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lunedì 4 novembre 2019

Nan Goldin. The ballad of Sexual Dependency



Chi si volesse accostare alla fotografia di Nan Goldin per trovare testimonianze documentarie sul mondo underground degli anni ottanta e sulle sub-culture urbane non può che rendersi conto di aver scelto un accesso quantomeno parziale. I soggetti della Goldin sono il mondo bohemien metropolitano, le drag queen e i transgender, la cultura punk, gli amori etero e omosessuali, la violenza e la droga, l'AIDS, le feste e la solitudine, ma non è l’indagine di fenomeni sociali l’obiettivo della sua fotografia.
“My work is about letting life be what it is [...] What I’m interested in is capturing life as it’s being lived, and the flavor and the smell of it, and maintaining that in the pictures. It really is about acceptance. I am a participant and a witness at the same time.” (“Il mio lavoro vuole mostrare la vita così com’è […] Ciò che mi interessa è catturare la vita per come è vissuta, e il sapore e l’odore di essa, e mantenere tutto ciò in un’immagine. Sta tutto nell’accettazione. Sono partecipe e testimone allo stesso tempo.” in Nan Goldin: couples and loneliness, 1998). Queste sue parole sembrano riassumere la poetica del suo lavoro: rendere il sapore e l’odore della vita reale impressi in un’immagine.



Come per altri artisti accomunati nel filone del cosiddetto insider documentary (Tina Barney, Richard Billingham, Wolfgang Tillmans), materia prima dell’opera di Nan Goldin è la realtà quotidiana dell’artista, la sua vita privata e quella delle persone a lei vicine. Il rapporto con la realtà è diretto, le immagini costituiscono un diario intimo visuale. Niente è nascosto, tutto viene messo in mostra: da momenti di festa a riprese intime di rapporti sessuali, da occasioni di gioia a quelle di abbattimento, da esplosioni vitali al confronto drammatico con la violenza, la malattia e la morte. Immagini quasi documentarie, presentate in una maniera apparentemente cruda e naturale, scattate nello stile sbilanciato tipico dell’istantanea, spesso un po’ sgranate, sfuocate e con colori virati, con “occhi rossi”, flash abbaglianti e altre imperfezioni, “un montaggio e una messa in scena di momenti privati apparentemente senza filtri che rivelano le origini e le manifestazioni delle vite emotive dei soggetti.” (Charlotte Cotton, La fotografia come arte contemporanea, 2004)
Goldin comincia a fotografare giovanissima, qualche anno dopo il suicidio della sorella Barbara. Quello di Nan Goldin è un diario visivo che prende avvio da un trauma; per questo la sua opera viene spesso interpretata come una forma di rielaborazione del lutto e della separazione. La madre aveva cercato di tenerle nascosta la verità a proposito della sorella, parlando di un incidente. Anche da questo, probabilmente, deriverà il suo feroce gusto per la verità che la porterà a scattare una foto a tutti coloro che le sono vicini, senza sosta, in qualsiasi momento della loro vita, come per rispondere a una necessità interiore di conservarne traccia.


I soggetti che privilegia sono agli antipodi del puritanesimo americano: il sesso, l’isolamento sociale, la violenza domestica, l’abuso di sostanze stupefacenti, la malattia, ma non li affronta come temi di indagine. Semplicemente Nan Goldin fotografa le persone che ha attorno e a cui è legata, mescolando ritratti di parenti, amici, autoritratti. Tutta l’opera, più che attraverso una distinta temporalità, fonda il suo racconto su una marcata corporeità. Spesso sono immagini di corpi sofferenti e maltrattati, corpi che sono stati violati, dagli altri e da se stessi, intorno ai quali aleggia un profondo senso di perdita. Ma anche corpi che si concedono momenti di tenerezza, di abbandono, di intima comunione.
A partire dal 1979, Goldin comincia a proiettare pubblicamente le sue slide di diapositive. Le sequenze di immagini mutano ad ogni proiezione, nuove fotografie vengono inserite in un rimescolamento continuo nel corso di mostre e festival successivi (un work in progress che arriverà a contare circa 700 diapositive). La colonna sonora è estremamente eterogenea, includendo brani che vanno dalla Callas ai Velvet Underground, da Dean Martin a Charles Aznavour. Le diapositive sono scandite con un ritmo di quattro secondi ad immagine, un’attenzione alla serialità e alla temporalità dell’esposizione che si mostra molto vicina al linguaggio cinematografico.
Nel 1986 il suo lavoro fotografico è pubblicato da “Aperture” nel libro The Ballad of Sexual Dependency (il titolo del testo è preso da una canzone scritta da Bertolt Brecht). Il passaggio dalla diapositiva, fugace e momentanea, alla stampa cartacea cambia radicalmente la struttura della narrazione e anche la fruizione dell’opera. Ciò che muta è soprattutto la temporalità del racconto e il rapporto dell’osservatore con le immagini. Il passaggio da un medium all’altro dà il tempo allo spettatore di immergersi e riconoscersi nell’immagine.


Nel libro trovano posto soprattutto fotografie che raccontano situazioni di sofferenza, di gioia, momenti di relazioni eterosessuali, mentre hanno meno spazio temi più marginali come tossicodipendenza, identità transgender e relazioni omosessuali. Alcune immagini confluiranno nel documentario creato in collaborazione con la BBC, I’ll Be Your Mirror (1995), che si focalizza in particolar modo sulla questione dell’AIDS, che esplose tra la metà degli anni ottanta e i novanta.
Tecnicamente, le immagini della Goldin sarebbero da ascrivere alla fotografia di ambito familiare, cioè quella volta alla conservazione di eventi importanti della vita di una famiglia. Ciò che però mostra l’intimità esibita dalla Goldin sono i fatti che di solito non compaiono negli album domestici: momenti di sofferenza, di dolore, di malattia, di dipendenza, di sesso. Questa tipologia rappresentativa, scrive ancora la Cotton, “accoglie inoltre come soggetti i non-eventi della vita quotidiana: dormire, parlare al telefono, guidare l’automobile, essere annoiati o poco comunicativi.” Anche i corpi sono ripresi nella loro verità. All’interno di questa strategia di narrazione, fondata sulla forma dell’istantanea e privata di ogni forma di idealizzazione, l’individuo non è più solo un'immagine. Il corpo presentato non è quello che lo sguardo di un voyeur può penetrare e violare. Nella migliore delle ipotesi, ci rimbalza sopra. La rappresentazione del sesso, con i corpi avvinghiati negli amplessi, non appartiene alla tradizione della fotografia erotica, né a quella dell’immagine pornografica, ma si mostra come una delle condizioni che appartengono all’esistenza umana.
I corpi fotografati, spesso parzialmente nudi, lasciano spazio a dubbi sul sesso. I confini tra maschile e femminile sono sfumati dal trucco, dall’abbigliamento e dalla gestualità. Sono corpi mostrati nell’immagine che vogliono darsi, liberati da ogni gabbia di genere. Questi acquisiscono lo status di soggetti vitali, collocati in contesti comuni, degni di essere rappresentati in una storia collettiva. La sfera intima in Goldin, insomma, diventa uno spazio politico in cui fioriscono le identità di minoranza, dove viene ridisegnata la definizione di "umano" e vengono tracciate nuove linee di genere, in contrasto con i discorsi egemonici sull'argomento.


I contenuti e la forma di istantanee avvicinano queste immagini al documentario e al reportage. Esse mostrano degli individui nel loro ambiente quotidiano. Le scene sono ambientate sia all’esterno che in luoghi chiusi: l’interno di un taxi, di una camera, di un bagno. E tuttavia l’inquadratura imperfetta, il punto di vista spesso decentrato, i difetti di messa a fuoco e di composizione creano un’atmosfera così intimista e naturale da dare all’osservatore una sensazione ben diversa dal distacco del documentario. Non è questo il contesto per ripercorrere il dibattito sull’effettiva spontaneità delle riprese o sulla loro eventuale messa in scena. Basti dire che l’estetica imperfetta sopra citata è la strategia visuale su cui Nan Goldin fa leva per conferire alle immagini il significato di una registrazione bruta della verità. Sembrerebbe che l’artista creda fortemente nella trasparenza estetica e ideologica del medium. In realtà, nell’opera di Nan Goldin, è proprio lei il medium ineludibile delle immagini. Si sente distintamente che l’autrice non è di fronte a un luogo e a un soggetto in posizione esterna, ma è parte integrante della scena. Tutte le sue fotografie sono contrassegnate dalla sua soggettività, dalla sua presenza, dal suo corpo immerso nello stesso luogo dei soggetti fotografati. Lo sguardo dello spettatore, assumendo il punto di vista originario, si ritrova immerso, pertanto, in una condizione di reciprocità. Ciò provoca un irresistibile, per quanto conturbante, coinvolgimento, perché le fotografie di Nan Goldin sanno attivare relazionalità e partecipazione umana, elaborando una nuova prossimità tra l’opera e lo spettatore, dove il privato e l’intimo diventano pubblici e viceversa.


The Ballad of Sexual Dependency, tuttavia, ci racconta soprattutto la difficoltà di amare. Non è un caso che la fotografia sulla copertina del libro mostri Nan e il suo compagno Brian a letto. Una forte sorgente luminosa esplode in uno spazio buio, creando un contrasto che drammatizza la scena e crea una tensione narrativa. L’azione della luce ha l'effetto di separare i due personaggi presenti, una separazione che sembra anticipare l’effettiva rottura che avverrà tra Brian e Nan. Questa immagine disegna il ritratto di due esistenze solitarie; il tema universale del perenne conflitto tra i sessi e della loro difficoltà di comunicazione è presente , ma solo in quanto incarnato in due corpi e in due storie individuali. E, nello stesso tempo, la sofferenza e la separazione sono condensate in un dispositivo rappresentativo che le trascende e le iscrive in una cornice universale.
Lo stesso accade per le immagini che parlano di AIDS. Sebbene Nan Goldin descriva un flagello del suo tempo, le sue fotografie mostrano innanzitutto non la malattia, ma dei volti umani che vivono quella condizione.
“Per Nan Goldin”, scrive Guido Costa in Nan Goldin (2006), “non si tratta di descrivere fotograficamente dannati o oppressi, né tantomeno di insegnare con l’arte qualche forma di riscatto. […] Non c’è un secondo fine documentaristico o velatamente critico-ideologico, non c’è neanche alcuna vocazione neorealista. C’è piuttosto una volontà pura e semplice di fissare l’istante, non soggiogata dalle sovrastrutture dell’arte.” La sua è un’immersione profonda nella complessità delle persone, uno sguardo che cerca la verità della condizione umana indagando soprattutto i corpi, il suo e quello di chi gli sta intorno.


Le opere di Nan Goldin non sono solo un ritratto del suo tempo né un semplice diario intimo, ma assurgono a una dimensione universale, che indaga il farsi dell’identità dell’individuo nel difficile rapporto con l’altro. Le sue fotografie trasformano i dati grezzi quotidiani in avvenimenti dotati di memoria e di senso, mostrando sia il crudo dolore umano che la vitalità e la gioia, la comunione così come la separazione che caratterizzano le relazioni tra le persone. La sua opera è una struggente celebrazione della condizione umana, dell’individuo in quanto tale, al di là di ogni schema sociale o di genere, alle prese con la fatica di esistere, di relazionarsi, di amare e di essere amato, con le tragedie e le gioie della vita.

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