Pagine

mercoledì 18 luglio 2018

Prospettiva lineare e prospettiva rovesciata. Un confronto



La prospettiva è un modo di appropriarsi del visibile. L’immagine prospettica non è altro che la simulazione di uno sguardo, cioè la ricostruzione della visione di un soggetto, immaginato come spettatore di una scena (benché monoculare e immobile). Con la prospettiva lo sguardo diviene immagine. L’immagine prospettica rappresenta lo sguardo che l’osservatore rivolge al mondo (Hans Belting). E’ questo il senso della metafora albertiana della finestra (il quadro è come una finestra aperta sul mondo). Non era così nel Medioevo, dove la pittura era soprattutto rappresentazione di simboli e anche lo spazio veniva rappresentato simbolicamente, per mezzo di attributi di valore e di significato morale.

Beato Angelico, Annunciazione, 1437-46, Firenze, Convento di San Marco.


domenica 15 luglio 2018

L'immagine prospettica



Se c’è un dispositivo di rappresentazione che assegna una precisa collocazione spaziale allo spettatore, quello è senza dubbio costituito dall’immagine prospettica, teorizzata da Leon Battista Alberti nel 1435 nel suo trattato "De Pictura". Anzi, la prospettiva lineare ha nel punto di vista dell’osservatore il suo fondamento basilare e costitutivo.

Il quadro come "finestra sul mondo"

Innanzitutto, la prospettiva è la scienza che consente di rappresentare su un piano oggetti tridimensionali, in modo che l’immagine proiettata corrisponda a quella della visione diretta.
Una delle tesi centrali del trattato albertiano è quella secondo la quale la pittura ha per oggetto l’aspetto visibile della realtà. Ma quest’ultima, così come la visione naturale di essa, è ordinata secondo le leggi dell’ottica e della geometria euclidea; pertanto, anche la sua rappresentazione, per adeguarsi alla visione naturale, non potrà che essere ordinata dalle stesse leggi ottico-geometriche.
Secondo Alberti, occorre immaginare il quadro come una finestra aperta sul mondo.

L'incontro con Dio. L'icona orientale.

Mosaico Basilica di Santa Sofia.


L’icona orientale è profondamente transitiva, nel significato enunciato da John Shearman, nel senso che stabilisce una relazione molto profonda con colui che impropriamente definiamo spettatore, in quanto, per ciò che concerne l’iconografia orientale, sarebbe più opportuno chiamare “fedele”. Ma la transitività dell’immagine sacra orientale ha caratteristiche molto diverse da quelle che concernono l’immagine occidentale, almeno a partire dal Quattrocento.
Come Cristo ha una natura sia umana che divina, anche l’icona ha una doppia natura, fatta di visibilità e invisibilità, di esteriorità e interiorità. Ma qui non si intende opporre visibile a invisibile. L’icona non è la manifestazione sensibile dell’idea invisibile, non è l’apparenza dietro la quale si nasconde la vera realtà, ma piuttosto qualcosa che, pur essendo altro dal visibile, si rivela tuttavia nel visibile stesso, esattamente come Cristo il quale si dà nel mondo senza essere del mondo. L’icona è la «porta regale», come voleva Florenskij, attraverso la quale si manifesta l’invisibile e si trasfigura il visibile: in essa non c’è né imitazione, né rappresentazione, ma autentica epifania, “presentazione” e comunicazione tra questo e l’altro mondo.

L'immagine transitiva

Giotto, Storie di San Francesco. Presepe di Greccio, 1295-99, Basilica Superiore di Assisi.

In un suo testo, John Shearman indaga i rapporti tra l’opera d’arte e lo spettatore durante il Rinascimento, a partire dal Quattrocento. La tesi dell’autore è quella secondo cui le opere di questo periodo presuppongono e operano un maggiore coinvolgimento dello spettatore rispetto al passato, che anzi l’opera d’arte trova il suo completamento nella partecipazione dello spettatore alla vicenda narrata. Ciò significa che il fuoco intorno al quale, entro il quadro, si concentrano le azioni viene descritto come collegato ad un altro fuoco esterno ad esso. Per questo Shearman definisce “transitiva” la relazione tra opera d’arte e spettatore del Rinascimento. “Transitiva” nel senso che l’opera non esaurisce l’azione in sé, ma la estende a un soggetto esterno. Questa modalità viene adottata in quanto “permette la più completa e vivida presentazione del soggetto allo spettatore” (J. Shearman, Arte e spettatore nel Rinascimento italiano. "Only connect...", Jaca Book, Milano 1995, ed. orig. 1992), e dunque un più forte coinvolgimento psicologico, emotivo e affettivo, di quest’ultimo nella vicenda narrata.

Il punto di vista. Osservatore e Spettatore

Thomas Struth, National Gallery 1, London 1989.

Questo nuovo percorso avrà come tema il ruolo dello spettatore. Cercherà di indagare alcuni aspetti riguardanti la fruizione di immagini e la loro evoluzione storica.
Questo blog ha trattato più volte in passato argomenti che puntavano l’attenzione sui vari modi in cui si declina il rapporto tra l'interno della rappresentazione e lo spazio esterno: elementi iconografici come gli specchi, le ombre, gli sguardi dei personaggi rivolti all’osservatore sono alcuni dei temi affrontati che si proponevano di esplorare le maniere in cui l’immagine invita spesso lo spettatore a indagare lo spazio oltre il limite stabilito dalla cornice, quello che viene chiamato “fuori campo” . D'ora in poi si cercherà di analizzare il modo in cui l’immagine si rivolge al proprio spettatore.

lunedì 9 luglio 2018

Uno sguardo "ammonitore"

Leonardo da Vinci, Vergine delle Rocce,  particolare, 1483-86, Musée du Louvre di Parigi.

Nel secondo libro del De Pictura, Leon Battista Alberti scrive:

“Et piacemi sia nella storia chi admonisca et insegni ad noi quello che ivi si facci: o chiami con la mano a vedere o, con viso cruccioso e con li occhi turbati minacci, che niuno verso lor vada; o dimostri qualche pericolo o cosa ivi meravigliosa, o te inviti a piagnere con loro insieme o a ridere ”.

Con queste parole l'Alberti fonda una nuova regola di composizione dell'opera, in base alla quale occorre collocare sulla scena la figura di un “ammonitore” (“admonitor”, spesso indicato in letteratura anche con il termine “commentator” o “advocator”), cioè un personaggio che assiste all'evento rappresentato e che contemporaneamente attira e sollecita l'attenzione dello spettatore, esortandolo a guardare e a comprendere quanto sta accadendo, guidando il suo sguardo e indicandogli “cosa” guardare e “come” guardarlo, suggerendogli inoltre la risposta emotiva più appropriata. Egli è un intermediario, testimone e nello stesso tempo narratore, figura dal ruolo doppio, ambiguamente collocata tra la finzione del quadro e il mondo reale.

domenica 8 luglio 2018

Paul Strand. Ombre a Wall Street

Paul Strand, Wall Street, 1915, Philadelphia Museum of Art e Whitney Museum of American Art.

Agli inizi della carriera, per un breve periodo, Paul Strand aderì al movimento pittorialista, che proponeva una fotografia artefatta, realizzata in studio con scenografie e comparse e manipolata pesantemente in post produzione al fine di sembrare un dipinto.
Sotto l’influsso di Hine e Stieglitz, tuttavia, se ne distaccò ben presto per sposare una fotografia “straight”, diretta, pura. Se i pittorialisti utilizzano il medium come strumento di costruzione simbolica, che ha come modello il quadro e la tecnica pittorica, un certo numero di fotografi, agli inizi del secondo decennio del Novecento, vedono le potenzialità artistiche di questo medium nelle peculiarità del mezzo tecnico di rappresentazione della realtà. Nasce così la fotografia straight (diretta), che rifiuta ogni forma di manipolazione che costringe l’immagine tecnicamente riprodotta ad emulare la pittura. La fotografia, pertanto, non viene più considerata come il mezzo per ottenere una rappresentazione simil-pittorica del soggetto ripreso, ma uno strumento che, per il suo approccio meccanico, è in grado di catturare la realtà del soggetto.

André Kertész. L'ombra di una forchetta

André Kertész, La Fourchette, 1928.

Una forchetta e un piatto si trasformano, in una celebre fotografia di André Kertész, da elementi semplici e insignificanti della vita quotidiana in una nuova realtà: un’immagine essenziale quanto raffinata, un'esperienza misteriosa, una poesia formale, grazie soprattutto all’uso dell’ombra, che conferisce all’oggetto un aspetto diverso, inconsueto.
Un’immagine che trasmette anche una sensazione di malinconia, forse perché ci fa percepire, con sorpresa, quante possibili forme si nascondono dietro l’apparenza comune delle cose. D’altra parte Susan Sontag definiva la fotografia di Kertész 'a wing of pathos', capace certamente non solo di straordinarie composizioni formali, ma anche di elevare dettagli apparentemente banali in poesia meditativa.

Ombre dall'alto. Alexander Rodčenko

Alexander Rodčenko, La scalinata, 1930.

Alexander Rodčenko è stato un artista poliedrico, figura chiave dell'avanguardia russa e uno dei capofila del Costruttivismo. Grande fu l'influenza che esercitò su varie arti, tra cui il design, l'architettura e in particolare la fotografia, tanto da essere considerato il padre della fotografia modernista sovietica.
Attraverso le sue opere, Rodčenko dimostra chiaramente che la fotografia possiede un proprio linguaggio visivo, che supera le convenzioni pittorialiste della fotografia "artistica" radicatasi nella seconda metà dell'Ottocento, la quale cercava di riprodurre lo schema compositivo della pittura, imitando i generi classici come il ritratto, il paesaggio o la natura morta.

Tim Noble e Sue Webster. Le ombre dei nostri rifiuti

Tim Noble e Sue Webster, DIRTY WHITE TRASH (WITH GULLS), 1998.

Tim Noble e Sue Webster sono artisti londinesi, famosi soprattutto per i loro lavori di Shadow Art. Essi assemblano gli oggetti più vari, immondizia, animali impagliati, parti di scheletri e ferraglie: a prima vista, vediamo confuse pile di rifiuti, i comuni sottoprodotti di una società consumistica. Scopriamo ben presto, tuttavia, che i mucchi di spazzatura sono in realtà costruzioni precise che, sotto l’azione della luce, proiettano ombre nitide e figurative, in genere le sagome degli stessi artisti.
Da scarti di legno, rottami metallici saldati, utensili rotti, pacchetti di sigarette, lattine di soda e mucchi di spazzatura, i due artisti creano assemblaggi che proiettano ombre dei loro autoritratti mentre sono in piedi, seduti, fumando, bevendo o in altro atteggiamento facilmente riconoscibile. Ogni frammento o oggetto viene posizionato con precisione, prendendo in considerazione la sua distanza dal muro e il suo angolo con il riflettore. Il risultato è sorprendente e potente in quanto le sculture d’ombra riescono a fondere l'astratto e il figurativo.
La materia plasmata è un materiale di scarto, consumato e gettato via, allontanato dalle nostre vite. Noble e Webster, invece, gli conferiscono vita nuova, un nuovo contesto e un nuovo significato, portandoci a contemplarlo da una diversa prospettiva. I loro mucchi di spazzatura sono degli anti-monumenti esibiti nei musei e che evidenziano il proprio debito concettuale con la Pop Art e il ready-made di Duchamp.
E illuminando questi "anti-monumenti", gli artisti espongono se stessi, cioè i soggetti insieme responsabili e della produzione di quei rifiuti e della loro trasformazione in oggetto d’arte.
Ma queste proiezioni simboleggiano anche l'elusività della responsabilità, poiché la nostra percezione sembra sollevata dalla possibilità di distogliere lo sguardo dalle montagne di spazzatura che testimoniano il nostro sconsiderato stile di vita per volgerlo a qualcosa di più piacevole: delle figure umane.
"Dirty White Trash (with Gulls)", è composto dai rifiuti consumati dai due artisti nel corso dei sei mesi impiegati per la sua realizzazione: i resti di tutto ciò di cui avevano bisogno per sopravvivere durante il tempo necessario per ultimare il lavoro. Una singola fonte di luce illumina il mucchio di spazzatura proiettando così un ritratto in ombra, che contrasta nettamente con i materiali utilizzati per crearlo: gli artisti si appoggiano l'uno contro l'altro, schiena contro schiena, godendosi un bicchiere di vino e una sigaretta. L’intera opera è un incontro di bellezza e sporcizia, di forma e anti-forma.
Cumuli di oggetti gettati via celebrano l’autoritratto degli artisti stessi. Residui e scarti di oggetti, la cui funzione e ragione consistevano nell’essere utilizzati dall’uomo, una volta usati ne trattengono sia impronta che l’immagine, che vediamo proiettata su una parete. L’ambiguità dell’opera rivela anche il proprio messaggio provocatorio, che sembra emanare dalle sagome degli autoritratti spensierati: cosa siamo se non la proiezione di ciò che consumiamo?

A questo link una selezione di opere dei due artisti.
http://www.timnobleandsuewebster.com/artwerks.html

Shadow Art

La Shadow Art è un genere artistico contemporaneo, in cui protagonista assoluta è proprio l’ombra portata.
A questo link un sito che raccoglie varie esperienze di Shadow Art, di artisti di tutto il mondo: http://shadowart.altervista.org/
In genere, ciò che caratterizza queste “sculture d’ombra” è lo stesso principio delle ombre cinesi, e cioè che la forma non è quasi mai contenuta nella materia. Anzi, tra queste due viene meno ogni corrispondenza immediatamente apparente. Il soggetto, per manifestarsi, ha bisogno della luce. E’ questa a liberare la figura da quello che spesso sembra solo un groviglio informe di vari tipi di materia e privo di qualunque significato.

Teodosio Sectio Aurea, Akina spring flower, 2013-2014.

Ombre infedeli

Alcuni esempi di un uso retorico dell'ombra. Quest'ultima non è la proiezione fedele di un soggetto, ma una presenza con funzione narrativa. Negli esempi seguenti, l'ombra racconta qualcosa del passato o del futuro dei personaggi.

L'ombra del passato.
Quest'immagine è all'insegna del rimpianto e della nostalgia.

Lyubomir Bukov, Shadows of the Past, 2014.