, per esporlo come pura forma, induce lo sguardo dello spettatore a interessarsi a tale oggetto per se stesso, non per la sua funzione.
Il processo di creazione, più che esecutivo e artigianale, è di natura concettuale. Il passaggio dell’oggetto, estratto dal quotidiano, dalla dimensione ordinaria, in cui possiede un valore funzionale, alla dimensione artistica, in cui l’oggetto perde la sua utilità, è un processo più che altro mentale, che avviene piuttosto rapidamente, ma che denota quella differenza minima che Duchamp chiama ‘inframince’. Tuttavia, questo passaggio non può avvenire senza l’intervento interpretativo dell’osservatore, senza il quale il processo creativo resterebbe incompleto. E’ dunque lo spettatore a fare l’opera, aggiungendo il proprio contributo nell’elaborazione del significato (è questo un punto ribadito con forza dall’artista nella conferenza “The Creative Act”, tenuta a Houston nel 1957); i ready-mades, senza lo spettatore che collabori al processo di risemantizzazione dell’oggetto, non esisterebbero come oggetti d’arte, ma resterebbero ancorati alla funzione per cui sono stati fabbricati quali oggetti industriali.
Per comprendere questo punto, ci rifacciamo alla conferenza citata, in cui Duchamp dichiara che l’artista “agisce alla maniera di un essere medianico”, che non è pienamente cosciente, sul piano estetico, “di ciò che fa o perché lo fa”. Più avanti, nello stesso intervento, inoltre, definisce così ciò che intende per “coefficiente d’arte” di un’opera: consiste nella differenza “tra l’intenzione e la sua realizzazione, differenza di cui l’artista non è affatto cosciente”. Il “coefficiente d’arte” sarebbe insomma il rapporto tra “ciò che è inespresso ma era progettato” e “ciò che è espresso inintenzionalmente”.

Installazione della First Papers of Surrealism (North view), 1942. Philadelphia Museum of Art.

In questo scarto si inserisce il ruolo dello spettatore. L’opera realizzata dall’artista, infatti, è definita da Duchamp “arte allo stato grezzo”, che deve essere “raffinata” da parte dello spettatore, “proprio come succede allo zucchero puro partendo dalla melassa”. Grazie allo spettatore, il processo creativo si trasforma in una vera e propria “transustanziazione”, perché “l’importante ruolo dello spettatore è quello di determinare il peso dell’opera sulla bilancia estetica. In fin dei conti, l’artista non è da solo quando porta a compimento l’atto creativo; c’è anche lo spettatore che stabilisce il contatto fra l’opera e il mondo esterno, decifrando e interpretando le sue qualità profonde, e che, così facendo, aggiunge il proprio contributo al processo creativo”.
Il ripensamento del ruolo spettatoriale è radicale nell’operato di Duchamp anche per ciò che concerne le modalità di fruizione, al fine di mettere in discussione la pratica di visione disincarnata e puramente contemplativa che si attribuiva normalmente allo spettatore. Nel 1942 collabora con André Breton all’organizzazione della First Papers of Surrealism, a New York. L'allestimento era costituito da una fitta rete di fili di cotone che si intrecciavano per tutto lo spazio espositivo, saturandolo e intralciando la circolazione del pubblico e la visione dei quadri. Con questo stratagemma, Duchamp capovolge la normale fruizione che avviene in un museo. Lo scopo è quello di creare un dispositivo in grado di sollecitare la pulsione a vedere dello spettatore, decostruendo la nozione di un occhio puro e contemplativo, in favore di un occhio incarnato, cioè proprio di un soggetto dotato di un corpo e mosso dal desiderio.

Dietro una porta chiusa

Al tema dello sguardo e all’analisi della fruizione come visione è dedicata l’ultima, incredibile e controversa, opera di Duchamp, che può quasi essere considerata il suo testamento artistico. Si tratta di “Étant donnés: 1° la chute d'eau / 2° le gaz d'éclairage” (1946-1966), un’installazione realizzata per la prima volta nel Museum of Art di Philadelphia (luglio 1969), ma dopo la morte dell’artista, che all’opera aveva lavorato in segreto per venti anni (mentre tutto il mondo era convinto che avesse ormai abbandonato del tutto la creazione artistica), con la raccomandazione di farla esporre postuma, lasciando in proposito dettagliate istruzioni.


A prima vista, l’opera consiste in una grande porta sbarrata, di legno massiccio, anche se corroso dai tarli (proveniente da Caduqué), orlata da una cornice di mattoni e traforata da due piccoli fori a livello degli occhi. Guardando attraverso, si scorge un muro, aperto da una breccia, oltre la quale vediamo parte del corpo nudo di una donna, con le gambe divaricate, sdraiata di schiena tra la vegetazione, che regge una lampada con la mano sinistra. Il corpo è una sorta di manichino di gesso, ricoperto di pelle di cinghiale, che gli conferisce una notevole apparenza di carnalità. In fondo si scorge un paesaggio naturale a trompe l’oeil e una piccola cascata.




Fin da subito è chiaro che l’intento che si pone Duchamp attraverso l’assemblaggio di questi diversi materiali è di analizzare, quasi di dissezionare, l’atto del guardare da parte dello spettatore; gli stessi buchi nella porta non fanno che enfatizzarne lo status di intruso e di voyeur. Di fatto, più che guardare, la situazione impone l’atto dello sbirciare furtivamente, e certo si può intuire il disagio che può provare chi si trovasse davanti a una scena di quel tipo, la cui oscenità e, insieme, incongruenza colpiscono e disarmano lo sguardo dello spettatore. Duchamp, in questo modo, di fatto vincola la fruizione a quella modalità, che costringe l’osservatore all’immobilità e ne indirizza lo sguardo in modo obbligato. Come scrive Riccardo Caldura, “L’artista prepara il dispositivo pubblico – si è nella sala di un museo e non in un peep show – per denudare lo spettatore, per svelare quel che si celava dietro la parvenza di un’educazione e di un bisogno di cultura. Lo spettatore è il voyeur, e, dato il soggetto che vedrà, il pornografo per eccellenza. Soltanto che questo pornografo non può più celarsi nell’ombra e spiare, ma è costretto a essere visto in pubblico. Una sala di museo trasformandosi così in una sorta di gogna per l’espiazione dell’impudicizia del ‘voler’ vedere”. (in “Il luogo dello spettatore, a cura di Antonio Somaini).


Sono molte le speculazioni elaborate intorno a quest’opera, in primo luogo sulla natura mortifera dello sguardo maschile, che “oggettiva” (cioè trasforma in “oggetto”, materia inerte, e dunque uccide) il corpo della donna che si offre alla sua vista. Il corpo femminile finisce dunque per apparire un semplice residuo della violenza di quello sguardo, dopo che per secoli l’ha ridotto a puro oggetto.
Soffermiamoci, però, soprattutto sulle implicazioni dell’opera come dispositivo della visione. Possiamo facilmente intuire i rimandi a “L’origine du monde” di Courbet, da una parte, e a una xilografia di Albrecht Dürer, dall’altra, in cui si vede il pittore che guarda la sua modella sdraiata attraverso una finestra quadrettata, mantenendo un punto di vista fisso. D’altra parte il prospettografo, come dice lo stesso nome, era uno strumento finalizzato al dispositivo della visione per eccellenza dell’arte occidentale, la prospettiva.

Xilografia di Albrecht Durer, Draughtsman Drawing a Recumbent Woman. 1525. Graphische Sammlung Albertina, Vienna.

La porta con i fori di Duchamp ricorda inoltre il foro stenopeico della camera oscura, ma i due dispositivi sono alquanto diversi. Se per quanto riguarda la camera oscura, è l’immagine del mondo esterno che penetra all’interno dell’ambiente chiuso attraverso il raggio di luce, la porta di Duchamp, invece, separa due mondi diversi e ciò che penetra nella “scatola” dai fori è solo lo sguardo dello spettatore, che può osservarne l’interno solo da fuori, senza poter mai accedervi. Come scrive ancora Caldura, una porta chiusa è una “macchina di esclusione e separatezza, limite e linea di confine fra il ‘fuori’ del mondo e il ‘dentro’ dell’opera.
E a proposito di accesso interdetto, nel 1920 Rose Sèlavy, l’alter ego femminile di Marcel Duchamp, firma e data un ready-made che è la miniatura, fatta costruire da un falegname, di una porta-finestra che gli americani definiscono “alla francese”. Il titolo dell’opera è “Fresh widow”, che letteralmente significa ‘vedova recente’. L’idea della vedovanza sembra richiamata dall’elemento che caratterizza quest’oggetto rispetto al suo modello reale: i riquadri non sono di vetro trasparente, ma sono ricoperti di pelle nera e non permettono allo sguardo di vedere al di là di essi. Si tratta di una finestra ermetica: l’aspettativa di una immagine o di una scena al di là del vetro viene completamente delusa. Lo scopo della finestra viene negato. Questo oscuramento mette definitivamente in crisi la rappresentazione occidentale tradizionale.

Marcel Duchamp – Fresh widow, 1920, intelaiatura in legno e otto riquadri coperti di cuoio nero, MoMa – New York.

Duchamp riesce a rendere l’arte vedova della vista. Per poter vedere oltre, bisogna chiudere il mondo all’esterno, impedirsi di goderne la visione: tutto ciò per costruire un altro mondo possibile, interno al pensiero. L’artista sospende l'accesso al mondo esterno, per cedere spazio ad una nuova realtà pittorica.
Scrive Duchamp: “La pittura non dovrebbe essere solamente retinica o visiva; dovrebbe aver a che fare con la materia grigia della nostra comprensione invece di essere puramente visiva […] Per approccio retinico intendo il piacere estetico che dipende quasi esclusivamente dalla sensibilità della retina senza alcuna interpretazione ausiliaria”.
“Étant donnés”, “Fresh widow”, il “Grande Vetro”: queste tre opere di Duchamp, a cui possiamo aggiungere l’allestimento della “First Papers of Surrealism”, sono altrettanti dispositivi della visione che ne mettono in luce la problematicità. Essi richiedono lo spettatore come necessario complemento, ma limitano la sua possibilità di azione e di interazione. Ma, come scrive Octavio Paz, questa costrizione è il prezzo necessario da pagare per acquisire una consapevolezza critica e passare così “from voyeurism to clairvoyance”.




1 commento: