Pagine

lunedì 17 giugno 2019

Alla ricerca della Dea Madre. Il Surrealismo dalla parte delle donne: Leonora Carrington e Remedios Varo

L. Carrington, 1953 And Then We Saw the Daughter of the Minotaur

Leonora Carrington
Ai margini del movimento surrealista, in posizione decentrata, opera un nutrito gruppo di donne artiste, tra le quali ricordiamo in particolare l’inglese Leonora Carrington, la catalana Remedios Varo e l’italiana Leonor Fini. Tutte hanno legami diretti con il gruppo ufficiale. Leonor Fini si trasferisce a Parigi dove entra in contatto con i massimi esponenti della pittura e della letteratura surrealista, Remedios Varo è sposata con il poeta surrealista Benjamin Péret mentre Leonora Carrington vive un’intensa relazione con Max Ernst, prima che questi sia imprigionato a Parigi nel 1941 e la Carrington sia costretta a fuggire in Spagna, dove vive la drammatica esperienza dell’internamento in un istituto psichiatrico, e poi in Messico, dove acquisisce la propria maturità artistica.
L’arte di queste donne è unica, ma anche anti-convenzionale e sovversiva, capace di fondere in modo originalissimo gli elementi del Surrealismo con influenze di diversa origine, come quelle provenienti dalla cultura messicana, nel caso di Carrington e Varo, che si ritrovano insieme a Città del Messico dopo lo scoppio della seconda guerra mondiale. Le loro opere rivelano elementi che si rifanno al sogno, al gioco, all’alchimia, al primitivismo e al soprannaturale, alla magia e al mito. Tali elementi si fondono in modi talvolta casuali e arbitrari, a volte contraddittori e incongrui, in immagini poetiche e fantastiche, e anche alquanto enigmatiche.

L. Carrington, 1957 Garden of Paracelsus

Malgrado la sostanza trasgressiva e provocatoria del Movimento, gli esponenti maschili del Surrealismo continuano a tenere un atteggiamento verso il genere femminile che non si discosta molto dalla tradizione e che sottopone la donna a un processo ambivalente di reificazione, da una parte, e di astrazione a utopica proiezione dall’altra, che la confina nei ruoli contraddittori di musa e dea, femme-enfant e strega, vergine celestiale e femme-fatale, cioè di un essere definito in funzione dell’uomo e non come soggetto dotato di un’identità autonoma. Benché posta su un piedistallo e le venga concesso un ruolo centrale (emblematico è il foto-collage, quasi un’immagine manifesto, realizzato da Magritte, dal titolo Je ne vois pas la (femme) cachée dans la forêt, pubblicato in “La Revolution Surréaliste” nel 1929), la donna resta tuttavia relegata allo status di oggetto - del desiderio, dell'ispirazione, della paura, della devozione – dell’uomo. Si ritiene, in particolare, che le donne siano dotate di poteri magico-salvifici, grazie al fatto di avere una speciale connessione con le forze irrazionali e con la natura, in grado, pertanto, di mettere l’artista in comunicazione con quel mondo oscuro e misterioso.

L. Carrington, 1936-37, Autoportrait à l’auberge du cheval d’Aube

La donna viene posta al centro dell’estetica del gruppo, in quanto vestale di un progetto di trasformazione sociale, ma gli stereotipi in cui la si inquadra sono quelli della folle, dell’isterica, della donna-bambina, della ribelle, considerate da Breton e compagni come perfette incarnazioni di quell’alterità in grado di scardinare la realtà borghese. Inoltre, nelle pitture di Dalí, Magritte, Masson, nei collage di Ernst o nelle fotografie di Man Ray e Hans Bellmer si sprigiona una notevole violenza verso il corpo della donna, ridotto a feticcio, disarticolato, reificato. L’atteggiamento contraddittorio nei confronti dell’universo femminile passa dal desiderio di dominio (fisico, mentale, sessuale) all’esaltazione mistico-celestiale di una figura intangibile ed eterea. La follia e l’infantilismo sono considerati gli aspetti fondanti l’identità femminile, che fanno della donna il mediatore ideale dell’irrazionale. Scrive Giulia Ingarao:
“Nell’universo surrealista la donna è sempre proiezione del desiderio maschile o strumento attraverso cui l’uomo può sperimentare il mistero. Detentrice di poteri magici e metamorfici, vive in una contraddizione irrisolta, allo stesso tempo sublimata e degradata, è considerata dea e serva. Teorici e artisti del movimento identificano il femminile con un mondo fecondo di immagini, notturno e imprevedibile, ma privo di un ruolo autonomamente generativo.” (da Archetipi del femminile, https://www.indiscreto.org/la-donna-surrealista/?fbclid=IwAR11vNWxMzbg_FsYsYTBH1MRehJiV4fxyZgGHHEKSSr836fU_pCFX9CusJQ)

L. Carrington, 1941 Down Below

Da questo punto di vista, è indicativo come il teorico e fondatore del Surrealismo, André Breton, nel suo testo Aracne 17 (1944), articoli la visione di un Mondo Nuovo, dove le donne hanno maggior spazio e potere, sia nell’arte che nella vita, e contemporaneamente faccia ciò invocando Melusina, figura della mitologia medievale, fata dell’acqua dal corpo ibrido, con la coda di pesce o di serpente al posto delle gambe. Il Surrealismo, d’altra parte, è una corrente caratterizzata proprio dalla metamorfosi e dall’ibridismo, incentrato in particolar modo sulla forma femminile, il cui corpo viene non di rado frammentato, tagliato e ricomposto, mescolato con parti di oggetti o di animali. E tuttavia singolare è come le artiste surrealiste, in particolar modo Leonora Carrington, Remedios Varo e Leonor Fini riescano a mettere in discussione il ruolo del corpo ibrido femminile all’interno del Movimento proprio attraverso la forma dell’ibridazione, dando vita a delle figure molto lontane dalle convenzioni sociali ma anche dalle tradizioni iconografiche occidentali delle rappresentazioni del corpo femminile.

Leonora Carrington, 1965 Friday the 13th 

Mentre gli esponenti maschili del Surrealismo si concentrano soprattutto sull'analisi freudiana del sogno e sull'esplorazione dell'inconscio attraverso l'automatismo, le donne artiste si riappropriano degli antichi miti del matriarcato e “danno vita a un ricco repertorio iconografico, dove divinità ctonie, guerriere, signore dell’acqua e della fertilità, della luna e dell’universo notturno si affermano come nuove madri creatrici e potenti divinità femminili.” (G. Ingarao, da Archetipi del femminile)
In tal modo tali artiste invertono il senso della proiezione maschile e della morale borghese, potenziando il carattere generativo dell’universo femminile, riscattandolo dalla passività e conferendogli una dimensione attiva, cercata e trovata negli archetipi primordiali, come quello della Grande Madre. Quelle che abitano le tele di Remedios Varo, Leonora Carrington e Leonor Fini sono figure potenti, proprie di una cultura matriarcale e di una cosmogonia al femminile: divinità ctonie, regine degli astri, madri creatrici, sciamane, indovine e guerriere.

L. Carrington, Evening Conference, 1949

Così viene demolito il mito della donna musa, isterica o femme-enfant, che caratterizzava molte opere dei surrealisti, per recuperare ed amplificare una visione della donna come figura che vive in un mondo fluido di confine, in armonia con il mondo naturale e animale, detentrice gelosa di un sapere ancestrale e di chiaroveggenza, di poteri magici in grado di trasformare e fondere insieme la realtà organica e inorganica, guardiana del segreto che regola il ciclo della nascita e della morte.
Vivendo ai margini del circolo del Surrealismo, queste artiste riescono a sovvertire, in modo sottile, i tradizionali modelli di genere, sfidando le concezioni maschili e patriarcali sull’arte e sulla femminilità. In particolare, lavorando all’interno dell’estetica dell’ibrido, Carrington e Varo lo rielaborano, ognuna a suo modo, portandolo oltre la polarità limitante di maschile e femminile, umano e animale, organico e meccanico. In tutto ciò, gioca sicuramente un ruolo importante il Messico, con la sua terra e la sua cultura, che offre un paesaggio, naturale e immaginifico, che era stato rimosso dalla cultura europea. Il Messico è un paese pieno di meraviglie, permeato da quella sorta di corrente artistica e letteraria definita Realismo magico e da un misticismo influenzato dalle culture precolombiana e cattolica e immerso nell'immaginario indigeno, un luogo di fertile creatività e immaginazione. Una terra che, come sostiene Breton, era già surrealista prima del Surrealismo, ma non nel senso della trasgressione e della discontinuità rispetto al passato; lo era, invece, nella sua cultura e mentalità, nelle tradizioni e credenze popolari, nella ricchezza di mitologie e iconografie indigene e cristiane, nella sua apertura al mistero e agli aspetti irrazionali della mente e dell’esistenza.

L. Carrington, 1991 Labyrinth

A Città del Messico, dove si trasferisce nel 1943, Leonora Carrington produce la maggior parte delle sue opere, in cui il meraviglioso della cultura messicana si mescola con l’universo dei miti celtici della sua infanzia, tramandati dalla nonna e dalla madre, entrambe d’origine irlandese, con l’immaginario pittorico italiano (Paolo Uccello e la pittura del Quattrocento) e fiammingo (Hieronymus Bosch e Pieter Bruegel il Vecchio). La lettura del libro di Robert Graves, La Dea Bianca, che analizza miti, riti e simbologie dell’immaginario celtico, si traduce per la Carrington in ossessiva ricerca iconografica per dare forma alla Dea Epona, signora del popolo delle fate irlandesi Tuatha dé Danaan, che diventa una presenza costante nella sua pittura. Nei suoi quadri prendono vita rituali misteriosi, in cui donne eteree e metamorfiche trasformano la materia o generano nuove forme e nuova vita, creando mondi alternativi, popolati da esseri umani, animali, piante, pianeti e oggetti inanimati che convivono armoniosamente sotto la protezione della divinità femminile.

L. Carrington, Sidhe, The White People of the Tuatha dé Danaan

Nell’opera Samain queste creature danzano sotto la luna, mentre si compie una nuova nascita. In un antico rituale celtico, infatti, Samain è il grido ancestrale rivolto alla luna per celebrarne la sua femminile potenza. Carrington mescola le leggende alle sue visioni personali, dando vita ad atmosfere misteriche popolate da oggetti archetipici come l’uovo, il labirinto, il serpente, il tavolo alchemico, il cerchio. Proprio tali simboli compaiono in Mujeres Conciencia, opera del 1972 che la Carrington realizza come manifesto per il nascente movimento femminista messicano e che rappresenta una sorta di rituale della fertilità: due donne, una nera e una bianca, poste di fronte a un tavolo rotondo, la cui base è formata da una croce, si scambiano due mele. Sopra di esse fluttua un grande uovo, da cui sorge un albero. Al centro vi è un grande serpente che avvolge la coda a spirale.

Leonora Carrington, Samain, 1971

Nel suo celebre Autoportrait à l’auberge du cheval d’Aube (1936), la Carrington si ritrae seduta in uno spazio chiuso, ma in una messa in scena che sovverte il topos tradizionale della donna posta all’interno di spazi domestici. Da questo dipinto, infatti, promana una dirompente energia vitalistica, espressa soprattutto dagli animali presenti: una iena dalle prosperose mammelle e dagli occhi umani all’interno della stanza e un cavallo bianco che corre nello spazio aperto oltre la finestra aperta (doppio liberato del cavallo a dondolo appeso alla parete. Nella mitologia irlandese, il cavallo conosce le strade dell’Altro mondo ed è veggente e guida). Il carattere accogliente e intimo dello spazio domestico è messo in discussione dall’irruzione della fiera selvatica, la iena. L’intera composizione si sviluppa sull’opposizione di due centri focali, quello costituito dal binomio cavallo a dondolo-cavallo al galoppo, orientato verso il fondo del dipinto, e quello costituito dal binomio donna-iena, orientato invece nella direzione opposta, verso lo spettatore. La figura del ritratto appare come un essere androgino, in costume da fantino, mentre gli animali sono i personaggi che concorrono a una complessa rappresentazione di sé, come ad incarnare la dimensione spirituale e pulsionale dell’artista. E’ come se la donna si appropriasse della simbologia degli animali per liberare le sue potenzialità e desideri, tanto da prenderne le fattezze, come nel caso del dipinto Femme et Oiseau, in cui la donna assume affascinanti quanto inquietanti fattezze equine, e ci fissa con sguardo ipnotico.


Leonora Carrington, Femme et Oiseau, 1937
Attraverso l’autoritratto, la Carrington fa del suo corpo il terreno privilegiato di riflessione sull’identità e di esplorazione del mondo della soglia, quello che separa il reale dall’immaginario, la veglia dal sogno, il maschile dal femminile, la natura dalla cultura, ribaltando e riscrivendo uno stereotipo. E spesso è un corpo che si metamorfizza, diventa mutante e ibrido, un corpo di animale con fattezze femminee e viceversa. Un corpo, e conseguentemente un’identità, che non ha una forma stabile, ma si rivela fluido e mutevole. Proprio attraverso queste figure ibride, la Carrington, e le altre artiste surrealiste, si re-impossessano dell’immagine del proprio corpo, connotandolo di aspetti misteriosi e inquietanti, ma emancipandolo da quella passività che caratterizzava le rappresentazioni fornite dai rappresentanti maschili del movimento.
In Baby Giant la figura femminile ha un corpo gigantesco, circondato da mare, foreste e animali; è dunque una forza generativa di vita, in perfetta armonia con la natura, e custode dell’uovo alchemico, simbolo di creazione. Strega, maga, guaritrice che sia, Carrington mette in scena una donna che si è reimpossessata del suo ruolo creativo, il quale si compie attraverso la magia e l’alchimia. A causa dell’imporsi della società patriarcale, con il suo monoteismo, infatti, la donna ha dovuto rinunciare alle divinità femminili proprie delle civiltà matriarcali, le quali spesso andavano incontro a metamorfosi o trasformazioni assumendo fattezze animali. Le forme zoomorfe significano, dunque, il recupero, da parte della donna, della propria natura divina quale era adorata nelle civiltà primitive, in cui era istituito il culto della Grande Madre.

L. Carrington, Baby Giant, 1947 ca.

 

L. Carrington, 2002 The Q Symphony

La natura animale della donna, pertanto, in quanto manifestazione della sua divinità, è intimamente legata al suo status di creatrice, declinazione della Dea Madre come creatrice universale. Il mondo femminile deve, perciò, ritrovare il proprio contatto trascendente con le forze della natura. È questo che ispira l’arte, spesso definita ginocentrica, di Leonora Carrington.


Remedios Varo
Leonora Carrington e Remedios Varo, esuli a Città del Messico, divengono grandi amiche. Spesso dipingono insieme, si interessano d’occultismo, filosofia orientale, magia ed alchimia; passano i lunghi pomeriggi assolati in cucina, tra chiacchiere ed esperimenti culinari per creare pozioni magiche. Entrambe hanno vissuto il ruolo iconico di muse e amanti, accanto a due delle figure più importanti del Movimento Surrealista, conformandosi perfettamente ai più comuni clichés della donna che sono al cuore della poetica del movimento e, tuttavia, entrambe se ne liberano attraverso la loro arte, che si emancipa completamente da quella dei pittori surrealisti conosciuti in gioventù e negli anni di Parigi. Il rapporto con il surrealismo, per entrambe, riguarda più il contenuto che la forma e le loro opere acquistano un linguaggio proprio ed indipendente.

Remedios Varo, Bordando el Manto Terrestre, 1961. 

Nella loro personale rielaborazione del canone surrealista, tali artiste sovvertono luoghi comuni e clichés storicamente legati alla visione della donna. Anche la pittura di Remedios Varo, come quella della Carrington, si compone di immagini intessute di magia e di mondi fantastici al confine della notte, del sogno e del mito e riflette, anch’essa, sull’identità femminile, che trova espressione in una fluidità che mette in cortocircuito le tradizionali opposizioni, come quella di maschile/femminile, uomo/natura, umano/animale, singolare/molteplice. La gran parte dei suoi dipinti ritrae figure femminili e androgine con una fisionomica caratteristica – corpi allungati e flessuosi e volto a forma di cuore, molto spesso ibridati con elementi animali oppure con oggetti (è evidente il debito nei confronti dell’universo fantasmagorico del fiammingo Bosch e della pittura di El Greco). Frequente, ad esempio, è la trasformazione degli arti inferiori in ruote; la figura si presenta per metà corpo e per metà macchina, strumento per viaggiare, così che il viaggio diventa parte del corpo. Tali figure ibride possono essere considerate una sorta di autoritratti, proiezioni dell’artista che, nell’inscenamento di sé, si avvale di intermediari, di alter ego sui quali investe degli aspetti ambivalenti di se stessa e su cui costruisce una propria identità rinnovata (tale strategia proiettiva viene definita self-Othering, ovvero ‘farsi altro’).

R. Varo, Creación de las aves (1957)

In Creación de las aves (1957), Varo raffigura una donna-uccello, dalla testa di gufo, seduta ad un tavolo intenta a disegnare su un foglio di carta bianca. I colori della sua tavolozza provengono direttamente dal mondo esterno, distillati da un alambicco, mentre la figura, tramite una lente di ingrandimento, fa convogliare l’energia di un raggio stellare sul foglio, dal quale gli uccelli dipinti prendono vita e volano via. La donna è una creatrice, che usa le proprie doti magiche per fondere alchemicamente le forze della natura per dare la vita, trasformando la materia in esseri viventi. Il corpo ibrido, qui, non inchioda la donna al ruolo passivo cui la costringeva la manipolazione operata dalla pittura di Ernst, Masson, Dalì o Magritte, ma la riscatta conferendole doti attive e generative. La forma animale non è altro che la manifestazione dei saperi e dei poteri che la donna è chiamata a riscoprire dentro di sé.

R. Varo, As del Volante, 1962.

L’altro stereotipo che viene ribaltato è l’iconografia femminile legata alla pittura di interni domestici. A partire dalla nascita, questo genere aveva consacrato le donne nel loro ruolo di mogli e madri addette alla gestione della casa, chiuse dentro degli ambienti pervasi di simboli atti a rinsaldare quei valori di status. L’abitazione familiare, cioè, si era strutturata come luogo di reclusione e strumento di espulsione della donna dalla storia. Ogni elemento del femminile, che poteva apparire destabilizzante, era stato disattivato e reso inoffensivo attraverso la sua cristallizzazione dentro uno spazio e una funzione, e soprattutto all’interno di un immaginario, ben definiti, ad eterna garanzia della permanenza dell’ordine patriarcale, fondato sull’identificazione della donna con la casa e la vita domestica.

R. Varo, Visita inesperada (1958)

Nei dipinti di Remedios Varo, come di Leonora Carrington e di altre artiste surrealiste, viene ribaltata questa identificazione. Lo spazio domestico diventa allora un luogo destabilizzante, straniante, in quanto si fa coesistere la dimensione della familiarità (homely) con quella del perturbante (uncanny).
La casa, in particolar modo l’ambiente della cucina, si presenta non più come l’ambiente tranquillo e intimo, occupato dalla padrona di casa intenta nelle solite occupazioni domestiche o nella lettura, ma abitata da presenze magiche o oscure, il luogo dell’esperimento alchemico, della magia, di cui la donna è l’officiante principale. Se la casa è metafora del femminile, quello che le artiste surrealiste propongono è un ribaltamento radicale, un’immagine di sé inquietante, destabilizzante di un femminile che sfugge al controllo, animato da forze che l’uomo non è in grado di governare. È ciò che ci appare in tele come Visita inesperada (1958) di Varo o in Night Nursery Everything (1947) di Leonora Carrington.

L. Carrington, The Old Maids, 1947.

Le attività della cucina o del cucito, tipiche della tradizionale e rassicurante iconografia domestica, si trasformano in attività sovversive. Nei dipinti della Carrington, la cucina diventa un laboratorio alchemico, in cui si compiono magici rituali, come in “Grandma Moorheads Aromatic Kitchen” o in “The Old Maids”. La cucina in Carrington non è più il luogo che relega e incatena l’immagine della donna al suo ruolo, ma l’ambiente ove il femminile trova la massima possibilità di creatività generativa.

R. Varo, La tejedora de Verona (1956)

Un’attività tranquilla come il lavoro a maglia, emblema dell’immobilismo a cui la donna era costretta, nelle opere La Tejedora roja (1956) e La tejedora de Verona (1956) di Remedios Varo, si trasforma in anelito di libertà. Dalle mani che sferruzzano veloci di una donna seduta, collocata in un’ambientazione che ricorda il Quattrocento italiano, infatti, prende vita una figura femminile che spicca il volo verso il cielo. L’artista sovverte la concezione stereotipata della donna e dello spazio domestico a lei associato, trasformandolo da luogo di reclusione e sottomissione in luogo di creazione magica e di libera espressione di sé.

L. Carrington, The House Opposite (1947)

Nel dipinto The House Opposite (1947) della Carrington, l’artista realizza anch’essa un’ambientazione che ricorda molto quelle del primo Rinascimento, la quale comprende una serie di stanze comunicanti, abitate da figure femminili che vanno incontro a metamorfosi, assumendo figure zoomorfe o fitomorfe, oppure sono intente a preparare pozioni e filtri magici. Sabba e rituali esoterici non avvengono nei luoghi indicati dalla tradizione, lontani dall’abitato come i boschi e le foreste, ma all’interno dello spazio domestico, quello che a partire dall’iconografia rinascimentale e fiamminga era sempre stato l’ambiente dell’intimità e di esplicazione della virtù femminile e che ora si tramuta in qualcosa di perturbante ed alieno, che suscita una certa inquietudine e certamente minaccia lo schema che da secoli si era assestato su quell’ordine di valori. Da luogo dell’accudimento della prole e di servizio reso al marito, la casa diviene così teatro di un rituale diverso, arcano ed esoterico, che sovverte la quiete e la regola domestica e, da spazio di mortificazione e inquadramento in un destino di genere, si trasforma in spazio sovversivo e di liberazione.

  


R. Varo, Nacer de nuevo, 1960.
Di grande impatto visivo, inoltre, sono le figure che emergono dalle pareti, lacerandole, come in Les murées, Luz emergente, Nacer de nuevo e Armonía (Autorretrato Sugerente). Il femminile impregna le cose e rinasce a nuova vita attraverso una lacerazione, una sorta di cerimonia di iniziazione.
Ciò che viene rappresentata è la radicale crisi dello spazio così come si era strutturato nella tradizione, una crisi che va di pari passo con quella dell’identità femminile che è chiamata a ridefinirsi, a ritrovare una nuova forma di sé, attraverso la metamorfosi e l’ibridazione, cioè attraverso la dissoluzione e la ricreazione delle forme.
Giocando sul tema della donna come strega e maga, intimamente legata con la natura e con il mondo animale, Remedios Varo e Leonora Carrington costruiscono un universo femminile potente. La donna è chiamata a ritrovare consapevolezza di sé, riscoprire e riappropriarsi del sapere occulto e dei poteri che appartengono al suo genere. Nel dipinto di Varo La llamada (1961), un’esile figura femminile avanza nella notte ammantata di luce fiammante, reggendo in una mano un’ampollina di vetro mentre al collo ha un piccolo mortaio alchemico. Incede come in trance e nello stesso tempo sicura, come diretta verso una meta precisa, rispondendo a una chiamata che viene da lontano, mentre il mondo che la circonda appare pietrificato, come sotto incantesimo. La chioma rossa fluttua verso il cielo come una fiamma, fino a raggiungere un astro. E’ lei il punto di connessione tra microcosmo e macrocosmo e da quel legame indissolubile trae la sua forza e i suoi poteri.

R. Varo, La llamada, 1961.


La pittura di Varo ribalta la tradizionale opposizione tra donna-natura e uomo-cultura. La donna, infatti, è detentrice di un sapere e di conoscenze in grado di attingere i segreti dell’universo e, soprattutto, di trovare il filo invisibile che tiene unite insieme tutte le cose, come si vede nel dipinto Armonía. Qui, in un ambiente che ricorda uno studiolo medievale, una figura dai tratti androgini è assorta in un lavoro alchemico. Con l’aiuto di uno spirito che si protende dalla parete, dispone su di un pentagramma vari oggetti – solidi, piante, cristalli, carta, foglie, fiori. Questo strano compositore si sforza di dare un ordine attraverso la sintesi di tutti gli elementi, generando una melodia perfetta, metafora dell’armonia universale.


   

Nella pittura di Leonora Carrington e Remedios Varo, la donna – strega o alchimista, sacerdotessa o dea – viene posta al centro di una mitologia nuova, che contrappone archetipi femminili rivitalizzati agli stereotipi ed ai luoghi comuni sul femminile, attraverso un processo di appropriazione del principio primordiale generativo in contrasto col processo di reificazione a cui la donna era stata sottoposta fino ad allora. In questa nuova mitologia, è soprattutto il corpo a svolgere un ruolo di primo piano, come luogo di metamorfosi e di partecipazione della donna all’energia cosmica dell’universo. Il femminile, che assume un ruolo catalizzatore, vive in continua simbiosi metamorfica col mondo vegetale animale e minerale, sviluppando l’essenza principale dell’antica dea-madre, cioè la celebrazione della vita. E’ questo il motivo dominante: l’esaltazione dell’energia vitale costantemente in movimento e che si esprime come eterna trasformazione, come perenne metamorfosi che non conosce confini tra i regni della natura. La Grande Madre non è altro che il simbolo dell’unità di tutte le forme di vita esistenti, che si trasformano l’una nell’altra in un ciclo senza fine.

R. Varo, Aurora, 1962.


R. Varo, Energía Cósmica, 1956.



Nessun commento:

Posta un commento