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mercoledì 16 ottobre 2019

Eugenio Montale, "Portami il girasole"



Se è vero che la dimensione che domina gli Ossi di seppia è quella della negatività, dell’inutilità (e il titolo stesso richiama a cose morte, inaridite), della constatazione dell’impotenza dell’uomo, della sua angoscia esistenziale, bisogna aggiungere che si tratta di una negatività dialettica: che, cioè, non esclude l’esistenza della positività verso la quale, in un susseguirsi di sforzi, votati però allo scacco e alla sconfitta, il poeta tende, senza abbandonarsi tuttavia a facili sentimenti consolatori, ma sempre con stoica dignità e rigorosa consapevolezza. Questo è visibile tutte le volte che il poeta parla dell’ansioso tentativo di trovare un varco, una via di salvezza.
Il girasole è simbolo di questa tensione dinamica verso l’altrove, verso una trascendenza evanescente. Tutta la poesia rende il senso di un movimento dal basso all’alto, dal concreto corporeo all’etereo impalpabile dell’aria e della musica, dall’aridità del “terreno bruciato dal salino” alle “trasparenze del cielo”.

Il girasole, metafora della poesia, trapiantato in quel terreno arido che è l’interiorità del poeta (e simbolo della condizione umana), si antropomorfizza, diventa umano, la sua corolla diventa un “volto giallino”, uno sguardo ansioso volto verso l’azzurro del cielo. Il girasole, con il suo centro scuro circondato da petali più chiari e luminosi, assurge a simbolo di una tendenza delle cose oscure a chiarirsi, di un miracolo, di una salvezza ansiosamente cercata. Anche i corpi perdono la loro materialità, “si esauriscono in un fluire di tinte” e le tinte diventano musiche, in un crescendo di rarefazione. E’ tutto un tendere verso l’etereo, verso l’alto, una tensione alla trascendenza, al superamento della disarmonia e della frammentazione che caratterizzano la condizione umana. Per questo “svanire è dunque la ventura delle venture”: svanire, cioè perdere consistenza, liberarsi dalla stringente e crudele necessità delle leggi deterministiche che dominano la vita e la storia, fondersi con la natura fino a perdere la consapevolezza dolorosa della propria estraniante alterità.
Il girasole, si ribadisce nell’ultima quartina, porta verso l’alto, verso il cielo, dove “sorgono bionde trasparenze” e la vita diventa “essenza”, scevra dalle zavorre della materialità e dell’inganno di una realtà che si dà sempre e solo come apparenza. La parola “trasparenze” lascia intendere la possibilità di quel “varco”, di quell’apertura, di quello spiraglio di libertà che è il desiderio, la meta impossibile ricercata dal poeta negli Ossi di seppia.
Disarmonia, spaesamento, male di vivere in un paesaggio scabro e arido. Questi i termini essenziali della raccolta. La vita è male, necessità, ferreo meccanicismo, legge inalterabile di sofferenza. Eppure il poeta si sente vicino al miracolo rivelatore e liberatore, in grado di spezzare la catena della necessità e dia un senso all’esistere, ricomponendo l’unità primigenia, anteriore alla frantumazione gnoseologica ed esistenziale della condizione attuale. E naturalmente la poesia è lo strumento e la forma essenziale di questa ricerca. Di tutto ciò è simbolo il girasole. Tuttavia, questa ricerca di corrispondenze, l’illuminazione in grado di svelare la verità, sembra votata inesorabilmente allo scacco. Innanzitutto l’identificazione del poeta con il girasole, del soggetto con il simbolo, non avviene; l’io e l’oggetto rimangono separati, nell’ultimo verso, dalla distanza resa dal vocativo “portami”, da una preghiera che rimane inesaudita. Inoltre, l’aggettivo “impazzito” lascia intendere che il tentativo di superare la frantumazione e la mancanza di senso è votato alla follia.
La soluzione dannunziana della identificazione mitologica dell’io nel tutto naturale, regno dell’indifferenziato e del senza-limite, che caratterizzava la condizione primitiva dell’uomo che viveva un rapporto organico e armonioso con il cosmo, è scartata come impossibile e comunque destinata al fallimento. La dissolvenza della materia in un flusso mutevole di colori e suoni non produce la ricercata sintonia, l’accordo musicale con il tutto. L’ultima quartina è pervasa dall’invocazione fatta dal poeta a un imprecisato interlocutore. Ma niente lascia intendere che quella preghiera trovi ascolto e il desiderio trovi appagamento. La conclusione è un conato, una tensione senza sblocco e un girasole impazzito.

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