Da Crazy Museum, immagine realizzata con DALL·E 3 |
Per capire meglio come funzionano i modelli generativi TTI (text-to-image) niente di meglio che cominciare ad usarli. Nasce così, quasi per gioco, la serie Crazy Museum, che pubblico da qualche mese su Instagram (https://www.instagram.com/crazy.museum?igsh=MzYxdTZqbGoyaDMx) e realizzata utilizzando DALL·E 3, in cui si susseguono immagini realistiche ambientate in un museo inesistente e atipico, dove i visitatori interagiscono attivamente con i quadri o con le sculture esposte e la cornice diventa uno spazio fluido da attraversare per entrare nello spazio dipinto o per uscirne fuori. Ma, da dove viene l'idea?
Avevo quindici anni quando, sugli schermi di DJ Television, arrivò la clip del brano degli A-ha, Take on me, e per me fu una folgorazione. Cornici di fumetti da cui poter entrare e uscire, una donna che afferrava una mano che sbucava da una pagina ed entrava in un mondo a due dimensioni, personaggi di carta che oltrepassavano quella cornice nel verso opposto e diventavano persone vere.
Nello stesso periodo lessi La storia infinita di Michael Ende, e anche lì il miracolo si ripeteva: Bastian poteva attraversare la barriera di carta del libro che stava leggendo ed entrare nel mondo di Fantàsia.
Tre anni dopo uscì al cinema Chi ha incastrato Roger Rabbit e, molti anni dopo, Una notte al museo, dove è tutto un pullulare di personaggi e creature che di notte abbandonano la propria teca, varcano ancora una cornice e penetrano in un'altra dimensione, quella abitata da uomini e donne in carne e ossa.
Ma a quel punto avevo già conosciuto Pirandello, i suoi Personaggi in cerca d'autore e vari altri racconti e storie e drammi teatrali in cui lo scambio si ripeteva.
Poi cominciò lo studio delle immagini e senza volerlo i miei interessi seguirono, come sotto la direzione di una regia inconscia, percorsi che avevano come tema ancora le varie sfaccettature di quella membrana permeabile tra finzione e realtà: le cornici, gli specchi (soprattutto quelli che infrangono la quarta parete), le finestre, i parerga (come gli insetti dipinti), gli sguardi, i gesti, come gli indici puntati degli admonitor, i trompe-l'oeil, insomma tutti quegli elementi che conducono l'immagine su una linea di confine instabile tra lo spazio della rappresentazione e quello del mondo esterno, lo spazio dello spettatore.
Oggi sappiamo che questo desiderio di immergersi all'interno delle immagini è qualcosa di antico, addirittura di ancestrale. Risale nientemeno che ai graffiti su roccia del Paleolitico, quando si approfittava dei rilievi e delle sporgenze delle rocce per conferire alle immagini una certa profondità e quindi un certo grado di immersività.
Un'antica leggenda cinese racconta di un pittore della dinastia T’ang, Wu Tao-tzu (680-740) il quale, ricevuto dall’imperatore Xuan Zong l’incarico di realizzare una pittura di paesaggio su una parete del palazzo, invitò il sovrano ad ammirare il dipinto da vicino. Al battito delle sue mani, una porta dipinta sul fianco di una montagna si spalancò, ed entrambi scomparvero dentro il dipinto, e non fecero mai più ritorno.
Generalmente abbiamo un'idea dei musei come templi in cui recarsi quasi in pellegrinaggio per contemplare (verbo che nella sua etimologia contiene il termine templum, il quale designava la zona sacra destinata alle divinazioni tracciata dagli aruspici romani in cielo oppure al suolo) degli oggetti che, in virtù della loro cornice, vengono vissuti come superfici significative isolate dal mondo circostante. È lo stesso museo, d'altra parte, in quanto istituzione, la cornice primaria che raccoglie i quadri e le sculture al suo interno, collocandoli in uno spazio diversamente significante rispetto al resto dello spazio urbano.
Oggi siamo più consapevoli (anche le neuroscienze lo dimostrano) che il rapporto con le immagini non si limita all'attività di un soggetto che guarda e contempla, ma ci impegna in un coinvolgimento molto più forte e a più livelli sensoriali. Le immagini non sono oggetti passivi che sottostanno docili e buone al nostro sguardo. Sono presenze più o meno discrete che ci guardano a loro volta, ci interrogano, ci seducono, ci afferrano, ci ingaggiano in un corpo a corpo. La cornice non è un recinto che ci tiene al riparo dalla loro influenza, né preserva loro dalla nostra. Le immagini non possono trattenere la loro naturale attitudine all'indocilità, a forzare schemi precostituiti e interpretazioni rigide, a sfuggire alle intenzioni con cui vengono messe al mondo e a quelle con cui vengono recepite da chi le guarda. Esse non si lasciano mai plasmare da una forma immutabile che le trattiene in uno stato di inerzia. Le immagini agiscono su di noi e noi su di loro e la cornice è un luogo instabile da cui si entra e si esce, a volte si irrompe con impeto. Visitare un museo non è l'attività appagante di uno spirito che vuole prendersi una pausa dall'affanno quotidiano, una fuga dalla vita, una parentesi, chiusa la quale tutto torna tale e quale a prima. Entrare in un museo è come andare a fare visita a una di quelle persone particolari, un po' eccentriche, che ti servono il tè in silenzio davanti a un grande specchio, che ti mettono nella condizione di riflettere e pesare bene ogni parola pronunciata, che ti sorprendono all'improvviso con un tocco della mano e domande inaspettate che ti fanno trasalire, esigendo sincerità e lealtà, che riescono a trasformare ogni sfumatura in sensazione vissuta e che fanno di quell'incontro un'esperienza che ti porterai dietro come una traccia indelebile.
Nel Crazy Museum le immagini non stanno ferme e buone nella loro cornice a farsi guardare. Né gli spettatori se ne stanno a distanza a contemplarle. Tutti, personaggi dipinti e visitatori in carne ed ossa, sono attori che condividono lo stesso spazio, in questo movimento avanti e indietro attraverso la membrana disegnata dalla cornice e continuamente infranta e attraversata, disubbidendo all'imperativo della separazione di mondi e del dovuto rispetto delle distanze devozionali. È per questo che la maggior parte delle immagini si ispirano alla pittura del Seicento, il secolo che più intensamente ha cominciato a riflettere e praticare un'arte il più possibile immersiva e a cercare di inglobare lo spettatore all'interno dello spazio rappresentato. Basta guardare Las Meninas di Velasquez per provare questa sensazione di trascinamento.
Molti fotografi, in passato, hanno colto questo rapporto, attraverso lo strumento a disposizione. Con i modelli generativi di immagini sintetiche è possibile ibridare la grafica pittorica e quella fotografica in un modo che finora era possibile solo tramite costosissime procedure di CGI, dando una certa fluidità all'azione che si svolge tra una realtà bidimensionale e una a tre dimensioni e permettendo quel movimento a doppio senso attraverso la cornice, dove gli ancora persistenti difetti di sintesi digitale (artefatti) non fanno che accentuare il carattere perturbante di questo andirivieni tra realtà e finzione.
Il Crazy Museum amplifica, con umorismo e pacata ironia, quello che accade quando visitiamo le immagini che abbiamo scelto di conservare in quei luoghi come oggetti di valore e simboli della nostra civiltà: quel corpo a corpo ingaggiato con presenze mai inerti, ma vive e attive che ci chiedono attenzione e sincerità.
Mi diverte l'idea fantastica che il museo sia un mondo che di notte, lontano da sguardi indiscreti, prenda vita e che i personaggi, costretti di giorno a recitare la loro parte, possano finalmente abbandonare la loro posa di austera rappresentanza, stiracchiare le membra intorpidite e scambiare quattro chiacchiere con il vicino di cornice. Quando visito un museo mi capita di provare un brivido al pensiero che un ritratto possa animarsi all'improvviso, magari muovere impercettibilmente le pupille, oppure mi soffermo a pensare che forse quella giovane dama seria e agghindata nel suo ingombrante vestito di broccato avrebbe preferito muoversi, correre, uscire libera dal suo palazzo, piuttosto che sottostare alla rigida etichetta di corte. E che forse le immagini chiedono anche questo, a noi che con tanto sussiego ci rechiamo da loro: ci chiedono di essere liberate, di dare loro più aria e più spazio, di farle uscire da una cornice che le costringe a un messaggio immobile, stereotipato e stantio, che odora di vecchio.
Mi piacerebbe che tu inserissi le immagini anche qui per farle vedere anche a quelli che non usano i social. Qui o in altro posto ! Complimenti
RispondiEliminaTi ringrazio molto. Lo farei volentieri, ma Blogger è davvero poco adatto per inserire gallerie di immagini. Vedrò in futuro se è possibile farlo in qualche modo
EliminaFatto. Non è proprio una gallery come si deve, ma ci sono.
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