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martedì 20 novembre 2018

L’inconscio ottico e la mosca di Dreyer



Perché nessuno si soffermerebbe mai a osservare un ortaggio, mentre è attratto dai cavolfiori e dai peperoni di Weston? Rispondere a questa domanda coinvolge il discorso sulla natura stessa della fotografia, soprattutto sulla sua capacità di mostrare la realtà quotidiana in maniera differente da quella in cui ce la fanno percepire i nostri occhi.
Scrive Walter Benjamin in “Piccola storia della fotografia” (1931):

“Una tecnica esattissima riesce a conferire ai suoi prodotti un valore magico che un dipinto per noi non possiede più. Nonostante l’abilità del fotografo, nonostante il calcolo nell’atteggiamento del suo modello, l’osservatore sente il bisogno irresistibile di cercare nell’immagine quella scintilla magari minima di caso... La natura che parla alla macchina fotografica è infatti una natura diversa da quella che parla all’occhio; diversa specialmente per questo, che al posto di uno spazio elaborato consapevolmente dall’uomo, c’è uno spazio elaborato inconsciamente. Se è del tutto usuale che un uomo si renda conto, per esempio, dell’andatura della gente, sia pure all’ingrosso, egli di certo non sa nulla del loro contegno nel frammento di secondo in cui si allunga il passo. La fotografia, coi suoi mezzi ausiliari: con il rallentatore, con gli ingrandimenti, glielo mostra. Soltanto attraverso la fotografia egli scopre questo inconscio ottico, come, attraverso la psicanalisi, l’inconscio istintivo”.

Attraverso l'inconscio ottico, si riconosce al dispositivo fotografico la capacità di mostrare il mondo secondo una modalità diversa rispetto a quella di cui è capace lo sguardo umano. Grazie alla tecnica fotografica, all’esattezza e impassibilità dell’obiettivo, si ottiene uno spazio elaborato inconsciamente, che rivela particolari ignoti e imprevisti, dettagli insignificanti che sfuggono alla visione ordinaria.

Con l’ingrandimento e con il rallentatore, l’immagine cinematografica, che si basa sulla tecnica della fotografia, porta in luce «formazioni strutturali della materia completamente nuove», scoprendo aspetti ignoti, ambienti banali che appaiono trasfigurati, dettagli insignificanti che si mostrano in primo piano, mentre i luoghi si trasformano e il movimento cambia velocità.
Si tratta, insomma, di riconoscere come i dispositivi fotografici abbiano prodotto notevoli trasformazioni sulla percezione umana del mondo (dando la possibilità di indagare fenomeni inaccessibili prima del XIX secolo; si pensi alle ricerche sul movimento) e anche sull’esperienza estetica, non solo avvicinando l’immagine e mettendola a disposizione del fruitore in modo diffuso, provocando la “decadenza dell’aura”, ma anche permettendo lo sviluppo di nuove forme artistiche, come la fotografia e il cinema, che grazie alla loro tecnica sono in grado di catturare e di mostrare l’inconscio ottico, aprendo nuove possibilità espressive.
In “L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica”, Benjamin riprenderà il concetto espresso nell'opera precedente, approfondendolo soprattutto dal punto di vista cinematografico:

“Si capisce così come la natura che parla alla cinepresa sia diversa da quella che parla all’occhio. Diversa specialmente per il fatto che al posto di uno spazio elaborato dalla coscienza dell’uomo interviene uno spazio elaborato inconsciamente. [...] Se siamo più o meno abituati al gesto di afferrare l’accendisigari o il cucchiaio, non sappiamo pressoché nulla di ciò che effettivamente avviene tra la mano e il metallo, per non dire poi del modo in cui ciò varia in relazione agli stati d’animo in cui noi ci troviamo. Qui interviene la cinepresa coi suoi mezzi ausiliari, col suo scendere e salire, col suo interrompere e isolare, col suo ampliare e contrarre il processo, col suo ingrandire e ridurre. Dell’inconscio ottico sappiamo qualcosa soltanto grazie ad essa, come dell’inconscio istintivo grazie alla psicanalisi.” (L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica)

Cerchiamo, innanzitutto, di dare una cornice storica al primo dei termini di questa locuzione: inconscio. Il Novecento è segnato, fin dall’inizio, dalla nascita e dallo sviluppo della psicanalisi, che opera un’influenza determinante sul contesto culturale e artistico, e che si fonda, come è noto, proprio sulla scoperta dell’inconscio. D’altra parte, il mondo dell’arte rompe radicalmente con la tradizione: le nuove rappresentazioni non sono riproduzioni della realtà oggettiva, ma acquisiscono una tale complessità visiva da non essere immediatamente riconoscibili. Esse rappresentano l’interiorità, il disagio della condizione moderna, dando espressione all’inconscio, che viene vissuto, mostrato e condiviso attraverso l’arte. Il dato importante è che in questo modo si stabilisce una connessione tra percezione visiva e ciò che sta al di sotto della soglia di consapevolezza, tra ottica e inconscio.
In questo contesto, non stupisce l’utilizzo, a prima vista incongruo, dell’uso del termine “inconscio” da parte di Benjamin, in riferimento al funzionamento di strumenti ottici. L’occhio umano e quello meccanico colgono la realtà evidentemente in modo diverso. La macchina fotografica e la cinepresa registrano tutto ciò che è di fronte al loro obiettivo, elaborando lo spazio in modo inconscio; in un secondo tempo, attraverso i mezzi insiti nella loro tecnica, quali l’ingrandimento, la riduzione, la slow motion, quelle immagini offrono la possibilità di indagare su aspetti della realtà che l’occhio umano non aveva percepito o l’aveva fatto in modo inconsapevole.
Proprio la possibilità di analizzare da vicino, di isolare, di rallentare, di riguardare, fa emergere nel flusso di immagini cinematografiche elementi imprevisti, che l’obiettivo casualmente cattura, pur essendo sfuggiti del tutto alla volontà del regista e dell’operatore. La realtà esterna, come puro accadere, può così irrompere con forza sullo schermo proprio grazie all'impassibilità della macchina, che registra ogni cosa senza filtrare, e in questo modo è in grado di accogliere l’imprevedibile, costituendolo come evento.
Questi aspetti sono colti dall’obiettivo meccanico in modo del tutto fortuito; e qui emerge il carattere quasi paradossale del legame tra l’esattezza tecnica della macchina, che riprende immagini precise del reale, e la contingenza e la casualità con cui può fare irruzione l’imprevedibile.
Nel suo libro, “La mosca di Dreyer”, Massimo Carboni dedica attenzione a un capolavoro della cinematografica mondiale, “La passione di Giovanna D’Arco” (1928) di Carl Theodor Dreyer, un film che presentava scelte stilistiche alquanto radicali: inquadrature oblique, decentrate, e soprattutto elevata frequenza di primi e primissimi piani che seguono in modo quasi ossessivo il volto e gli stati d’animo della protagonista, interpretata dall’attrice Renée Falconetti.


In una scena particolarmente tesa e drammatica della pellicola, ad un certo punto si verifica un evento del tutto inaspettato: una mosca irrompe sulla scena, posandosi sul volto di Giovanna. Lo stesso regista, maestro del controllo e del rigore formale, anni dopo, in un’intervista dichiarò: “Vi ricordate di quella mosca sul viso di Giovanna d’Arco? Cercavo di fissare sulla pellicola tutto il rigore logico dell’azione e la situazione psicologica dei personaggi. E poi, ecco quella mosca che si posa sul volto della Falconetti. Era un dono del cielo. Temevo che l’operatore fermasse i motori, invece no, egli aveva capito, ch’era un elemento nuovo, una terza dimensione che veniva a introdursi nella scena. Chiamate questo mistico, se volete.”
L’episodio della mosca di Dreyer “indica come l’opera d’arte, e soprattutto l’opera d’arte moderno-contemporanea sia qualcosa che, nel suo stesso farsi, appare radicalmente esposta all’evento fortuito che si dona, alla nuda contingenza che irrompe a partire da un fuori ignoto e incontrollabile, ove domina incontrastata l’equiprobabilità dell’accadere”. (M. Carboni, La mosca di Dreyer).
Fin dai suoi esordi, il cinema – molto più di ogni altra pratica tecnico-artistica – è sia controllo che contingenza (quanto meno il cinema su pellicola). Il cinema vuole rappresentare la vita reale, ma questa spesso “si rivela sempre più o meno refrattaria alla sua stessa impaginazione, penetra e si infiltra continuamente, talora surrettiziamente, nella rappresentazione”. (M. Carboni). Contingenza, accidentalità, eccedenza: questi elementi non solo rappresentano il paradigma della condizione umana, ma caratterizzano lo stesso farsi dell’arte. Anzi, sono essenziali perché vi sia esperienza estetica. E proprio il cinema, avendo la capacità tecnica di mettere in scena e di riprodurre l’inconscio come contingenza involontaria che avviene, da tale punto di vista può essere definito la verità di tutte le arti: il mondo trasformato dall’obiettivo ci appare più carico di senso, i luoghi più banali divengono significativi, i dettagli di oggetti inanimati, scollegati dalla loro funzione utilitaristica, diventano rivelatori e sembrano acquistare un’anima.
A queste conclusioni perverrà anche un altro teorico del cinema, e regista egli stesso: il polacco Jean Epstein, secondo il quale la macchina da presa è come un essere pensante, le cui straordinarie capacità analitiche permettono una nuova e rivoluzionaria visione del mondo. Lo sguardo della macchina sovverte la razionalità del pensiero tradizionale registrando nell’indifferenza dell’obiettivo ciò che l’occhio umano non può vedere. L’essenziale del cinema – come emerge anche nei suoi film, tra tutti “La caduta di casa Usher” (1928) – non è l’azione drammatica, la storia raccontata, quanto le proprietà visive delle immagini, la loro “fotogenia”. Questo termine, ripreso dalla riflessione del teorico e regista Louis Delluc, designa quel particolare aspetto dell’oggetto fotografato che può essere rivelato soltanto dall’obiettivo, e che rende l’oggetto stesso carico di significato.
Se l’obiettivo coglie aspetti impercettibili per l’occhio umano, lo spettatore vede nel film quello che il cinema ha già visto, con uno sguardo “elevato al quadrato”. Per questo motivo secondo Epstein il cinema è “soprannaturale”, è una “arte spiritica”, in quanto provoca delle “apparizioni”: «Il mio occhio mi fornisce l’idea di una forma, anche la pellicola contiene l’idea di una forma, idea inscritta al di fuori della mia coscienza, idea priva di coscienza, idea latente, segreta, ma meravigliosa» (Epstein, “Bonjour cinéma”).

A questo link una sintesi del saggio di Carboni:
http://www.uzak.it/rivista/uzak-22/lo-stato-delle-cose/la-mosca-di-dreyer-e-lopera-della-contingenza.html

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