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venerdì 15 dicembre 2017

Una finestra su una Parigi da fine del mondo

Jacques Louis Daguerre, Boulevard du Temple, Paris, 1838.

Come quella di Niépce, considerata la prima fotografia della storia, viene realizzata da una finestra anche la celebre Boulevard du Temple, che Daguerre esegue dallo studio della sua casa di Parigi. Una fotografia che detiene anch'essa un primato, in quanto prima della storia in cui si vede una figura umana.
Nonostante a quell'ora il boulevard dovesse essere affollato di passanti e di carrozze, nel dagherrotipo appare deserto a causa del grande tempo di esposizione occorrente (dai 15 ai 20 minuti), che impediva l'impressione di oggetti in movimento. Ma se si guarda bene, si riesce a vedere una piccola sagoma nera sul marciapiede in basso a sinistra. Si tratta di un uomo che si sta facendo lucidare gli stivali ed è rimasto immobile per un tempo sufficientemente lungo, con la gamba sollevata e poggiata sul banchetto del lustrascarpe.
Il filosofo Giorgio Agamben, nel suo saggio del 2004 Il Giudizio Universale, cerca di indicare il significato simbolico di questa foto, che mette in luce la novità epocale del fare fotografia.
Se guardiamo bene la foto, siamo investiti da un'impressione surreale. Abbiamo una vista sulla metropoli molto estesa, aperta sul grande viale cittadino. Gli edifici, così come tutto il paesaggio, sono resi con grande precisione dei dettagli, conferendo all'immagine un grande realismo, sconosciuto a quei tempi. Tuttavia, quel luogo, che dovrebbe essere pieno di vita e di movimento, sembra invece uno scenario da fine del mondo, il fotogramma di un film apocalittico. Fa effetto, nel vuoto generale, la figura di quell'uomo alle prese con le banalità della vita, mentre tutto intorno la vita sembra scomparsa.
Quell'uomo che compare nell'immagine, infatti, è colto nel gesto più comune e insignificante, eppure, ecco la grandezza della fotografia: l'immagine impressa riesce a sottrarre l'uomo al fluente divenire del traffico cittadino, a fermare quel gesto quotidiano e a caricarlo del peso di un'intera esistenza. La fotografia è infatti un gesto lieve grazie al quale l’ignara persona catturata dall’obiettivo viene consegnata «per sempre al suo gesto più infimo e quotidiano».
Nel saggio citato, Agamben prende spunto da questa foto storica per riflettere sul significato e sulle finalità della fotografia in generale. Scrive il filosofo: “la fotografia … è in qualche modo il luogo del Giudizio universale, essa rappresenta il mondo come appare nell’ultimo giorno, nel Giorno della Collera”. Detto fuor di metafora, la foto preleva una porzione di realtà e la eleva a una dimensione universale; dice che quella porzione di realtà ha un significato, ma senza dirci quale.
Inoltre, vi è un altro aspetto della fotografia sottolineato da Agamben: "Si tratta di un'esigenza: il soggetto ripreso nella foto esige da noi qualcosa (...) Anche se la persona fotografata fosse oggi completamente dimenticata, anche se il suo nome fosse cancellato per sempre dalla memoria degli uomini, ebbene malgrado questo - anzi, precisamente per questo - quella persona, quel volto esigono il loro nome, esigono di non essere dimenticate". Siamo talmente abituati a produrre immagini di cose e di persone, compresi noi stessi, che forse sta venendo un po' meno la consapevolezza di questo significato della fotografia.


Gli spettatori dei primi dagherrotipi spesso non riuscivano a fissare la foto che ritraeva qualcuno e dovevano distogliere lo sguardo. Si sentivano a loro volta guardati da quelle persone nella foto, o forse facevano fatica a sopportare la muta richiesta che una foto ci rivolge sempre: quella di non dimenticare. In fondo una foto è sempre una scelta tra ciò che va perduto e ciò che rimane, tra il "sommerso" e il "salvato".
Ma c'è un altro elemento messo in campo da questa fotografia, che si presenta quasi come il biglietto da visita di questa nuova tecnologia di produzione di immagini, mostrandone fin dall'inizio ambivalenze, limiti e potenzialità: la fotografia è un insieme indissolubile di presenza e di assenza, di prelievo e di costruzione, di copiatura e di messa in forma; è nello stesso tempo gesto che fa vedere e che nasconde, che rende visibile qualcosa che c'è nel mentre lo trasforma, lo traduce secondo delle modalità iconografiche peculiari alla sua tecnologia. Boulevard du Temple è pertanto quasi un manifesto programmatico, che fin dall'inizio getta sul tavolo e dichiara l'ambiguità, meravigliosamente produttiva, di questo nuovo modo di porsi di fronte al mondo per trasformare in immagine lo sguardo su di esso.

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