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lunedì 11 settembre 2023

Intelligenza Artificiale e Creatività. Oltre la ferita narcisistica


Una delle domande più comuni che circola a proposito dell'intelligenza artificiale generativa è: possono le macchine algoritmiche essere creative? È possibile parlare di creatività automatica computazionale? Chi è l’autore delle opere generate dalle reti neurali: l’artista umano o l’algoritmo? Questo contributo, riprendendo il libro di Joanna Zylinska (AI Art. Machine Visions and Warped Dreams, London 2020), si pone l'obiettivo di dimostrare che questa non è la domanda corretta. Invece di contrapporre l'uomo alla macchina, con l'ansia che questa un giorno possa sostituirci in ogni attività che abbiamo considerato finora una nostra esclusiva prerogativa, il discorso che seguirà si propone di vedere invece le diverse forme di attività umana, inclusa l'arte, come se fossero sempre state tecniche e dunque - in qualche modo - artificialmente intelligenti. La domanda se i computer possono essere creativi - è questa la tesi che ci si propone di argomentare - è piuttosto fuorviante perché si fonda su un'idea pretecnologica dell'essere umano come soggetto autonomo di pensiero e di azione. Piuttosto che domandarsi se l'intelligenza artificiale sia capace di creatività, bisognerebbe piuttosto chiedersi come l'umano possa essere creativo con l'intelligenza artificiale.

Quando una nuova tecnologia invade i territori che fino a quel momento sembravano appannaggio esclusivo della nostra specie, la prima reazione è quella di fissare demarcazioni, di cristallizzare definizioni e competenze, stabilendo una volta per tutte cosa si intenda per "essere umano", individuando le sue caratteristiche specie-specifiche. Da questo punto di vista, dopo i passi da gigante fatti dall'informatica e dalla robotica nell'ambito sia delle abilità manuali che di quelle cognitive, il campo dell'arte appariva come l'estrema fortezza inespugnabile di umanità non delegabile alla macchina. Poi sono arrivati i modelli generativi e anche quest'ultimo baluardo ha cominciato a vacillare, generando ansie e timori. Oggigiorno artisti, poeti, scrittori, designers possono sentirsi preoccupati per i programmi generativi dell’intelligenza artificiale che invadono il loro spazio. Ciò è comprensibile e inevitabile: è davvero snervante rendersi conto che l’intelligenza artificiale può replicare non solo i risultati della nostra creatività, ma anche i processi creativi stessi. Varrebbe la pena ricordare che non si tratta di una condizione inedita: circa due secoli fa, ad esempio, l’invenzione della fotografia aveva causato livelli simili di insicurezza nel mondo dell’arte e aveva fatto gridare alla morte della pittura. Invece la fotografia ingenerò un’esplosione di nuovi modi di vedere e creare immagini, comprese quelle dipinte. 

Prima di tentare di affrontare le domande poste all'inizio, sembra necessario fare qualche passo indietro e cominciare col chiedersi innanzitutto alcune cose: cosa intendiamo per umano? Cosa intendiamo per arte? Che rapporto c'è tra arte e tecnica? Chiaramente non si tratta di farne un'impossibile trattazione, ma di fissare un quadro di partenza. Ciò che si nasconde dietro le attuali domande sulla creatività meccanica è un’ansia più profonda sui modi in cui gli esseri umani possono continuare a essere creativi, per quanto tempo e a quale costo. L'incontenibile diffusione di artefatti visivi, testuali e sonori consentiti dall’intelligenza artificiale, ci costringe a riflettere su ciò che intendiamo per creatività, per produzione ed esperienza artistica. Ancora più in generale, la sfida insita già nell'espressione "intelligenza artificiale" ci porta a chiederci cosa sia quella specie del tutto particolare che abita questo pianeta e che chiamiamo Homo Sapiens.


L'uomo artificiale

La Science fiction ha spesso subito il fascino del gioco degli scacchi. Sia in Blade Runner che in 2001 Odissea nello spazio si gioca una partita tra l'intelligenza artificiale e l'umano e in entrambi i film la macchina vince sull'uomo. Come accadrà realmente qualche anno dopo l'uscita di queste pellicole, l'11 maggio 1997, nella storica partita tra Deep Blue "vs" Kasparov. E la stessa retorica competitiva si ripeterà ancora per il gioco del Go, per cui alla fine la vittoria dell'uno determina la sconfitta dell'altro.

L'immaginario comune riguardante il rapporto 'uomo - macchina' si è costruito da sempre contrapponendo i due termini in una relazione avversativa. Dove l'uno è contro l'altro, non unito all'altro in un rapporto di cooperazione. A maggior ragione quando le macchine hanno preteso di prendere il posto del suo creatore non solo nelle azioni che sostituiscono la forza muscolare, ma anche in quelle che simulano le sue facoltà cognitive e creative.

Se si aggiunge che il test di Turing si fonda sulla possibilità della macchina di simulare il ragionamento dell'essere umano e di 'ingannarlo', si capisce come quell'immaginario si sia imbevuto fin dalle origini di un senso di sfida, di un clima di sospetto e sensazione di minaccia. Nutrito di quel versus che campeggia sullo striscione nella fotografia della storica partita del 1997. 


Nello stesso modo si cerca di definire l'intelligenza artificiale contrapponendola a quella umana e lo stesso dicasi per ciò che concerne la creatività. Lo schema è sempre quello oppositivo, dell'uno vs. l'altro, come se l'umano e la macchina fossero due soggetti separati e antagonisti. Per cui l'intelligenza della macchina è giudicata inferiore oppure superiore (e quindi una minaccia) a quella umana; la creatività algoritmica non è vera creatività oppure è arte a tutti gli effetti e dunque finirà per sostituire la creatività umana. Uno schema dualistico incoraggiato dal linguaggio che tende ad antropomorfizzare e biologizzare le componenti e le funzioni della macchina, per cui si parla di 'intelligenza', 'addestramento', 'allucinazioni', 'reti neurali', ecc. 

Questa visione del rapporto tra essere umano e tecnica non è certo una caratteristica esclusiva della nostra contemporaneità; si tratta, piuttosto, della secolare tendenza da parte di certa filosofia e del senso comune di contrapporre i due elementi della questione, intendendo la tecnica come un ostacolo al pensare e al divenire umano. Se si parla dell’uomo - di quel vivente che ha elaborato sistemi sofisticati di adattamento come il linguaggio, le varie modalità di reperimento e trasformazione delle risorse, la costruzione di utensili, la messa a punto di strutture sociali, e così via - occorre invece riconoscere che la téchne non può essere intesa come qualcosa che viene ad aggiungersi dal di fuori, a contaminare o a corrompere un rapporto col mondo che si sarebbe potuto mantenere nella sua purezza originaria. Altri filosofi, da Arnold Gehlen a Bernard Stiegler (per citarne solo alcuni) affermano chiaramente che non esiste un essere umano anteriore alla tecnica. L'umano, in quanto tale, è un essere artificiale. 

La comparsa dell’uomo è la comparsa della tecnica […]. Leroi-Gourhan dice in effetti che è lo strumento, ossia la techne, che inventa l’uomo, e non l’uomo che inventa la tecnica. O ancora: l’uomo inventa sé stesso nella tecnica inventando lo strumento – «esteriorizzandosi» tecno-logicamente. Se però il chi è inventato (o si inventa) dal cosa, la sua interiorità può costituirsi solo dopo la sua stessa esteriorizzazione. L’interno è inventato da questo movimento: non può perciò precederlo. Interno ed esterno si costituiscono di conseguenza attraverso un movimento che inventa, al tempo stesso, l’uno e l’altro: un movimento in cui si inventano l’uno nell’altro, come se ci fosse una maieutica tecno-logica di ciò che chiamiamo uomo. (Stiegler, La Tecnica e il Tempo 1, La colpa di Epimeteo, 2023).

Paolo Benanti parla a questo proposito di condizione tecnoumana: 

"Condizione tecno-umana" si riferisce più in generale al modo con cui l'uomo ha da sempre capito e attuato il suo esistere: una interazione con l'ambiente mediata tramite degli strumenti, gli artefatti tecnologici. (Human in the loop, 2022).


"The Electrician", la foto con cui Boris Eldagsen aveva partecipato e vinto nella categoria "Creative" del concorso "Open" dei Sony World Photography Awards

Non è mai esistito un umano primigenio, anteriore alla tecnica. Essa non si aggiunge all’uomo, al suo organismo, dall’esterno, ma inerisce essenzialmente al suo stesso costituirsi, al suo divenire “umano”. Quando si espone all'azione della tecnica, l'umano non sta andando contro la sua natura, poiché tale esposizione l'ha plasmato fin dall'origine della sua storia (tecnogenesi). L'irruzione della tecnica non è un fenomeno (o un cataclisma) della modernità, ma ci accompagna fin dagli inizi del nostro cammino sulla Terra. Parlare di intelligenza artificiale in contrapposizione a un'intelligenza naturale sembra pertanto portare il discorso in un edificio con scarse fondamenta. La vera intelligenza artificiale è quella umana, in quanto frutto di un'evoluzione non naturale, ma socio-culturale.

E la cosiddetta intelligenza artificiale? Espressione infelice, che ci ostacola la comprensione. Non si tratta in ogni caso di un soggetto autonomo, l'altro polo inquietante di quel dualismo antagonista e che si evolve al fine di scalzare e sostituire il genere umano, un dualismo ben rappresentato dall'iconografia più utilizzata per illustrare e pubblicizzare molti contributi teorici, convegni, conferenze, pubblicazioni che riguardano l'intelligenza artificiale, compresa questa: due mani, una umana l'altra robotica, le cui dita si sfiorano come nell'istante supremo in cui scocca la scintilla della vita nell'affresco della Creazione di Adamo alla Sistina. A voler ribadire il rango dell'umano quale creatore e la condizione della macchina quale creatura a cui è stata finalmente infusa la vita, trasformandola in soggetto vivente e autonomo. Il processo di mistificazione è qui quello che occulta il fatto che queste nuove tecnologie - per quanto inedite per la loro spinta a una potente agentività automatizzata - sono in realtà nient'altro che un nuovo livello della nostra mediazione tecnica (e dunque anche sociale, economica, politica) con il mondo. "La cd. intelligenza artificiale - scrive Cosimo Accoto - non è mai tale ‘in sé’ e ‘per sé’ (puro artefatto strumentale), ma sempre ‘con altri’ (assemblaggio sociotecnico) e ‘per altri’ (costruzione sociomorfica)" (La Potenza della Latenza: tre studi sull’intelligenza artificiale generativa, 2023). Un assemblaggio sociotecnico, dunque (non un'entità autonoma), in quanto nodo di una rete che connette insieme umani, macchine, poteri e strutture socio-economico-politiche. Accoto stigmatizza come "approcci ingenui e miopi" quelli che riducono l'AI a mere tecnicalità (reificazione) oppure assegnano loro intelligenza, coscienza, senzienza (antropomorfizzazione) e così non ne "colgono l’articolazione assemblativa"  (https://cosimoaccoto.com/2023/04/02/lai-non-e-prodotto-o-servizio-ma-fabbrica-accoto-2023/).

Jason Allen, Theatre d'Opera Spatial, immagine generata con Midjourney, vincitrice a una gara d'arte della Colorado State Fair per la categoria "Arte Digitale / Fotografia Modificata Digitalmente"

L'opera d'arte nell'epoca della sua producibilità algoritmica

Stabilito il legame dell'umano con la tecnica, passiamo ora a focalizzare l'attenzione su quello tra tecnica e arte, visto che nelle narrazioni basate sul dualismo polarizzato, esposte in precedenza, questi due ambiti vengono parimenti contrapposti: da una parte il determinismo meccanicista, che caratterizza l'ambito dei manufatti tecnici e l'azione delle macchine, dall'altra l'arte come espressione suprema di libertà, genialità, autonomia creatrice e individuale.

Per trattare la questione della creatività dell'intelligenza artificiale occorre, quindi, uscire fuori dalla narrazione dualista polarizzata per assumerne una che invece interroga l'azione umana in quanto azione da sempre sociotecnica. Se accettiamo questa ipotesi, allora tutte le manifestazioni artistiche, a partire dalle pitture rupestri del Paleolitico, sono dovute ad artefatti tecnici, protesi corporee ed estensioni cognitive. Da questo punto di vista, non è mai esistita una creatività puramente umana, nel senso di libera dall'apporto di strumenti e tecnologie. L'intelligenza artificiale e i modelli generativi, tuttavia, sembrano offrire più che nuovi strumenti operativi con i quali realizzare creazioni artistiche. Vengono presentati e vengono percepiti essi stessi come creatori autonomi di artefatti che, se riferiti all'umano, definiremmo creativi. La retorica del marketing, da questo punto di vista, si sta dimostrando molto efficace. Un esempio per tutti la messa all'asta da Christie’s del Ritratto di Edmond Belamy, firmato con il nome dell'algoritmo di intelligenza artificiale che l'aveva prodotto. Ed è quantomeno curioso notare come, nel momento in cui si propone un'agency creativa non umana, l'idea di arte che si cerca di realizzare sia proprio quella più antropocentrica di tutte, il ritratto.

A sinistra: Obvious, Ritratto di Edmond Belamy, venduto all'asta da Christie's per 432.500 dollari. A destra: Tom White, usando lo stesso algoritmo creato da Robbie Barrat e usato dal collettivo Obvious, 2018

Dopo la vittoria dei computer a scacchi e a Go, dopo che le macchine si sono dimostrate di saper battere l’uomo in molte competizioni che richiedono all’umano notevoli abilità cognitive, la produzione di linguaggio e di elaborati creativi da parte di un soggetto umano identificato come “autore” restava l’ultima prerogativa esclusiva della nostra specie. Poi sono arrivati i modelli generativi e la loro sintesi veloce, credibile e “creativa” di testi e immagini ha messo in discussione anche quest’ultimo bastione, obbligandoci a scendere ulteriormente nell’uncanny valley. Le reazioni di inquietudine di chi continua a sentirsi scalzato dalle proprie posizioni di vertice della piramide evolutiva non si sono fatte attendere. Ancora una volta si è imposto il paradigma dualistico e antagonista umano vs. macchina, dove la vittoria dell’uno determina la sconfitta dell’altro o dove la produzione da parte del non umano è da etichettare sotto lo stigma della simulazione, dell’inganno, dell'inautenticità. Tanto che, oltre che per testare l'intelligenza, si è proposto una sorta di test di Turing anche per sondare la creatività delle macchine.

Un LLM (Large Language Model) processa e genera linguaggio lavorando su equazioni matematiche di distribuzione di probabilità. Le competenze operate sono dunque esclusivamente di tipo formale e non funzionale; sono sintattiche, non semantiche. In altre parole, il modello simula probabilisticamente una modalità comunicativa, ma il contenuto generato non presuppone alcuna facoltà percettiva e cognitiva della macchina. Lo stesso vale per i modelli di image processing e text to image che sintetizzano immagini interpretate numericamente. L’azione del dispositivo, in questo senso, non corrisponde a quella che attribuiamo a un “autore” umano nel senso di intenzionalità cosciente e consapevole. Basterebbe questa constatazione per liquidare ogni possibilità di considerare creativi i contenuti generati dai modelli computazionali. E infatti la tesi che si vuole portare avanti non è quella che le macchine siano soggetti in competizione con gli artisti umani perché capaci autonomamente di creatività, ma che la loro introduzione comporta un passaggio storico epocale che implica una discontinuità e una riconfigurazione radicale di ciò che intendiamo per arte e per artista. In primo luogo perché, come scrive Accoto, il fatto che questi agenti autonomi computazionali non siano capaci di comprensione del senso, “non significa, ad esempio, che non ci sia comunque produzione/circolazione di senso e di impatto per l’umano coinvolto nell’assemblaggio sociotecnico. Il senso circola sempre in qualche forma attraverso l’intelligenza, o non intelligenza, dell’umano che leggerà” o che vedrà le immagini" (La Potenza della Latenza, 2023).

Un’ulteriore considerazione riguarda il ruolo dell’autore. E qui, però, ci vengono in aiuto alcuni contributi che hanno superato il secolo di vita, a partire dalle provocazioni teoriche di Duchamp passando per le riflessioni strutturaliste e poststrutturaliste sulla morte dell’autore, da La mort de l’auteur di Barthes a Qu’est-ce qu’un auteur? di Foucault.
Scrive quest’ultimo:

"Si può immaginare una cultura dove i discorsi circolerebbero e sarebbero ricevuti senza che la funzione-autore apparisse mai. Tutti i discorsi, qualunque sia il loro statuto, la loro forma, il loro valore e qualunque sia il trattamento che si fa loro subire, si svolgerebbero nell'anonimato del mormorio. Non si ascolterebbero più le domande così a lungo proposte: 'Chi ha realmente parlato? È veramente lui e nessun altro? Con quale autenticità o con quale originalità E che cosa ha espresso dal più profondo si se stesso nel suo discorso?' Ma altre come queste: 'Quali sono i modi di esistenza di questo discorso? Da dove viene tenuto, come può circolare e chi può appropriarsene? Quali sono le ubicazioni predisposte per dei soggetti possibili? Chi può riempire queste diverse funzioni del soggetto?' E dietro a tutte queste domande non si capterebbe altro che il rumore di un'indifferenza: 'Cosa importa chi parla?'" (Scritti Letterari, Feltrinelli 2004).

Memo Akten, Distributed Consciousness, Installation view, 2023

L’irrompere dei modelli generativi, pertanto, viene a ravvivare un dibattitto annoso e forse, più radicalmente che in passato, potrebbe arrivare a ridefinire in modo definitivo ciò che intendiamo per autore, proprietà intellettuale e così via. Nel caso della vendita all'asta del Ritratto di Edmond Belamy, immediatamente si è acceso il dibattito su chi doveva esserne considerato l'autore: l'algoritmo o il collettivo Obvious, che aveva utilizzato l'algoritmo di Robbie Barrat e ideato il progetto? Per alcuni, l’esistenza di un’arte prodotta in questo modo mette in discussione il rapporto univoco che esiste tra autore e opera, creata dall’ingegno di quest’ultimo. Alla domanda se le immagini create da un’intelligenza artificiale possono essere considerate arte, per essi la risposta è no: il contributo di un artista nella creazione di un’immagine sintetica è pressappoco nullo, in quanto è l’algoritmo che lavora assemblando elementi più o meno riconducibili agli input testuali che gli vengono forniti. Secondo questi è scorretto chiamare arte qualcosa che è stato generato in pochi secondi da un programma, senza alcuna tecnica, sforzo o abilità da parte dell’artista.

Questo focalizzarsi battente sul concetto di opera come oggetto compiuto e sulla sua paternità è segnato da pregiudizi antropocentrici e sembra portare la riflessione sull'arte indietro di un secolo. Si è capito, infatti, almeno a partire da Duchamp, che la questione principale nell'arte non è né la sua produzione né la sensibilità artistica individuale da cui è guidata. Con l'arte performativa e partecipativa degli anni Sessanta, inoltre, l’opera d’arte si è allontanata definitivamente dal modello di oggetto compiuto e univoco, prodotto esclusivo dell’artista; quello che interessava non era più il risultato finito della creazione artistica, ma il suo svolgersi, la sua dimensione processuale e interattiva; l’opera trovava la sua essenza non più nell’essere, ma nell’accadere e nel divenire, trasformandosi da oggetto in evento e in esperienza.
La questione principale dell’arte è l’arte stessa: la sua storia, la sua evoluzione, la sua negoziazione nell'ambito dei vari attori sociali interessati. Qualsiasi cosa può essere considerata arte se convalidata dai soggetti e dalle istituzioni che formano il mondo dell’arte tra cui musei, gallerie, media specializzati, critici, curatori e/o collezionisti. Solo in questo modo il ready-made duchampiano e la maggior parte dell’arte prodotta da allora sono stati accettati e integrati nel regno dell’arte formale. Che un'opera d'arte sia realizzata direttamente da un artista umano o sia il prodotto di qualsiasi altro tipo di processo non ha oggi alcuna rilevanza. La storia dell'arte recente mostra numerosi esempi di opere basate su procedimenti casuali, esplorazioni fortuite, objets trouvés. Anche la spinta all'automatismo non è nuova, se si considera che già il Surrealismo aveva cercato di escludere la coscienza umana dal processo creativo. 

Mario Klingemann. Memories of Passersby I 


Più decisivo è il criterio che cerca di considerare se una nuova forma, una nuova produzione, un nuovo stile espandono o meno il campo dell’arte. Dall'avvento del modernismo, l'innovazione è diventata un criterio più importante nella valutazione dei progetti artistici rispetto alle abilità personali. In ogni caso, l'arte per essere tale deve poter 'dire qualcosa' del mondo e sul mondo, suggerire una forma, un modo di vedere la realtà in cui si vive, fornire - come scrive Eco - una sorta di schema trascendentale che ci permetta di capire i nuovi aspetti della nostra condizione (U. Eco, Opera Aperta). Ma, per poter far ciò, l'artista deve essere nel mondo, sentirlo, farne parte e nello stesso tempo poter in qualche modo uscirne fuori, per dire qualcosa sul mondo e sul modo in cui l'umano lo organizza, lo vive e lo intesse delle sue esperienze, delle sue produzioni e delle sue azioni. Una macchina, invece, non è mai nel mondo, non è mai a contatto con le cose, ma solo con le rappresentazioni umane di esse (i dati). Il problema se una machina possa fare autonomamente arte è un falso problema, perché l'arte è una domanda fatta da un essere che esiste, che è gettato nel mondo (per riprendere un'espressione heideggeriana), mentre la macchina funziona e risolve problemi sulla base di calcoli. Un'intelligenza artificiale, intesa come agente autonomo, non può fare arte  per lo stesso motivo per cui non può porsi domande sul senso del suo essere al mondo. Si può invece fare arte con l'intelligenza artificiale, con le immagini e i testi generati dalle reti neurali, esplorandone i possibili intrecci di collaborazione e individuare i fini critici verso i quali tali intrecci possono essere orientati. 
Quali nuovi tipi di pratica artistica, quali riconfigurazioni della funzione d’autore, quali nuove forme di espressione creativa e critica possono manifestarsi nelle opere e nelle pratiche degli assemblaggi di agenti umani e non umani? 
Da quest'ottica, la levata di scudi contro le immagini prodotte con modelli generativi appare piuttosto come la naturale e ricorrente reazione conservatrice, da parte degli attori interessati allo status quo, che segue ogni proposta di forme e linguaggi nuovi che scardinano una tradizione e un sistema consolidato.
«Se ogni processo creativo è sempre anche una perdita temporanea di controllo da parte dell’artista […] le nuove forme di arte che si stanno sviluppando grazie all’intelligenza artificiale portano la consapevolezza di questo momento al centro dell’attenzione non solo dell’artista, ma anche del pubblico, e trasformano il mezzo del fare artistico in un vero e proprio “partner”, dando vita a forme del tutto inedite di interazione» scrive Alice Barale nell’introduzione di Arte e intelligenza artificiale. Be my GAN.

The Next Rembrandt, progetto finanziato da Banca ING, nato dalla collaborazione tra Microsoft, il Politecnico di Delt, la Rembrandt House Museum di Amsterdam e il Muritshuis


Risalta infatti agli occhi che l'apporto dei modelli generativi non è puramente strumentale. La creatività computazionale abilitata dall'apprendimento automatico non esegue perfettamente delle istruzioni, ma elabora i dati e genera output che vanno al di là dell'intenzionalità dell'autore e che spesso offrono una visione molto interessante, inedita, conturbante nel momento in cui scardina immagini sclerotizzate ed esplora territori emergenti del visibile. Da questo punto di vista, l'intelligenza non umana si configura come un soggetto che non si colloca come polo nella relazione oppositiva umano-macchina che abbiamo visto prima, ma che con l'umano e il suo ambiente forma un assemblaggio composito e articolato. La sua funzione è quella di un partner comunicativo potenzialmente in grado di offrire visioni nuove; non mero strumento per ottenere 'aiuto', ma possibilità attiva di sondare e ampliare la creatività intesa come funzione dell'intero assemblaggio. La questione qui al nocciolo pare allora essere la seguente: siamo pronti ad ammettere la possibilità di accogliere questo tipo di partner, dall'agentività e dall'autonomia così spiccate, nel cuore del processo creativo? Non è forse ora di salutare definitivamente l'idea tradizionale dell'artista genio toccato da una scintilla divina, che crea la sua opera in ispirata solitudine?
Ma c'è un'altra domanda che occorre porci: perché, come sottolineano sia Joanna Zylinska che Hito Steyerl (Duty Free Art, 2017), le Big Tech sono così sollecite a finanziare progetti artistici di intelligenza artificiale in cui si persegue, come risultato, l'imitazione di capolavori del passato oppure si abbagliano gli spettatori con il sublime matematico di set di big data, flussi rapidi di immagini, colori sgargianti e un fiume psichedelico come fosse una versione idealizzata di Candy Crush? Può l'arte contemporanea ridursi alla mera produzione di artefatti, guidata dalla mentalità ingegneristica, il cui fine appare quello di voler celebrare la novità tecnologica della visione artificiale? Sembra proprio questo l'obiettivo della campagna di marketing sull’“intelligenza artificiale generativa”, evidenziata - tanto per riprendere lo stesso esempio - nella vendita all'asta del Ritratto di Edmond Belamy: obiettivo che potrebbe essere letto come parte di un’agenda più profonda, interessata a svalutare qualsiasi forma di attività culturale umana che non possa essere facilmente ridotta a oggetto, discretizzata e monetizzata. In progetti di quel tipo, e di altri autori citati da Zylinska come Kogan, Tyka, Akten e Klingemann, gli obiettivi dell'artista adottano uno strumentalismo acritico e sono preoccupantemente allineati con le traiettorie di sviluppo dell'intelligenza artificiale finanziata dalle multinazionali. Gran parte dell’attuale arte basata sull’intelligenza artificiale – o almeno le opere che ottengono visibilità in festival, fiere e presso il pubblico più ampio – è stata ridotta, per Zylinska, a puro spettacolo, accattivante ma superficiale, ipnotizzante ma inesorabilmente simile al già esistente, dove l'esperienza artistica si esplica come pura competenza ingegneristica che mette da parte l'impegno critico sia dell'artista che del fruitore.
Tirando le fila tese finora, si potrebbe concludere che se vogliamo assicurare il futuro dell'arte non abbiamo bisogno di coltivare il panico sulla possibilità di un’intelligenza artificiale creativa in grado di scalzare quella umana. Quello che serve è un lavoro culturale e politico per garantire che le pratiche artistiche non siano governate solo dalla logica dei mercati finanziari o dagli sforzi di ottimizzazione delle Big Tech. È questa la domanda che si pone con urgenza: non se la macchina potrà sostituire l'artista, ma che tipo di arte sarà possibile in futuro, quale spazio vogliamo conquistare per essa al di fuori delle logiche del neoliberismo; come potrà un'arte tecnologicamente consapevole creare un territorio per esplorare questi mondi interconnessi e interrogare chi finanzia, possiede e usa gli algoritmi e i nostri dati.

Kate Crawford e Trevor Paglen, Training Humans, Osservatorio Prada, 2019


Verso il postumano?

Alla luce di quanto detto fin qui, ha senso parlare di post-umano?
Il concetto di umano non è un monolite immutabile, ma un'entità perennemente in fieri e facente parte di una rete inestricabile di connessioni. Il suo rapporto con i propri artefatti mediali e con l'ambiente costituisce un assemblage strettamente integrato. Soggetto, ambiente, pratiche sociali e tecnologie sono legati in una rete di relazioni tale per cui ogni parte retroagisce sulle altre e sull'insieme, definendo e ridefinendo le loro funzioni. Si potrebbe dire che tale interazione si configura come una continua, inarrestabile co-creazione. Siamo esseri in continuo divenire con la tecnica e con le macchine. Ogni innovazione tecnologica è pertanto destinata a modificare l'intero assemblage e le parti che lo costituiscono. L'umano che abiterà il mondo rimodellato dai discorsi e dalle pratiche legate all'artificiale, pertanto, non sarà l'umano di prima, così come l'umano che è venuto dopo la rivoluzione della scrittura o dell'elettricità non era più l'umano delle epoche precedenti. 

Siamo dunque nell'era del post-human o stiamo vivendo una declinazione epocale di un nuovo livello dell'umano, che si trova ancora una volta immerso in un contesto reticolare di co-creazione, arricchitosi di nuovi soggetti aventi alto grado di agentività e di autonomia? Come scrive ancora Zylinska, l’arte guidata dall’intelligenza artificiale può essere intesa come un’altra svolta nella storia intrecciata dell’uomo e della tecnologia. Sfidando la nozione di arte come espressione di creazione divina ex nihilo, si vuole portare avanti il concetto che l'arte è sempre già emergente nel e con il mondo, nel contesto intrecciato dei molteplici apparati tecnici e culturali che lo modellano. Si potrebbe allora ridefinire il nostro concetto di creatività - continua Zylinska - lungo le linee di pensiero sviluppate dal filosofo della scienza Whitehead e basate su "modelli biologici e sociali" della creatività'. Per Whitehead, la creatività è il cambiamento che avviene nel modo in cui gli organismi agiscono sul loro ambiente. Ciò ci permetterebbe di aprirci a un modello più interrelato e meno agonistico, in cui tutti i soggetti concorrono a produrre arte in quanto non prodotto individuale ma oggetto sociale e relazionale.

Si tratta, dunque, di fare il salto nel postumano o di portare l'evoluzione dell'umano ad aprirsi ad altre forme di intelligenza e di percezione, di riconoscere il nostro coinvolgimento intrinseco con creature e macchine, mettendo da parte la pretesa di una nostra supremazia gerarchica che fa da alibi alla nostra propensione al dominio del mondo? Il problema non è l'umano; semmai - scrive ancora Zylinska - lo è il nostro secolare umanesimo antropocentrico, che attinge a valori costruiti culturalmente e poi li spaccia per universali, velando allo stesso tempo l’atto stesso della loro costruzione, con tutti i meccanismi di potere coinvolti nel processo. Il coinvolgimento di intelligenze altre può allora creare una spinta oltre gli orizzonti ideologici centrati sull’umano. In questo senso, forse, si può parlare di postumano. Una storia dell'arte postumanista - continua l'autrice - vedrebbe invece tutte le opere d’arte, dalle pitture rupestri fino alle opere dei cosiddetti Grandi Maestri e agli esperimenti contemporanei con tutti i tipi di tecnologie, come se fossero stati prodotti da artisti umani in un assemblaggio con una pletora di agenti non umani: pulsioni, impulsi, virus, farmaci, vari agenti organici e sostanze e dispositivi non organici, nonché tutti i tipi di reti, dal micelio fino a Internet.

Gli usi critici dell’intelligenza artificiale nell’arte digitale possono essere ideali per disturbare il tradizionale modello umanista liberale con i suoi cliché dell’opera d’arte compiuta, con le sue idee di creazione ex nihilo, di originalità, di paternità, della figura dell’artista individuale, le cui attività si allineano ai modelli di proprietà dominanti,  delle prospettive antropocentriche sulla creatività in quanto tale. L’arte basata sulle nuove tecnologie delle reti neurali può quindi stimolare delle riconfigurazioni critiche dell’agire creativo – e quindi potenziali destabilizzazioni dei paradigmi dominanti - e proporsi come pratica relazionale, decentrata e plurale, ripensandosi oltre la centralità e la supremazia del soggetto umano come autore singolare e proprietario. Non si tratta di espungere il soggetto umano, ma di ricalibrarlo in relazione alle ecologie multiagente di cui è parte.


Bibliografia

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Zylinska, Joanna (2020), AI Art: Machine Visions and Warped Dreams. London: Open Humanities Press.

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