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venerdì 13 novembre 2020

Refik Anadol. Le nuove frontiere del visibile per un nuovo sentimento del sublime

Refik Anadol, Melting Memories, 2018

 
I data come 'materia' per fare arte

C'è chi fa arte scolpendo il marmo o il legno, chi utilizza colori e pennelli, mentre l'arte del Novecento ci ha abituato all'utilizzo dei materiali più disparati. Ma, siccome l'arte va di pari passo con la tecnologia (si pensi cosa significò, ad esempio, l'invenzione della fotografia e del cinematografo) nessuna meraviglia se oggi c'è chi fa arte utilizzando una materia del tutto immateriale e impalpabile come i database. E come l'invenzione delle immagini meccaniche non determinò la morte dell'arte, ma anzi significò un potenziamento delle possibilità di espressione artistica e di visione, così possiamo essere sufficientemente convinti che anche queste nuove tecnologie stiano andando nella stessa direzione, conducendoci verso linguaggi nuovi, a volte sconvolgenti e lontani dal concetto di opera d’arte intesa in senso tradizionale. Già la fotografia e il cinema, e relative propaggini, ci hanno nel tempo reso avvezzi all'idea di poter fare arte con l'aiuto di tecnologie sempre più sofisticate, che riservano alle macchine un ruolo sempre più consistente. Probabilmente lo scoglio più grande da superare rispetto all'utilizzo dell'intelligenza artificiale è la comune percezione della parte preponderante ed autonoma esercitata dagli algoritmi nella creazione di immagini, mentre il ruolo dell'artista si limiterebbe alla programmazione, cioè alla implementazione di codici astratti e numerici.

The Next Rembrandt, 2016

Grande eco ha suscitato, nel 2016, il progetto The Next Rembrandt, cioè il ritratto di un uomo del XVII secolo con cappello nero e collare bianco in perfetto stile rembrandtiano, generato però da un algoritmo e dalla stampa tridimensionale, tramite la campionatura di una base dati formata da migliaia di frammenti pittorici derivati da oltre trecento dipinti del maestro olandese. Il lavoro finale è della macchina, certo, ma il tutto è stato pensato e reso possibile da un soggetto plurale costituito da sviluppatori, analisti, esperti di dati, ingegneri e ovviamente storici dell’arte. Nel 2018 Christie’s ha invece battuto all'asta, per diverse centinaia di migliaia di dollari, l’opera Portait of Edmond Belamy, anch'essa creata da una macchina mediante l’utilizzo dell’intelligenza artificiale tramite algoritmi, implementati dal collettivo di esperti francese Obvious, utilizzando la tecnica GAN (generative adversarial network), applicata a un database di 15.000 ritratti realizzati dal XIV al XX secolo. Si è parlato anche qui di opera prodotta autonomamente dall’intelligenza artificiale, ma si tratta di un'attribuzione che paga la difficoltà di leggere il contributo creativo umano in modo diverso da quello tradizionale e dalla resistenza a tributarlo a un soggetto collettivo, costituito da un team di esperti, che lavora su stringhe dati e reti neurali piuttosto che su materiali tipici della produzione artistica.


Le allucinazioni della macchina

Lavorare con le nuove tecnologie è ciò che fa l'artista di origini turche Refik Anadol, che esplora le possibilità dell'arte digitale creando ciò che lui stesso definisce data sculptures e data paintings, sotto forma di arte pubblica site-specific, spesso abbinate a performance audiovisive dal vivo e installazioni immersive. Opera servendosi dell'apporto di uno staff eterogeneo, formato da architetti, musicisti, programmatori di computer, designer e scienziati, con cui collabora per ampliare la gamma delle possibilità espressive del digitale e dell'elaborazione dati. Le sue opere non simulano l'arte del passato ma cercano di sondare nuove frontiere del visibile, esaltando il ruolo attivo, e non semplicemente riproduttivo, delle immagini.



Una delle direzioni su cui prosegue la sua ricerca è la deformazione del tempo e dello spazio. Uno dei suoi primi progetti di grande successo è infatti Infinity Room (2015), un ambiente virtuale e immersivo dove gli spettatori possono acquisire una nuova percezione dello spazio, come di un mondo sottratto alle normali leggi della fisica. La luce crea un luogo illusorio, immaginario, che permette di trasgredire i normali confini dell'esperienza visiva, trasformando il convenzionale schermo di proiezione del cinema in uno spazio cinetico e architettonico tridimensionale, utilizzando algoritmi di nuova generazione.

Alcuni progetti di arte pubblica site-specific, come Wind of Boston: Data Paintings (2017), trasformano i dati invisibili provenienti da alcuni parametri, come ad esempio la velocità, la direzione e la forza del vento dentro e intorno la città di Boston, in una serie di data paintings, visibili all'interno di una tela digitale che è uno schermo LED ad alta risoluzione. Si tratta di una interpretazione visuale di dati numerici, che trasforma in forme estetiche i dati raccolti a proposito di un fenomeno naturale invisibile come il vento. 


Anche Virtual Depictions: San Francisco (2015) è un progetto di arte pubblica site-specific, costituito da una serie di sculture di dati parametrici che raccontano la storia della città e dei suoi abitanti. Tali sculture costituiscono anche un intervento architettonico, che crea connessioni dirette e fantasmagoriche con l'ambiente circostante. Come afferma lo stesso Anadol nelle interviste, con queste opere di arte pubblica installate fuori dai musei e dalle gallerie, il suo obiettivo è quello di rendere visibile l'invisibile, incorporando le arti mediatiche nell'architettura per creare un nuovo modo di vivere lo spazio urbano. 


Questo progetto, insieme a molti altri dell'autore (ad esempio Archive Dreaming, del 2017, o Latent History, del 2019), riflettono in particolar modo sul tema della memoria. D'altra parte la memoria, immagazzinata in milioni di dati, costituisce la materia prima di tutti questi lavori basati sull'intelligenza artificiale. Le immagini risultanti sono impasti, sintesi e rigenerazioni di una memoria collettiva, visiva e spesso anche sonora, che danno vita ad ambienti in continua evoluzione in cui poter a volte immergersi con tutto il corpo e di cui, pertanto, poter farne un'esperienza sinestesica. Per Anadol, “le immagini allucinate della macchina rappresentano la memoria collettiva, strati nascosti di storia e la coscienza di una città che, altrimenti, potrebbe rimanere invisibile”. 


Qui siamo oltre il tradizionale concetto di rappresentazione. L'immagine non ha un referente diretto ma non è neanche autoreferenziale, in quanto conserva un legame con la realtà esterna, sebbene mediato da numerosi passaggi e manipolazioni. L'immagine non rappresenta, cioè non prende il posto di un oggetto assente, ma crea apparizioni o, come afferma l'autore, allucinazioni. Jean Epstein, un secolo fa, considerava il cinema qualcosa di “soprannaturale”, una “arte spiritica”, in quanto provoca delle “apparizioni”: «Il mio occhio mi fornisce l’idea di una forma, anche la pellicola contiene l’idea di una forma, idea inscritta al di fuori della mia coscienza, idea priva di coscienza, idea latente, segreta, ma meravigliosa» (Epstein J., Bonjour cinéma).

Walter Benjamin, in Piccola storia della fotografia (1931), scriveva che "la natura che parla alla macchina fotografica è infatti una natura diversa da quella che parla all’occhio; diversa specialmente per questo, che al posto di uno spazio elaborato consapevolmente dall’uomo, c’è uno spazio elaborato inconsciamente." Attraverso l'inconscio ottico, si riconosce al dispositivo fotografico la capacità di mostrare il mondo secondo una modalità diversa rispetto a quella di cui è capace lo sguardo umano. Grazie alla tecnica fotografica, all’esattezza e impassibilità dell’obiettivo, si ottiene uno spazio elaborato inconsciamente, che rivela particolari ignoti e imprevisti, dettagli insignificanti che sfuggono alla visione ordinaria. Il mondo trasformato dall’obiettivo ci appare più carico di senso, i luoghi più banali divengono significativi, i dettagli di oggetti inanimati, scollegati dalla loro funzione utilitaristica, diventano rivelatori e sembrano acquistare un’anima.


Secondo Jean Epstein la macchina da presa è come un essere pensante, le cui straordinarie capacità analitiche permettono una nuova e rivoluzionaria visione del mondo. Lo sguardo della macchina sovverte la razionalità del pensiero tradizionale registrando nell’indifferenza dell’obiettivo ciò che l’occhio umano non può vedere, rivelando le proprietà visive delle cose, la loro “fotogenia”. L'occhio macchinico porta alla luce degli aspetti imprevisti e latenti della realtà, offrendo esperienze sensoriali inedite. 

Le immagini sintetizzate dall'intelligenza artificiale portano anch'esse alla luce nuove latenze, allucinatorie ed ipnotiche, lavorando sulla memoria condivisa, di cui indaga le interconnessioni. Tali modalità, tuttavia, differiscono notevolmente da quelle tradizionali. Le immagini prodotte dalla macchina fotografica e dalla cinepresa, infatti, dopo aver registrato ed elaborato lo spazio in modo inconscio, in un secondo tempo, attraverso i mezzi insiti nella loro tecnica, quali l’ingrandimento, la riduzione, il ralenti, la slow motion, offrono la possibilità di indagare su aspetti della realtà che l’occhio umano non aveva percepito o l’aveva fatto in modo inconsapevole. Proprio la possibilità di analizzare da vicino, di isolare, di rallentare, di riguardare, fa emergere nel flusso di immagini cinematografiche elementi imprevisti, che l’obiettivo casualmente ha catturato, pur essendo sfuggiti del tutto alla volontà del regista e dell’operatore. Di fronte all'immagine statica della fotografia e anche a quella dinamica del cinema, la fruizione conserva una certa autonomia, riguardo all'elaborazione spaziale e soprattutto temporale del contenuto mostrato e della sua latenza, un'elaborazione che cerca di stabilire delle connessioni tra percezione visiva e ciò che sta al di sotto della soglia di consapevolezza, tra ottica e inconscio.


Le immagini rielaborate dall'IA creano invece un ecosistema in cui il visitatore è chiamato a immergersi e a mettere in atto un'interazione esperienziale e sinestesica con la mente della macchina, che si propone come un vero e proprio soggetto attivo. L'immagine non è solo uno spazio visibile elaborato inconsciamente dalla macchina, ma è la stessa immaginazione della macchina, la sua 'allucinazione', che sintetizza i dati della memoria, provenienti da vari archivi, in base a ricorrenze, connessioni, parametri stabiliti dai suoi algoritmi. L'immagine finale, più che consentirci di riesaminare la realtà esterna riprodotta dalle immagini di partenza, costituisce piuttosto una realtà alternativa. In questo nuovo tipo di fruizione, la percezione dello spazio e del tempo vengono plasmate in modo diverso. Il paradigma temporale lineare, cronologico (tipico del cinema) lascia il posto al paradigma spaziale simultaneo, non lineare.

Numerosi sono i progetti artistici che, a partire dagli anni Settanta, si sono mossi appropriandosi di materiale visivo già esistente e sottoponendolo a decontestualizzazione. Anche i lavori di Refik Anadol, e tutti quelli che operano attraverso il machine learning, cioè offrendo in pasto agli algoritmi sterminati database, utilizzano per lo più materiale preesistente. L'output, tuttavia, va oltre la semplice ricontestualizzazione. La manipolazione del dato avanza qui verso un estremo che consiste in una quantificazione statistica di parametri e in una mappatura delle loro connessioni, che si traduce in nuove forme, che mostrano in figura degli aspetti, visuali e non, che altrimenti sarebbero stati invisibili. L'intelligenza artificiale utilizza immagini preesistenti per generarne di nuove, in una modalità che va oltre la citazione e l'appropriazione, facendone piuttosto la materia prima, plastica, utilizzata dalla macchina per dare vita a veri e propri immaginari inediti. Ciò a cui le installazioni multimediali e gli ambienti immersivi di Anadol danno luogo sono delle architetture percettive che mostrano latenze rielaborate in forme nuove. Le informazioni che normalmente fruiamo in modo lineare, temporale, analitico e diacronico, diventano un complesso tessuto spaziale sintetico e sincronico. I dati si trasformano in conoscenza sperimentata spazialmente in modo non lineare. Allo stesso modo in cui la fotografia ha plasmato la memoria, forse l'intelligenza artificiale offrirà un nuovo modo di intendere le connessioni mnemoniche e il rapporto tra forme e significato, fondato innanzitutto su nuove modalità di percepire il tempo e lo spazio. 



Uno dei progetti di maggiore successo di Refik Anadol è quello presentato nel marzo del 2018 a Istanbul, presso la Galleria Pilevneli, dal titolo 
Melting Memories, che cerca di tradurre visivamente l'inafferrabile processo del ricordare. Si tratta di alcuni data paintings e data sculptures che agiscono sui dati raccolti in collaborazione con il Neuroscape Laboratory dell'Università della California in merito alla funzione cerebrale di individui sani e con disabilità, istruiti a concentrarsi su specifici ricordi a lungo termine durante la rilevazione tramite ECG. Le informazioni riportano le misurazioni dei cambiamenti nell'attività delle onde cerebrali fornendo delle prove sul funzionamento del cervello. Elaborati dagli algoritmi, i set di dati vengono tradotti tramite modelli di design compositi per dare vita a strutture estetiche. L'installazione si compone di un enorme schermo LED (quasi 5 metri per 6) e da schiuma rigida fresata CNC.

L'installazione site-specific più recente è Renaissance Dreams, primo lavoro di Refik Anadol realizzato per l'Italia, ottenuto tramite algoritmi GAN che hanno operato su immagini open-source di opere d’arte e d’architettura del Rinascimento, che le macchine hanno rielaborato, sintetizzato, generando forme nuove

Anche qui le immagini sono in continuo movimento, ma non si tratta di un movimento lineare, che produce narrazioni, ma metamorfico. E soprattutto il movimento delle immagini non si svolge lungo un asse temporale manipolabile dal soggetto umano tramite rallentamenti, timelapse o riavvolgimenti. Il tempo di queste immagini è soprattutto un tempo di transizione: le forme appaiono, la nostra percezione cerca di coglierle nel momento in cui si de-formano per trasformarsi in nuove forme. La percezione si esplica come allucinazione più che come organizzazione di un dato sensibile, poiché sono messe in discussione le kantiane forme a priori della percezione, cioè lo spazio e il tempo, e la realtà dell'oggetto, che non si danno come elementi stabili, ma fortemente instabili e continuamente mutevoli. Il tempo non si declina come mutamento di uno stesso oggetto nello spazio, e neanche nel tempo, ma come transizione e generazione inarrestabile e metamorfosi di forme e di spazi.

Le immagini esplicano una funzione metaiconica in quanto le forme del passato rivelano, in questo processo di metamorfosi, aspetti inediti di sé, e anche una valenza intermediale. Nella parte di Renaissance Dreams che rielabora un dataset di statue rinascimentali, ad esempio, due medium, la scultura e l'immagine digitale, interagiscono insieme generando forme inedite. L'effetto è quello di una fluidificazione e animazione della materia del marmo, facendogli perdere le sue caratteristiche di durezza, compattezza, resistenza. La forma, sebbene transitoria, prende il sopravvento sulla materia. L'immagine si fluidifica, si condensa, si scioglie, si decompone e ricompone, si contrae e si espande. È come trovarsi di fronte a un'allucinazione mentale, alla materializzazione dell'inconscio della storia, un'apparizione che proviene da una profondità oscura, perché ha a che fare con la memoria dell'umanità, con le immagini sedimentate dei secoli. Si ha l'impressione di trovarsi di fronte a un'entità aliena, organica, mutaforma, il fantasma dell'umanità del passato.  




Un nuovo sentimento del sublime

Colpisce come in molte immagini e molti video che mostrano le installazioni di Refik Anadol sia visibile uno spettatore solitario di spalle di fronte al data painting o data sculpture di volta in volta esposto. Immediatamente viene alla mente l'iconografia del sublime romantico e delle Rückenfiguren.

Tra la fine del XVIII e gli inizi del XIX secolo si era verificato in Occidente un mutamento radicale dell’ordine figurativo e del paradigma estetico. Nell’Europa del Seicento, il farsi strada della rivoluzione copernicana e della coscienza dell’infinito aveva mandato in frantumi la rappresentazione cosmica (cioè ordinata, armonica e quindi bella) della natura. Il mondo aveva cominciato ad estendersi nell’illimitato e non aveva più né circonferenza né centro, né ordine né compiutezza. L’uomo aveva perduto la sua posizione centrale, era stato privato della sua stabile dimora nel cosmo e avvertiva un senso di abbandono, di precarietà e accidentalità della propria esistenza. Per reagire al disorientamento provato di fronte a una natura che si rivelava sempre più anomica e indifferente alle esigenze umane, la civiltà europea della metà del Settecento elabora il sentimento del sublime.

Caspar David Friedrich, Donna al tramonto del sole, 1818

Se la modernità appare dapprima come un esilio cosmico dell’uomo dal centro dell’universo, una condizione in cui dominano la paura e l’angoscia dinanzi agli spettacoli in cui la natura esibisce la sua smisurata grandezza e la sua devastante potenza, pian piano il sentimento di spaesamento lascia il posto a un atteggiamento di sfida, belligerante e nello stesso tempo malinconico. La debolezza e vulnerabilità fisica dell’uomo viene ora compensata dall’enfasi posta sulla sua superiorità morale e intellettuale. Scrive Kant nella sua Critica del giudizio (1790):

“Sublime è il senso di sgomento che l’uomo prova di fronte alla grandezza della natura sia nell’aspetto pacifico, sia ancor più, nel momento della sua terribile rappresentazione, quando ognuno di noi sente la sua piccolezza, la sua estrema fragilità, la sua finitezza, ma, al tempo stesso, proprio perché cosciente di questo, intuisce l’infinito e si rende conto che l’anima possiede una facoltà superiore alla misura dei sensi.”

E così, dopo lo smarrimento iniziale, l’uomo comincia a misurarsi con i luoghi che l’estetica classica aveva da sempre rifuggito, luoghi inospitali, ostili e desolati che evocano la morte, umiliano con la loro vastità, minacciano con la loro potenza, ricordano ad ognuno la propria condizione precaria ed effimera. Si pone al cospetto di ciò che è indistinto e smisurato, senza forma e senza limite, si misura con l’infinito, sperimenta la solitudine assoluta, affronta i rischi delle montagne impervie, dei vasti oceani e dei mari in tempesta, delle foreste impenetrabili e dei ghiacci desolati, dei vulcani in eruzione e degli aridi deserti. 

Con l’esperienza del sublime, l’uomo sperimenta la propria piccolezza e la vulnerabilità del proprio corpo, la consapevolezza che dovrà soffrire e morire, ma la sfida ingaggiata, sebbene si concluda in un “dolce naufragio” che lo riconduce e lo dissolve nella totalità del tutto, in realtà lo fortifica e ne alimenta l’autostima. Il confronto con la natura, che lo umilia con la sua immensa grandezza o minaccia di distruggerlo con la sua smisurata potenza, non solo lo ha reso più consapevole dei propri limiti, ma anche della propria capacità di oltrepassarli. Per questo il motivo dominante della poetica romantica del sublime è una tensione costante verso l’elevazione e l’espansione dell’anima (enlargement of the soul), perché l’immaginazione produce incessantemente degli ostacoli che lo slancio interiore anela a oltrepassare.

Il motivo delle Rückenfiguren di fronte a paesaggi sublimi diventa il tema ricorrente dell'iconografia romantica, in particolare del pittore tedesco Caspar David Friedrich. Tali figure, spesso solitarie, situate sulla soglia di un vasto spazio di mare o di cielo che si estende davanti ad esse, si presentano nell’atteggiamento della contemplazione. Esse rappresentano la personificazione di quello sguardo che nello stesso tempo ci nascondono, che, mostrandosi ostinatamente di schiena, ci impediscono di vedere. Tutto il loro potere evocativo discende proprio da qui, da questi corpi privi di volto che tuttavia incarnano l’atto del guardare. La dottrina copernicana ha scalzato l'uomo dal centro del mondo, ma egli ritrova la sua grandezza e centralità in quanto signore del pensiero e signore dello sguardo, unico essere al mondo in grado di contemplare l'infinito e di trasporlo in immagine.


Refik Anadol, Melting Memories

Il filosofo Luciano Floridi, nel suo libro La Quarta Rivoluzione, cita il filosofo e teologo francese Blaise Pascal e il suo celebre Pensiero n. 377:

L’uomo non è che una canna, la più fragile di tutta la natura; ma è una canna pensante. Non occorre che l’Universo intero si armi per annientarlo: un vapore, una goccia d’acqua è sufficiente per ucciderlo. Ma quand’anche l’Universo lo schiacciasse, l’uomo sarebbe pur sempre più nobile di chi lo uccide, dal momento che egli sa di morire e il vantaggio che l’Universo ha su di lui; l’Universo non sa nulla. Tutta la nostra dignità sta dunque nel pensiero. È in virtù di esso che dobbiamo elevarci, e non nello spazio e nella durata che non sapremmo riempire.

Dopo che la rivoluzione copernicana, la teoria darwiniana dell'evoluzione e la psicanalisi freudiana avevano rimosso l'uomo da ogni centralità che via via aveva occupato - continua Floridi - si continuava a «ritenere che il nostro posto speciale nell’Universo non avesse a che fare con l’astronomia, la biologia o la trasparenza della mente, ma risiedesse nelle nostre superiori capacità di pensiero. Era questa l’implicita linea di difesa del nostro posto eccezionale nell’Universo che restava in piedi. L’intelligenza era, e tuttora è, una proprietà alquanto vaga, difficile da definire, ma eravamo persuasi che nessuna creatura sulla terra potesse in questo superarci» (Floridi L., La Quarta Rivoluzione. Come l'infosfera sta trasformando il mondo, Milano 2017).

Poi sono arrivate le macchine di Turing che hanno scalzato l'uomo da quest'ultima centralità, cioè quella occupata all'interno dell'infosfera, sottraendogli il primato della capacità di svolgere ragionamenti logici, di processare informazioni e di agire in modo intelligente. L'infosfera, d'altra parte, si è rivelata un ambiente così saturo di informazioni che nessun essere umano potrebbe mai sottoporle a visione ed elaborazione, sembrando piuttosto volerlo sommergere. Ecco come si delinea il moderno sentimento del sublime: come contemplazione non della potenza della natura, ma dell'infosfera, dei miliardi di informazioni, immagini, testi, che ogni giorno fluiscono intorno a noi, invadendo ogni interstizio del nostro spazio e del nostro tempo.

Uno dei più efficaci lavori artistici che hanno dato vita a questo nuovo sentimento del sublime è, probabilmente, l'installazione 24 Hrs in Photos di Erik Kessels (dal 2012), consistente nella stampa ed esposizione delle fotografie condivise, in un solo giorno, sul portale Flickr (circa 350.000).

Erik Kessels, 24 Hrs in Photos

In questo contesto storico di iperproduzione visuale, le capacità umane si rivelano del tutto insufficienti a processare i miliardi di dati giornalieri, mentre le macchine odierne, dotate di una grandissima potenza di calcolo e di algoritmi capaci di discriminare le informazioni contenute, sono in grado di fagocitarle e di elaborarle in modo straordinariamente efficiente e veloce. L'infosfera satura è un ambiente in cui le macchine si trovano a perfetto agio, mentre l'uomo sembra annaspare fino ad esserne travolto.

Il passaggio dall'immagine analogica (materiale) a quella digitale (immateriale) ha rappresentato nella storia della cultura visiva una svolta epocale. La visibilità delle immagini digitali risulta infatti quasi secondaria rispetto alle operazioni a cui le stesse sono sottoposte nella fase di processazione da parte degli algoritmi, grazie al fatto che le immagini che viaggiano nei supporti informatici non sono altro che pacchetti di dati numerici ed in questa veste sono intellegibili ed elaborabili dalle macchine. E queste ultime possono comunicare e scambiarsi tali dati tra di loro autonomamente, tenendo fuori l'umano dalle loro connessioni. Per questo Trevor Paglen, uno dei primi artisti e ricercatori ad interessarsi da vicino a questo tema, parla di «immagini invisibili» (T. Paglen, Invisible Images (Your Pictures Are Looking at You), «The New Inquiry», 8 dicembre 2016), cioè di immagini immateriali che esplicano la maggior parte della loro vita - fatta di passaggi, condivisioni, trasferimento da un supporto all'altro, circolazione in rete - in uno stato che si sottrae allo sguardo umano in favore di uno sguardo ormai quasi esclusivamente macchinico.

E tuttavia, pur posizionandosi nella dimensione virtuale e restando sotto la soglia della visibilità, tali immagini risultano tutt’altro che sganciate dalla realtà. Esse, al contrario, sono in grado di operare, di guardarci attivamente, di intervenire nella vita di tutti i giorni, cambiando le proprie funzioni dalla semplice rappresentazione e mediazione, all’attivazione ed esecuzione di vere e proprie operazioni, possibili grazie alla manipolazione dei nostri stessi dati, tanto da essere per questo definite dallo stesso Paglen «immagini operative».

L’incessante ricerca di una maggiore automazione si è dunque spinta fino al punto di voler trasformare le macchine stesse da semplici strumenti di trasmissione e riproduzione di informazioni in acuti ed attivi osservatori. Non permettono soltanto la visualizzazione di tali dati al soggetto umano, ma sono in grado di leggere, di interpretare e di comprendere a tutti gli effetti ciò che vedono, svolgendo in maniera quasi del tutto indipendente funzioni in origine esclusivamente umane: il riconoscimento di forme, linee ed oggetti, l’individuazione di luoghi, la comprensione di scene, l’intercettazione di movimenti.

Refik Anadol, Archive Dreaming

Torniamo alla forma dello sguardo sul sublime inaugurata dal XIX secolo, che viene ripresa e rielaborata nelle immagini di presentazione dei lavori di Refik Anadol. L'oggetto di tale sguardo, in questo caso, non è più la natura cieca, che dispiega ottusamente la sua potenza ma è incapace di 'vedersi' e di 'vedere', che si estende nella sua immensità, ma il cui infinito può essere contemplato e contenuto dalla mente umana. Lo spettatore del quadro romantico percepisce di trovarsi davanti a un dispositivo ottico di visione. Gli schermi dietro gli spettatori delle installazioni di Anadol, invece, ci trasmettono altre impressioni. Non ci troviamo, infatti davanti a un dispositivo tradizionale della visione ottica, ma a un dispositivo di nuova generazione, che genera autonomamente i suoi contenuti visivi. La natura non ci guarda e non ci riconosce, mentre le macchine oggi sì, sono in grado di farlo e sono anche in grado di manipolare e di utilizzare quell'informazione, grazie all'elaborazione di milioni di dati rispetto ai quali noi siamo invece del tutto impotenti. 

Nelle forme realizzate dalla macchina, d'altra parte, generate dalla manipolazione di quelle informazioni, sono contenute tracce di noi stessi, perché sono i dati da noi prodotti e condivisi che costituiscono i set di cui si nutre la macchina, la 'materia' plastica utilizzata per produrre le immagini che vediamo. La macchina è in grado di guardarci e di riconoscerci, di manipolare e trasformare i nostri dati e la nostra memoria in connessioni numeriche che costituiscono il suo linguaggio naturale e di ripresentarceli sotto forma di immagini ipnotiche, che sembrano volersi connettere con la nostra mente e il nostro inconscio. 

Viene meno la percezione dell'immagine come oggetto inerte del nostro sguardo per assurgere invece a soggetto attivo, operazionale, animato, autoplasmantesi. La nostra percezione non riesce a decifrare quelle immagini, a interpretarle razionalmente, a contenerle, in quanto sfuggono alla possibilità di essere 'possedute' dallo sguardo. Le forme si creano e si disfano a ritmi veloci e comunque non sono ordinabili in base a schemi convenzionali e consolidati di riconoscimento e di lettura.

Ecco come si delinea il sentimento del sublime moderno: come l'incontro con lo sguardo della macchina, che è in grado di vedere molto più e molto più acutamente di noi, che può guardarci e processarci, che è dotata di un 'cervello' sterminato da cui può attingere dati e connessioni. Che, insomma, ci vede come un oggetto da analizzare, usurpandoci il ruolo di soggetto assoluto della visione. Perché l'infinito - dell'infosfera - è lei a contenerlo questa volta, a padroneggiarlo, elaborarlo e trasformarlo. E l'uomo non può che delegarle il compito, accettando di svestire il ruolo di signore assoluto dello sguardo e del pensiero.

Il sublime dei nostri giorni, alla fine, non si risolve nell'autocelebrazione del soggetto umano, ma segna il tramonto probabilmente definitivo dell'antropocentrismo su cui si è fondata la nostra modernità.

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