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lunedì 10 giugno 2019

La figura umana nell’arte di Magritte

Magritte, I misteri dell'orizzonte, 1955.

I pittori surrealisti rappresentano il corpo umano come materia metamorfica, facendone uno strumento di indagine del regno dell’inconscio, del sogno, dell’impero delle pulsioni, della profonda oscurità della psiche. Il corpo umano diviene oggetto dell’immaginazione e dell’eros, che spesso si traduce in ossessioni morbose e visioni da incubo.
Di altra natura è l'immagine del corpo in René Magritte. Anche quando ne fa oggetto di metamorfosi e di ibridazione, infatti, la finalità dell’artista mira costantemente non tanto a esplorare la sfera dell’inconscio, ma a minare radicalmente e lucidamente le nostre convenzioni percettive e a stravolgere l'idea comune che abbiamo del corpo o le relazioni che normalmente ci suggerisce. Tale oggetto, pertanto, diventa uno strumento privilegiato per indagare la polivalenza del reale, la pluralità e l'enigma di ciò che si cela dietro il conosciuto e l'abituale. La figura umana, nell’arte magrittiana, non è tanto l’espressione di una visione dell’uomo, ma un congegno semanticamente versatile e suscettibile di sviluppi all’interno della sistematica ricerca dell’artista tesa a indagare il problema dell’immagine e del rapporto tra realtà e rappresentazione.
Magritte riconosce come il corpo umano, così come ogni oggetto della realtà, dal più banale al più raffinato, contenga in sé una dispersione di funzioni, di sensi e possibilità e, pertanto, non possa mai essere definito, cioè limitato, una volta per tutte.

Magritte, Le chemin de Damas, 1966.
Osservando le opere di Magritte in cui il soggetto protagonista è la figura umana, ho ritenuto di suddividerle in gruppi. Il primo comprende le opere in cui la figura umana presente è formalmente integra, anche se l’identità resta sempre un elemento problematico. Il soggetto prevalente in questo insieme è quello dell’uomo comune, tipico dell’iconografia magrittiana, l’individuo borghese con vestito scuro, cravatta e bombetta. La sua figura e la sua faccia sono del tutto anonime, interscambiabili e, molto spesso, il volto è nascosto alla vista per l’interporsi di un oggetto o per altre circostanze “surreali”. In un secondo gruppo ho raccolto le opere in cui la figura umana ha perso la sua integrità in quanto risulta deformata o frammentata. Nel terzo figurano i quadri in cui il corpo umano risulta ibridato con animali oppure oggetti di varia natura. Infine, nel quarto ho raccolto quelle opere in cui la figura è scomparsa e di essa rimangono solo dei “segni”: delle sagome, delle bare o, addirittura, la sola designazione verbale “corps humain”.


Il corpo anonimo

Magritte, Il maestro di scuola, 1955.
Figura tipica delle opere di Magritte è il cittadino comune, vestito da perfetto borghese, con cravatta e bombetta, quasi una divisa. Un individuo anonimo, interscambiabile, quasi un prototipo d’uomo seriale. Questo personaggio, che si intuisce protagonista di una vita ordinaria e senza sorprese, viene collocato in contesti caratterizzati dall’irrompere dell’assurdo. E’ una figura che compare lungo tutta la produzione magrittiana, sia nelle prime opere che in quelle della fase tarda, prima della morte. Lo troviamo in “Le fantasticherie del passeggiatore solitario”, del 1926; lo vediamo “piovere” dal cielo, insieme a tanti altri omini identici a lui, ridotto a figurina senza peso e senza consistenza, in “Golconde” del 1953; di spalle sotto una falce di luna sospesa sopra la testa in “Il maestro di scuola” (1955) e con una mela sulla faccia in “Il figlio dell’uomo” del 1964.
In “I misteri dell'orizzonte” (1955) lo stesso personaggio è “clonato” in più esemplari, come nell’inquietante “L’assassino minacciato” (1927) in cui cinque individui, pressoché indistinguibili l’uno dall’altro, spiano il killer che ha appena ammazzato una donna all’interno di una camera e sta ascoltando musica da un grammofono.


René Magritte – L'assassino minacciato (1927)

“Le fantasticherie del passeggiatore solitario”, 1926.

Spesso questi individui ordinari sono resi ancora più anonimi perché si presentano di spalle o con il volto coperto: da una mela (“La Grande Guerre”, “Il figlio dell’uomo”) o da una colomba (“L’uomo con la bombetta”), o da un panno bianco (“Gli amanti”, “La storia centrale”). Nascondendo il volto del personaggio, Magritte induce un senso di frustrazione nello spettatore, sconvolgendone le attese, le abitudini mentali e le convenzioni percettive. Il soggetto si mostra a noi e contemporaneamente ci priva della sua presenza. In tal modo l’artista belga trasforma un ritratto banale in un paradosso visivo, che si interroga sulla distanza tra realtà e rappresentazione. Ad esaltare lo straniamento provocato dall’illogicità di tali accostamenti e occultamenti, spesso interviene il titolo con la sua incongruità rispetto al soggetto che designa. Si pensi, ad esempio, a una versione de “La Grande Guerra”, dove il ritratto di una donna in abito elegante, cappello e parasole ha il volto nascosto da un mazzo di violette. Anche il corpo della donna copre una parte del muretto, del mare e del cielo che sono dietro di lei, eppure a questo non ci facciamo caso. Il mazzo di fiori che copre il suo volto, invece, ci provoca spaesamento, perché contravviene alle convenzioni figurative tradizionali. “Tutto quello che vediamo – dichiara Magritte – nasconde qualcosa, e noi vogliamo sempre vedere cosa è nascosto dietro ciò che vediamo. C’è un interesse in ciò che è nascosto, ciò che il visibile non ci mostra. Questo interesse assume la forma di una sensazione intensa, una sorta di conflitto, potremmo dire, tra il visibile che è nascosto e il visibile che è presente”.

Magritte, Golconde, 1953.

Magritte, “Uomo con la bombetta”, 1964.

“Il figlio dell’uomo”, 1964.

La grande guerre, 1964

Un volto che si cela allo sguardo o che si ripete identico in più esemplari genera grande inquietudine, perché priva lo spettatore di un punto di riferimento forte, quello dell’identità riconoscibile dell’individuo.
L’identità del soggetto è negata anche in un’altra celebre tela di Magritte, "La riproduzione vietata (Ritratto di Edward James)". Un uomo di spalle, vestito elegantemente e con i capelli accuratamente tagliati, è in piedi di fronte a uno specchio. La resa pittorica è molto accurata e la precisione quasi fotografica. Ogni elemento è reso molto realisticamente: il marmo della mensola, la cornice dello specchio, i capelli impomatati, la copertina del libro, di cui riusciamo persino a leggere titolo e autore. Le nostre convenzioni percettive vorrebbero subito farcelo riconoscere come un normale ritratto allo specchio, ma le nostre aspettative sono spiazzate. Contro ogni logica, il volto non si vede. Rimaniamo disorientati, in preda all'inquietudine: l'immagine nello specchio ci restituisce ancora le spalle dell'uomo. “Ciò che è importante – afferma lo stesso Magritte – è proprio questo momento di panico, non la sua spiegazione”.

Magritte, La riproduzione vietata (Ritratto di Edward James), 1937

Il titolo dell'opera ci dice che si tratta del ritratto di Edward James, ma il suo volto, la sua identità visibile restano nascosti. E' un cortocircuito sensoriale, una contraddizione in termini: un ritratto che nega l'essenza stessa del ritratto.
Per comprendere "La riproduzione vietata", come le altre opere magrittiane, è necessario andare al cuore della visione dell’artista: la pittura è non è uno specchio fedele della realtà. Come lo specchio non è ciò che riflette, così la pittura non è ciò che riproduce. Essa non duplica la realtà, ma può disporre a suo piacimento delle apparenze visibili, imponendo loro una logica che è in contrasto con le comuni leggi della percezione.
Magritte si dichiara innanzitutto un pittore di idee, di pensieri visibili, un pensiero reso per immagini. La sua pittura è di natura speculativa, filosofica, in quanto lo shock estetico provocato dall'immagine dipinta non può mai essere separato dalla riflessione, dal piacere della mente che viene costretta al pensiero.

René Magritte, Les Amants (Gli Amanti), 1928.

La pittura non copia la realtà, non celebra le apparenze, ma costruisce immagini in grado di addentrarsi nella natura profonda, segreta del reale, nel suo mistero nascosto e invisibile. E' questo ciò che si intende per surrealtà. L’arte di Magritte non riproduce sogni, non ricrea mondi immaginari in cui prorompe la forza dell’inconscio, ma introduce, nel cuore della logica del reale e del visibile, una logica altra, che produce non tanto una brutale quanto superficiale violazione, ma un capovolgimento a freddo, sebbene radicale. Egli liquida la rappresentazione, ma dall’interno, restando dentro la forma, ma sabotandone l’evidenza percettiva.
Ciò che caratterizza l’arte di Magritte è la ricerca di immagini in grado di evocare il “mistero” e di creare uno “spaesamento”. «Magritte ricerca un «nuovo ordine» compositivo tra gli oggetti, che sia in grado di creare una relazione inedita tra le cose che costituiscono la scena del dipinto. In questo stupore la nostra abituale relazione con la cosa e con il suo utilizzo si paralizza: la conseguente scorporazione del significato dà spazio alla piena visibilità della cosa.» (L. Taddio, Fare cose con i fenomeni. Immagini e percezione: Magritte e la natura delle rappresentazioni pittoriche)
Attraverso il paradosso visivo, si interrompe l’automatismo della visione, cioè l’abitudine a vedere gli oggetti secondo consolidate relazioni e schemi percettivi; il nuovo ordine in cui sono presentate le cose consente di mettere tra parentesi la maniera consueta con cui ci relazioniamo ad esse e il significato abituale che attribuiamo loro. L’oggetto può finalmente apparire in quanto tale, in una «perfetta solitudine». «In considerazione della mia volontà di far urlare il più possibile gli oggetti più familiari, l’ordine nel quale gli oggetti si collocano di solito doveva essere evidentemente sconvolto», scrive l’artista.

Magritte, L'histoire centrale, 1928

In questa sospensione della «relazione» abituale con la cosa può essere evocato il mistero, poiché è solo attraverso questa presa di distanza dall’ambito dell’esperienza quotidiana che il mistero del puro «essere» si può manifestare nella cosa, sia essa una luna, una mela o un corpo. Attraverso i propri quadri, Magritte intende evocare il «mistero» delle cose, disorientando il senso comune che le crede già pienamente visibili.
«Nella mia pittura si tratta […] dell’apparenza delle “cose”: di ciò che il mondo ci offre di “visibile”. Questo visibile (quando non è compreso come qualcosa di utile o di piacevole) evoca “l’esistenza” del visibile […] Io sarei dunque “metafisico” nella misura in cui identifico la poesia (quella che voglio conseguire con la mia pittura) con la descrizione di un pensiero costituito unicamente di figure visibili, unite in modo tale da evocare il mistero dell’esistenza.»


Il corpo frammentato

L’arte di Magritte si caratterizza come una rappresentazione costantemente instabile, che turba le nostre consuetudini visive e le nostre convenzioni interpretative, nella misura in cui cerca di trasportare la visione dal quotidiano all’inatteso, di evocare l’insolito a partire dalle figure familiari. E cosa c’è di più familiare del corpo umano? Ma proprio questo oggetto familiare viene proposto in svariate soluzioni che lo decontestualizzano, lo liberano dai consueti schemi di utilità e di uso, per farcelo vedere in un modo del tutto nuovo. Magritte emancipa il corpo dalla sua identità socio-culturale, sovvertendo l’immagine abituale che si è sedimentata nel corso dei secoli.

Les exercices de l'Acrobate, 1927-8.

L’evidence eternelle, 1930.


Abbiamo visto un gruppo di opere dell’autore che mostrava il paradosso di un’identità anonima, moltiplicata o celata attraverso assurdi accostamenti; un consistente numero di quadri ci restituisce, invece, dei corpi radicalmente deformati, amputati o frammentati, dis-organizzati, dove l'integrità della figura è violata e riconfigurata. In questo caso, a differenza del primo gruppo, è prevalente il corpo femminile, proposto in svariate soluzioni, frantumato in più elementi e ricomposto mediante un'operazione linguistica.
La dissoluzione dell’unità del corpo, la decostruzione dell'anatomia, è il vero paradigma della vocazione magrittiana alla decostruzione della forma. Essa evoca situazioni degenerative e deformanti che collocano le figure sul confine tra la conservazione dell’unità e la completa disintegrazione. Piuttosto che un'unità armoniosa e stabile, il corpo umano, nell'arte di Magritte, è una rete inconciliabile di possibilità che mette in discussione ogni certezza.
Il corpo viene sottoposto a torsioni e amputazioni (Les exercices de l'Acrobate, 1927-8), che si accompagnano alla "mollificazione" della forma, e a frammentazioni radicali e feticistiche come in L’evidence eternelle (1930). In quest'opera si fa sottile la critica magrittiana al concetto tradizionale di rappresentazione, intesa come l'albertiana "finestra aperta sul mondo". Essa è formata da un gruppo di cinque piccoli quadri che mostrano diversi dettagli del corpo nudo di una donna (in particolar modo quelli comunemente investiti di valenza erotica). Insieme le cinque tele offrono una rappresentazione riconoscibile del corpo e, tuttavia, a guardar bene, non lo fanno in modo armonico, rispettando la distanza tra i frammenti e le proporzioni. Ognuna di esse, inoltre, potrebbe essere cancellata o posta in un ordine diverso. L'opera ci rende evidente come ciò che ci sembra reale, la res extensa, possa essere vista come una serie discontinua di parti mobili, che l'immaginazione e l'arte possono trattare con libertà creativa e irriverente. Ecco rivelata l'assoluta convenzionalità della finestra albertiana e l'implicita menzogna in essa contenuta.
 In alcuni lavori la complessa forma del corpo viene risolta in componenti più semplici mediante il distacco degli arti o l'affettatura del tronco in porzioni, come nel quadro Entr’acte (1928), abitato da esseri costituiti dalla sola articolazione di una gamba e di un braccio. E, tuttavia, queste figure hanno tutta l'integrità di organismi viventi e unitari, autonomi e distinti. La parzialità delle loro forme è dunque in grado di far valere una mozione di unificazione metonimica.

Entr’acte (1928)

Spesso l'assalto viene portato su ciò che Michel Foucault definisce "il rapporto interno di subordinazione e organizzazione” del corpo, che costituisce la struttura di un organismo funzionale, inteso come sistema gerarchico che regola le relazioni tra i diversi organi. Si osservi, ad esempio, La razza bianca, che mette insieme un occhio, un orecchio, una bocca e due nasi in una strana costruzione gerarchica, del tutto estranea a qualsiasi legge anatomica.
“Magritte presenta il corpo come una molteplicità spaccata, frammentaria e frammentata, come un puzzle dai pezzi non combacianti, un campo di variazioni, un luogo in cui si incrociano e a volte si ignorano intensità diverse, sensazioni eterogenee e mutevoli. Quello che Magritte vede non è certo la coerenza interna, l’unità del corpo, ma piuttosto la possibilità estetica di contestare e modificare la coesione anatomica” (M. Paquet, “Magritte”, Taschen).

René Magritte, Les liaisons dangereuses, 1926.

René Magritte, La razza bianca , 1937, olio su tela, Collezione privata.

Nell’opera Les liaisons dangereuses (1926) Magritte rappresenta una donna nuda che tiene di fronte a sé uno specchio rivolto verso lo spettatore. Lo specchio, mentre nasconde una parte del suo corpo, dall'altra, contro ogni logica, la riflette, ma in modo contrastante. Il corpo riflesso è più piccolo e posizionato in modo diverso rispetto alla figura che tiene lo specchio. Mostrando la contraddizione insanabile tra le due apparenze visibili (il corpo e il suo riflesso), la stessa immagine si interroga sulla spaccatura esistente tra reale e rappresentazione.
Mostrando allo spettatore due apparenze inconciliabili dello stesso corpo, Magritte ripropone il mistero del rapporto tra visibile e invisibile. La frammentazione operata dallo specchio non permette di cogliere l'unità del corpo, la sua coerenza interna. Anzi si potrebbe dire che quest'opera rappresenta la frustrazione del bisogno dello spettatore di avere una percezione unitaria del corpo femminile, in base alla visione che di esso si è consolidata nei secoli. Quella frammentazione realizza infatti la possibilità estetica di mettere in discussione e modificare la coesione anatomica, restituendo al corpo femminile la capacità di rovesciare l'immagine convenzionale che di esso ha costruito e imposto la nostra cultura.

Le viol, 1945.

L'atto di violenza (L'attentat), 1932

Il Surrealismo ha recepito l'intento cubista di rompere le rappresentazioni naturalistiche e prospetticamente corrette. Magritte non mostra l'apparenza visibile del corpo, ma costruisce un'immagine di esso capace di rivelare ciò che comunemente si cela allo sguardo. Proprio attraverso lo spiazzamento e la frustrazione delle attese dello spettatore, Magritte permette a costui di vedere di più, di andare oltre l'apparenza sensibile.
La pittura non è uno specchio passivo del reale. Essa è, per essenza, separata dalla realtà. Ma proprio questa frattura le conferisce un potere "surreale", cioè la capacità di tradire quella realtà, facendo agire una forza conturbante e sovversiva. Ciò accade in modo “violento” nell’opera “Le viol”, che mostra un volto di donna che ha le fattezze di un corpo, dove gli occhi sono dei seni, il naso è un ombelico e la bocca è un sesso. L’artista trasforma il volto della donna in un corpo privato di individualità e tramutato in “monstrum”, in puro oggetto del desiderio messo a disposizione del voyeurismo dello spettatore, rivelando in maniera efficace tutta la violenza che lo sguardo di un uomo infligge quotidianamente al corpo di una donna. La demolizione del corpo umano e del significato che il ritratto ha storicamente svolto nei secoli, in riferimento all'identità individuale, non poteva essere più oscenamente totale. La vera violenza, qui, è compiuta dalla stessa pittura, in particolare dalla sua ossessione di andare oltre le apparenze visibili, stravolgendole, utilizzandole a suo piacimento per perseguire una finalità poetica, per penetrare nella natura profonda, segreta, delle cose, quella che è fuori portata dello sguardo sensibile.
La pittura mira a disporre del visibile secondo un ordine magico-poetico che permette allo sguardo di penetrare nel nucleo interiore delle cose. Non si tratta di copiare la realtà, di riprodurre l'aspetto esteriore dei fenomeni del mondo, ma di ricreare l'immagine di un corpo capace di rivelare la sua natura profonda, solitamente inaccessibile allo sguardo, ma che, tuttavia, esiste nella testa di ciascuno di noi.

Magritte, Il doppio segreto, 1927.

Magritte, L'inondation.

Il corpo ibrido

Quello della metamorfosi è senz’altro uno dei temi fondamentali della pittura di Magritte. Un consistente numero di opere mostra, infatti, un corpo ibrido, coinvolto in un processo metamorfico. Alcuni di questi quadri mostrano la fusione di una parte del corpo con l’indumento che di solito lo contiene o lo copre. In “La filosofia nel boudoir” e in “Omaggio a Mack Sennett”, ad esempio, vediamo i seni di una donna fusi con una camicia da notte. In “Le beau tenebreux” un cappello a cilindro presenta un volto umano. Numerose sono le versioni di “Model rouge” il cui soggetto è un ibrido formato da scarpe e piedi umani, la cui visione genera senz’altro sconcerto e disagio e che, tuttavia, si presenta con tale realismo e accuratezza nei particolari da sembrare credibile. E’ evidente, in questi casi, come l’artista adoperi la figura retorica della metonimia: la visione del contenente (ad esempio un paio di scarpe) suggerisce all’istante, all’intelletto, la visione del contenuto (i piedi nudi).




E ciò che contraddistingue queste immagini è come esse unifichino le differenze di oggetti distinti, creando unità indistinte. L’ibrido magrittiano non è una metafora, nel senso che l’oggetto visibile non rinvia a qualcos’altro, a un qualche contenuto invisibile. Non ci offre un’immagine che ci consente di interpretare le scarpe in termini di piedi umani, o viceversa. Magritte parte da due oggetti visibili e conosciuti e con essi crea una realtà altra, del tutto nuova, che non rimanda ad altro che a se stessa, che è autoreferenziale. L’immagine poetica ha una funzione cognitiva, che apre al mistero; libera il pensiero e libera le cose dai loro significati acquisiti e convenzionali.

L'invenzione collettiva, 1934.

In altri casi l’ibridazione mette insieme il corpo umano con quello animale. Ne “L’invenzione collettiva”, è adagiata su una spiaggia una figura con la testa di pesce e le gambe di donna, che rivisita l’iconografia classica della sirena, invertendone però le parti e, in tal modo, neutralizzandone totalmente la valenza erotica. In La nostalgia della patria l’uomo affacciato al parapetto di un ponte ha sulle spalle due grandi ali di rondine. In “La raison pure”, invece, ci colpisce la figura di un cavallo che ha gli occhi e la capigliatura di una donna.

La nostalgia della patria, 1940.

Magritte, La raison pure.

In questi casi, l’oggetto ibrido è costituito dall’unione di oggetti diversi, che tuttavia conservano la propria materia costituiva. Numerose sono, poi, le opere in cui l’ibridazione non consiste nella giustapposizione o compenetrazione del corpo umano (o di alcune sue parti) con oggetti o animali, ma mostrano una metamorfosi materica. L’oggetto conserva la propria forma originaria mentre muta la sostanza di cui è fatto. Il corpo umano resta identico a se stesso, ma passa in un regno differente per trasmutazione. E’ questo il caso di immagini in cui la figura (femminile) si pietrifica (Les fleurs du mal, 1946) o si trasforma in cielo (le varie versioni di La magie noire). Già Giorgio de Chirico aveva esplorato l'enigma metafisico che nasce dall'umanizzazione delle statue e dalla trasformazione in statue dei corpi umani. La pietrificazione priva l'essere umano della sua natura organica, conferendogli l'eternità, una specie di esistenza capace di resistere al tempo.

Les fleurs du mal, 1946

Magritte, La magie noire

Ma, tali affronti alla forma coinvolgono esclusivamente la struttura fisica. L'offensiva di Magritte alla convenzione percettiva comporta anche lo smantellamento della raffigurazione pittorica. L’artista belga agisce non solo sul processo di dissoluzione dell’unità anatomica della forma solida, ma anche a livello della decostruzione degli aspetti formali della rappresentazione. Una delle immagini ibride più sconcertanti, da questo punto di vista, è l’opera Les jours gigantesques, che rappresenta una donna nuda che respinge un uomo vestito, il quale tuttavia è visibile solo all’interno dei contorni del corpo femminile che sta assalendo. Il corpo maschile si dà solo là dove la donna, facendo schermo con il suo di corpo, lo sottrae allo sfondo scuro e indistinto che lo inghiotte. In questo modo, però, si determina un capovolgimento delle leggi spaziali della rappresentazione, del rapporto figura-sfondo oltre che una messa in crisi della linea di contorno, intesa come principio su cui si regge la definizione della forma individuale e la distinzione tra i corpi.

Magritte, Les jours gigantesques

In “Les Marches de l'Eté” vediamo un busto di donna, formato da due parti giustapposte e non combacianti, di cui quella inferiore è di pietra. Si tratta di una variante di un’altra opera assai sconcertante di Magritte, La Folie des grandeurs. La "pazzia" in questione è quella dei teorici dell'arte che, fin dall'antichità, si sono sforzati di stabilire norme e proporzioni (il “canone”) per la rappresentazione del corpo umano al fine di conseguire uno standard di bellezza. Anche il cielo sembra essere pietrificato in grandi cubi blu, attraversati dalle nuvole bianche. Inanimato e animato si mescolano a diversi livelli dell'immagine dove tutto è solo passaggio, trasformazione.

Les Marches de l'Eté

Magritte, Le thérapeute



“Les merveilles de la nature” (1953)

Shéhérazade , 1956.

L’opera Le thérapeute (in alcune versioni il titolo diventa Le libérateur) mostra una figura umana ibrida la cui parte inferiore è formata da gambe maschili e il busto è metaforicamente sostituito da una gabbia al cui interno ci sono due colombe, che tuttavia sono libere di volare in quanto la porticina è aperta. E’ qui altresì evidente come l’artista operi vari riferimenti; uno lessicale, che gioca con la terminologia anatomica di “gabbia toracica” e l’altro filosofico, che attinge alla visione classica del corpo come prigione dell’anima.

Il corpo scomparso

Infine, in alcuni quadri, il corpo umano scompare. Di esso rimangono i suoi vestiti (Les cornes du désir, L’idée) oppure il segno verbale che lo designa, come in Le Miroir magique. Questo quadro del 1929 fa parte della serie dei suoi “tableaux-mots”, di cui fa parte anche La trahison des images, che giocano sull’equivalenza tra pittura e scrittura, in quanto tutte le forme di linguaggio, per Magritte, non sono altro che delle convenzioni.

Les cornes du désir
L'Idée

Le miroir magique

Spesso della figura umana resta solo una semplice sagoma, al cui interno è visibile un paesaggio (L’ami de l’ordre, L'Heureux Donateur e tutte le diverse varianti). Anche in questo caso vengono sovvertite radicalmente le regole basilari della rappresentazione, basate sulla distinzione tra figura e sfondo. Il paesaggio non è collocato dietro il personaggio, che perde invece ogni consistenza, ma al suo interno. Il corpo diviene una sorta di ritaglio nella superficie del quadro, un’apertura verso un’altra dimensione.

L'ami de l'ordre, 1964

L'Heureux Donateur, 1966

Una delle scomparse più inquietanti del corpo umano la si trova in "Prospettiva: il balcone di Manet II", che riprende il capolavoro dell’impressionismo francese citato nel titolo. Al posto dei tre personaggi borghesi che comparivano nell’opera originale, Magritte colloca all’interno del balcone tre bare di legno. Queste sono posizionate in modo analogo ai tre protagonisti dell'opera di Manet, nelle stesse pose e angolazioni, quella in primo piano è addirittura seduta come la giovane donna dell'originale.
Lo stesso discorso vale per Perspective: Madame Récamier de David, che rivisita un quadro di  Jacques-Louis David. Anche qui Magritte si limita a sostituire la figura dipinta dal suo predecessore con una bara che assurge a protagonista della scena. In entrambi i casi, resta il dubbio che le figure siano state metamorfizzate nelle casse da morto, oppure vi siano state rinchiuse vive. In ogni caso, le persone sono scomparse, e con loro il volume dei loro corpi, sostituito dal vuoto contenuto in casse di legno, senza sguardo, senza espressione, senza possibilità di movimento o di parola.

René Magritte – Prospettiva II. Il balcone di Manet (1950).

Perspective Madame Récamier de David, 1951

René Magritte, Par une belle fin d'après-midi (1964).

Che sia frammentato, ibridato o ridotto a segno, il corpo umano, nell’opera di Magritte, è il soggetto privilegiato del processo di capovolgimento che l’artista porta avanti nei confronti della rappresentazione. Pur partendo dalla percezione comune del visibile, egli la demolisce, la sabota dall'interno, scardinando le convenzioni: gli oggetti che dipinge sono oggetti banali, quotidiani, assolutamente riconoscibili sulla tela, ma proprio sulla tela sono posti in modo tale da sconvolgere le certezze e ribaltare gli schemi, diventando il luogo dell'imprevedibilità. La logica con cui le cose sono presentate, infatti, va contro ogni convenzione; combinando insieme senso e non-senso, diventa sovversiva e destabilizzante, in contrasto con le consuetudini e la percezione comune, tale da far apparire la realtà in una luce del tutto inedita, di tirare fuori il segreto che quella realtà dissimula e nasconde e che solo l'intervento dell'arte e del pensiero permette di svelare.
L'immagine dipinta non è mai semplice apparenza, cioè un'immagine che tenta di ingannare l'occhio e di spacciarsi per la realtà che essa rappresenta. L'immagine, al contrario, è un pensiero, una riflessione sul suo status di immagine. Non si pone come copia di una realtà che preesiste, ma come un punto di frattura che cerca di far emergere non il reale, ma il suo mistero.


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