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venerdì 17 maggio 2019

Egon Schiele. Il tormento del corpo osceno

Egon Schiele, 'Kneeling Girl, Resting on Both Elbows', 1917


“Nessuna opera d’arte erotica è oscena se è artisticamente rilevante; può renderla oscena solo l’osservatore che sia intimamente volgare”. (E. Schiele)

Il debutto del Novecento avviene in piena Belle Epoque, i cui fasti, tuttavia, celano un disagio strisciante e una crisi identitaria. Proprio nel 1900 viene pubblicata “L’interpretazione dei sogni” di Sigmund Freud, mentre l’anno successivo esce “Psicopatologia della vita quotidiana”, testi che mettono in crisi l'unità del soggetto cosciente, per rivelare invece un soggetto scisso. Nel cuore dell’immaginario della vecchia Europa irrompe l’oscurità dell’inconscio umano e delle pulsioni più intime; per gli artisti e i letterati si aprono i domini inesplorati dell’inconscio, del sogno e dell’irrazionale.
A Dresda, gli artisti della Brücke, il primo gruppo dell’Espressionsmo tedesco, cercano di comunicare il disagio esistenziale e sociale attraverso la deformazione della realtà esterna e in particolare della figura umana, che assume un aspetto lugubre e spettrale, dalle forme semplificate, spigolose e dure, rese con colori violenti e contrastanti, acidi e cupi, racchiuse in linee scure di contorno, che accentuano i contrasti cromatici e appiattiscono i volumi, collocate in uno spazio prospettico distorto.

Nella Vienna dei primi anni del Novecento opera il pittore Egon Schiele. Pur provenendo dalla corrente della Wiener Secession e dall’influenza della pittura klimtiana, ben presto se ne distanzia per acquisire uno stile personale, che ne farà l’esponente assoluto del primo espressionismo viennese assieme ad Oskar Kokoschka.
Segnata da un talento precoce, la sua breve vita (muore a 28 anni a causa della febbre spagnola) è circondata da una sorta di alone leggendario, costruito intorno a una sensibilità nevrotica. Nonostante la giovane età, l’artista ci lascia un impressionante corpus di dipinti e soprattutto di disegni e acquerelli, che inaugurano una nuova estetica del corpo umano. La sua ossessione per la morte e il sesso è la stessa che inquieta l’immaginario intellettuale e artistico di quell’epoca alla vigilia della catastrofe della grande guerra.
Schiele produce soprattutto ritratti e autoritratti, caratterizzati dalla messa a nudo e dall’isolamento del corpo in uno spazio vuoto (opposto all’horror vacui klimtiano), in una superficie monocroma e neutra, che non fornisce alcuna informazione spaziale e non offre alcun sostegno alla figura umana, resa con un linearismo di grande efficacia espressiva.





I corpi di Schiele sono dolorosi e grotteschi, qualche volta amputati degli arti o dei genitali; i muscoli sono contratti, come in preda a convulsioni nervose, la carne è esaltata e insieme mortificata, le mani deformate e ingigantite, con le dita nodose spesso irrigidite e separate. Manca del tutto la collocazione prospettica del corpo nello spazio. L’artista adopera, invece, angoli visuali e vedute alquanto insolite, che fanno apparire le figure distorte e sformate e che sembrano anticipare alcune inquadrature del cinema espressionista.
Le linee sincopate e spigolose dei ritratti e autoritratti creano una grande tensione formale, i contorni neri marcati contribuiscono ad appiattire i corpi ed isolarli dal contesto, mentre la stesura del colore rende spesso la carne un magma sofferente e vulnerabile, che solo la linea spessa del disegno riesce a contenere.
La decomposizione del corpo, soprattutto negli autoritratti, è accentuata dall’apparato gestuale, fondato su posizioni disarmoniche, gesti forzati e spigolosi, smorfie contorte, pose oscene e nello stesso tempo illuminate da una luce di ingenuità, come se l’artista cercasse nello specchio la propria immagine interiore, sforzandosi di farla venir fuori attraverso la deformazione delle parti del corpo e del viso, mettendo “a nudo la condizione di fragilità che esaspera colui che è prigioniero di una coscienza di sé troppo acuta” (E. Di Stefano).

Egon Schiele, Autoritratto nudo, 1910

I temi al centro dell’arte del pittore austriaco sono la sessualità, il senso di colpa e d'espiazione, l’inconscio, la malattia e soprattutto il sentimento della caducità dell’esistenza, condensato nella frase “tutto nella vita è morte”, che sembra riassumere la sua idea tragica dell’uomo e del mondo. I suoi autoritratti espongono il corpo a una nudità radicale, senza alcuna possibilità di difesa, ostaggio del bisogno dell’artista di osservarsi e di esprimere il proprio Io in modo quasi spietato, senza alcuna concessione al pudore e all’ipocrisia. Nel suo acquerello “Autoritratto nudo” del 1910, la figura, schiacciata sulla superficie e galleggiante in uno spazio indistinto, è come guardata attraverso un vetro deformante, che smagrisce e contorce le membra, facendole aderire a un’impalcatura ossea egualmente sformata. Il corpo è esangue, quasi ascetico, ma attraversato da una insostenibile tensione interiore che lo costringe a una gestualità disarticolata. Le braccia e le mani sono esageratamente allungate, i muscoli sembrano privati della pelle e gli occhi delle pupille, il vuoto isola il corpo esponendolo a un abbandono totale e straniato. Anche i capelli, irti e arruffati, esprimono uno stato di ansia interiore. Nei suoi disegni è come se Schiele presentasse un altro da sé, un alter ego, che decostruisce e ricostruisce e, tuttavia, chi osserva questa nudità, che è nudità dell’anima, riconosce la propria.








L’uomo e la donna di Schiele, soprattutto nella fase matura dell’artista che precede la morte, perdono la consistenza umana e sono trasformati in manichini, spesso costretti a pose disarticolate e sconnesse che non svelano ma esibiscono la carnalità, contratta in uno stato d’ansia che sconfina nell’isteria. In questo periodo la magrezza si fa ascetica, il corpo si contorce, la mimica del volto oscilla tra l’alienazione e lo spasmo. Sembra quasi che Schiele voglia dimostrare che ogni oscuro sedimento della psiche possa essere rappresentato per mezzo del corpo.
“Ogni ritratto è una cella d’isolamento” - scrive la Di Stefano – “rigide marionette malate di solipsismo, costrette da fili invisibili in una posa sconnessa e innaturale, inchiodate nell’inflessibilità di uno spazio vuoto senza ancore né sostegni”.






Nei suoi quadri, Schiele mostra un erotismo disinibito e contemporaneamente privo di gioia, dove protagoniste sono fanciulle dal volto infantile e dall’atteggiamento impudico, i cui corpi sono resi con tratto morbido e insieme aspro, che rivela una bellezza torbida e dolente. L’erotismo di Schiele è molto lontano da quello lirico e languido di Klimt; la ricerca solitaria di appagamento appare piuttosto come un supplizio autoinflitto che si consuma nella desolazione e nello squallore di un corpo a corpo con se stessi. In un’epoca segnata dal rigido codice morale vittoriano, che vive la contraddizione tra la fobia e l’ossessione per il sesso, le pulsioni del corpo, compresse e condannate, prorompono come spinte malate e tortuose, vissute con bisogno di cruda trasgressione e lacerante senso di colpa.
L’involucro doloroso di solitudine non è infranto neanche dall’abbraccio amoroso. Il quadro “Gli amanti” (1917), uno degli ultimi dell’artista, mostra un uomo e una donna che si stringono nudi in un abbraccio dolce e disperato. Ma i corpi non sono veramente uniti e ognuno nasconde il proprio volto allo sguardo dell’altro. E isolate nella propria incomunicabilità sono anche le figure dell’ultimo grande dipinto, lasciato incompiuto, “La famiglia” (1918), avvolte da un’oscurità che lascia presagire la sciagura imminente. Di lì a poco Edith, la moglie di Schiele, al sesto mese di gravidanza, morirà di febbre spagnola, subito seguita dal marito che l’aveva assistita .

Egon Schiele, “Gli amanti” (1917)

I corpi dei dipinti di Egon Schiele e degli altri pittori espressionisti hanno ormai rinnegato ogni bisogno di bellezza e di armonia, scalzato dalla necessità di uno scavo spietato nell’interiorità dell’animo umano. Questa spinta introspettiva cerca di estrarre la verità profonda della condizione esistenziale andando oltre la maschera del contegno sociale, di portare alla luce quel lato oscuro dell’Io fatto di disagio e di patologico declino, frutto di forze, sconosciute e incontrollabili, che si agitano al proprio interno e si manifestano deformando e deturpando la carne e la figura.

Egon Schiele, La famiglia, 1918.

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