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venerdì 1 novembre 2019

Monologhi in penombra



Un palcoscenico vuoto, spoglio, semibuio. Un uomo (Lui) in calzamaglia nera, girato di spalle rispetto alla platea, osserva la sua ombra proiettata sul muro. Un personaggio femminile (Io), invece, si muove e danza. Gli è tipico un movimento delle mani, che si protendono in varie direzioni. Indossa vesti colorate.


Lui: Queste che udite non sono parole. Da tempo ho sepolto le inutili menzogne.
Lo strano soffio che vi solletica l’udito è solo un flusso tremulo di istanti. TIC TAC TIC TAC. Vorrei poterli scandire con la mano, ma la terra impedisce ogni mio movimento. La terra racchiude il mio corpo, lo protegge dalle insidie dell’inganno. Non la luce, né il buio, non il respiro, né lo sguardo appartengono al mio mondo. Scivolano gli istanti senza suono. Neanche il silenzio trova spazio sotto la terra.

Io: Io sono quello che sono. Ognuno di voi può dire il mio nome e chiamare se stesso. Ma, poiché ogni cosa ha un nome che le appartiene, io pronuncerò il mio e ognuno di voi, nel proprio cuore, dirà il proprio.

Lui: Cosa c’è di più assurdo che udire parole mai dette, a cui nessuna voce ha dato suono? Eppure è qui, l’assurdo, nell’aria; ci sovrasta la sua ombra, minaccia le coscienze. Chiudete gli occhi. Non guardate. Questa è nient’altro che finzione.

Io: Io sono colui che è in cammino. Mio padre è il vento, che mai conobbe sosta. Ah!, direte voi, il corpo brama il riposo, e l’animo la quiete per la sua sopravvivenza. Non lasciatevi ingannare! Forse che il sangue smette di pulsare o l’aria non continua ad entrare nei polmoni quando il sonno ha disteso le membra?

Lui: Illusione, nient’altro che illusione è la parola. Chi vive sotto la terra non ha messaggi per l’esterno. Cosa siamo mai se non bozzoli secchi di farfalle che mai videro la luce, appesi a un ramo che di tanto in tanto il vento scuote?

Io: Io sono colui che è in cammino. Non conosco l’ora, né il giorno, in cui intrapresi il viaggio. Quando apersi gli occhi, i miei piedi già calpestavano sentieri. Dipoi volsi lo sguardo al mondo e mio padre mi invitò a danzare.

Lui: Il dubbio è pietosa illusione, che ti porta, ammantato di sogno, su innumeri strade.
Da tempo alzai il velo che i giovani sogni distendono sul mondo. Col mio braccio ho gettato via lenzuoli polverosi da mobili tarlati e ho aperto la porta proibita. Né luce né tenebre, né rabbia né tristezza trovai oltre la soglia. Parole, nient’altro che parole divenivano i sogni, emissioni di suono senza più nemmeno la speranza del dire, piume che cadono quando l’uccello è ferito senza scampo. Sonori inganni, sogni seducenti e lusinghieri, con presunzione di corrispondenza.
Ecco dov’è il vero: una bocca riempita di terra, un cuore svuotato di desiderio…

Io: Non sopporto il buio indistinto e la luce che acceca. Cerco la fiammella che indichi il cammino. Mi protendo a lei con tutto il corpo, spiegando in avanti le braccia. Tutte le membra sono tese verso di lei.
Nel buio totale mi vien meno il respiro; non trovo le cose, non trovo le mie mani. Il buio mi opprime, mi annienta. Non c’è vita al buio.
Nella luce che tutto illumina scompaiono ugualmente le cose; neanch’io mi ritrovo. Nella luce scompare il mistero. Il velo che tutto scopre disperde i miei sogni.

Lui: Il movimento dei corpi è simile a quello degli atomi: corrono, si scontrano, si uniscono, si dividono, in un perenne alternarsi di unione e di separazione. Ma le anime sono come pianeti che corrono su orbite che non s’incontrano mai. Perennemente scivolano su traiettorie parallele, ma l’incontro non avviene. Qualche volta un meteorite cade con violenza su un pianeta e lo ferisce: è l’istante supremo, che illumina e svela l’inganno.

Io La certezza è struggente rimpianto, di una scelta che mai più si propone. L’uomo sicuro è un uomo senza sogni, perché i sogni galleggiano nell’incertezza.
Qui nuove realtà prendono forma; innumerevoli agli occhi. Nella penombra un nuovo mondo prende vita, nuova luce che nulla riflette, né disvela. La parola nasce nella penombra, che viene a me con l’aurora. Ecco giunge, sotto forma di delicato chiarore. Con tocchi leggeri rivela le sagome, fa intuire le forme, nasconde i contorni.
Come nel grembo della madre, quando l’inizio del parto apre uno spiraglio, così nella penombra dell’aurora accade il medesimo risveglio. La parola prende vita, una parola che ha un volto, ha le mani, una voce…

Lui: Siamo bozzoli secchi di farfalle, e null’altro. Il mondo si dilata fin dove arrivano i sensi, ma il mondo è un bozzolo di piombo privo di fessure.
Vile pretesa è la parola. Essa sta lì in agguato, con sguardo da folle ti tenta, ti illude. È una lama affilata, mortale, un felino che ti avvinghia e ti spoglia, ti possiede senza ritegno.

Io: Comprensione è la parola giusta. Io ascolto, io parlo, io comprendo. Io prendo le tue mani tra le mie e le parole divengono carne e sangue.
Carne e sangue divennero le parole dei miei padri, che gridarono la guerra e danzarono la liberazione.

Lui: Non si può scavalcare il muro; siamo fortezze senza ponte. Liberate gli occhi dai veli vischiosi come ragnatele. Le parole sono antichi specchi in cui ci rimiriamo, per confortare la paura di esser soli. Strana paura: si teme ciò ch’è fonte di grandezza
Sono crollati gli effimeri ponti. Ognuno sta sulla terra arrotolato su se stesso, come nel grembo di una madre, ma senza più cordone ombelicale.
Nella terra, con la terra io mi confondo. Mi sono estranei i rumori, gli odori, le forme.
La trappola delle parole non m’inganna più. Non ho messaggi per nessuno, poiché nessuno esiste oltre il suolo concimato dalla cenere.

Io: Pronunciare parole è come tendere le mani verso un grembo vicino.

Lui: Io non vi appartengo; non son parole queste che udite. È rumore di terra che scivola in profondità, flebili echi di piccole frane sotterranee. Non altro mi resta in quest’alcova priva di radici, poiché le radici sono promesse di nuovi inganni.
Come isole vaghiamo su un oceano senza fondo, l’abisso del tempo che non è più e del tempo che non è ancora. Un filo sottile ci incatena al mondo, un respiro. Poveri noi, relitti su uno scoglio che affonda ad ogni istante.

Io: La parola è far posto a uno sconosciuto davanti a uno specchio.

Lui: Dare un nome alle cose è come frantumare un grande vetro. Ogni scheggia pretende di specchiare il mondo e non si accorge di essere solo un relitto.

Io: Guardarsi allo specchio è un po’ come ascoltare il cuore che batte.

Lui: Queste che udite non sono parole. La mia bocca è piena di terra. La mia carne è impastata col fango.

Io: Le parole sono un respiro in comune. Ora mi sdraierò e ascolterò il mio respiro. E se mi addormenterò, continuerete ad ascoltarlo voi per me.

Lui: Svegliatevi da questo sogno.

Io: (respira)

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