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lunedì 18 febbraio 2019

“La morte è iconofila”. I ritratti commemorativi post mortem



L’antico mito della figlia del vasaio Butade, che tracciò su una parete il profilo dell’ombra del suo amato prima che questi partisse per la guerra, testimonia come il bisogno di conservare l’effigie dei nostri cari si perda lontano nei secoli.
Argomento di questo testo è il ritratto commemorativo post mortem, cioè eseguito a un defunto, una pratica molto comune nella seconda metà dell’Ottocento e nei primi anni del Novecento. D’altra parte, il ritratto ha un’origine chiaramente funeraria, derivante dalla pratica di ricavare il calco o di ritrarre le sembianze del morto prima della definitiva sepoltura, per conservarne, attraverso l’immagine, la memoria (si veda ad esempio i ritratti del Fayoum. Ne ho parlato qui:
https://finestresuartecinemaemusica.blogspot.com/2017/05/sguardi-lo-sguardo-eterno-i-ritratti.html.

Il ritratto commemorativo eseguito post mortem, in età moderna, compare tra il XVI e il XVII secolo. Si tratta, come si può immaginare, di dipinti di personalità illustri o di familiari del pittore. Con l’avvento della fotografia, la pratica si estende ai nuovi ceti sociali e gli studi fotografici si attrezzano per eseguire ritratti post mortem. Non è una pratica che interessa la sfera medica, criminale o antropologica, ma appartiene esclusivamente a quella commemorativa. Come la maschera funeraria prendeva l’impronta del viso del defunto, così la lastra fotosensibile registra l’impronta luminosa del soggetto fotografato. E come le antiche immagini funerarie venivano esposte nella case del patrizio, anche queste fotografie non restano chiuse in un cassetto, ma vengono inserite negli album, incorniciate ed esposte nelle case, inviate ai membri lontani della famiglia, fungendo da supporto visuale all’intera comunità del defunto, per tener viva la memoria e rinforzare l’unità familiare.


Questa usanza è stata particolarmente diffusa in epoca vittoriana, sia in Europa che in America ed aveva come soggetto ricorrente i bambini, a causa dell’elevata mortalità infantile. I defunti venivano messi in posa seduti su una poltrona o un divano, a volte tenuti su da appositi sostegni, con in mano qualche oggetto come un giocattolo e con gli occhi aperti, e non è raro che venissero ritratti in compagnia di altri familiari. La lunga esposizione, richiesta dalla pratica fotografica del tempo, creava il paradosso di rendere i morti, grazie alla loro immobilità, più nitidi dei vivi, mentre i vivi appaiono più sfocati e meno consistenti.
Per dissimulare la morte e restituire un’apparenza di vita, accadeva che il fotografo ricorresse perfino ad alcuni ritocchi in post produzione, come disegnare delle pupille sulle palpebre chiuse o passare del colore rosa sulle guance. Negli anni seguenti saranno più comuni i ritratti in cui il defunto ha gli occhi chiusi, come immerso in un sonno profondo, o è già composto nella bara (ancora oggi nei cimiteri è possibile vedere questo genere di foto: esse ritraggono generalmente bambini morti pochi giorni dopo il parto).


Il corpo del defunto è una presenza che rischia di essere destabilizzante, un’assenza che sgomenta con il suo silenzio. Per questo si ricorre ai riti funebri, che interrompono quel silenzio conferendo senso a ciò che non ce l’ha più per se stesso, a ciò che da soggetto si è ridotto a semplice oggetto inerte: il corpo senza vita. Attraverso una serie di gesti e parole, il rito funebre rende infatti possibile trasformare il cadavere, privo di senso e presenza, in un corpo che conserva l’impronta della persona scomparsa. L’angoscia per il non-senso della morte, per il silenzio e l'assenza viene scongiurata adempiendo a una serie di comportamenti, prescritti dai codici sociali in atto. E’ questa la funzione del rito: sostituire simbolicamente il corpo al cadavere, il soggetto all’oggetto. Se il cadavere è insignificante, allora deve essere rivestito di quel senso che l’interruzione delle funzioni vitali l’ha privato. Da questo punto di vista comprendiamo tutti quei rituali connessi alla fine della vita, dalla toilette alla tanatoprassi all’inumazione, tramite i quali l’assenza viene mascherata in presenza, nascondendo il reale stato biologico del corpo. Non si tratta di rifiutare la morte, ma di celarne il volto, opponendo una sorta di resistenza alla sua natura completamente distruttiva. Collocato all’interno di una struttura culturale, il cadavere cessa di essere ciò che – prendendo a prestito la definizione barthesiana di fotografia – potremmo chiamare un messaggio senza codice e acquista una sua fisionomia significante; cessa di essere pura denotazione e assume una connotazione.


Tra questi rituali, finalizzati a ridare significato all’evento potenzialmente catastrofico della morte, possiamo includere il ritratto post mortem. Si tratta, infatti, di un meccanismo simbolico che, nella messa in scena del corpo, reintegra l’assenza in un significato sociale: che il defunto in fotografia sia presentato come ancora vivo, come addormentato o accompagnato da una persona cara, il suo corpo diventa la sede di una proiezione di ciò che rappresenta per i vivi. La fotografia post mortem sarebbe dunque un rito funebre finalizzato a reintegrare il morto nel mondo della vita quotidiana. E da questo punto di vista si spiegano i ritocchi e la messa in scena che mette in atto questo tipo di fotografia: come quando, riferendoci a un nostro caro defunto, usiamo espressioni retoriche come “riposa”, “è volato in cielo”, “è partito”, così la pratica fotografica ricorre a delle strategie estetiche che le sono proprie al fine di permettere che il cadavere riacquisti significato. La messa in scena, allora, diventa una “messa in senso” della morte, scongiurando il caos simbolico che essa può riattivare e permettendo ai vivi di re-instaurare l’ordine necessario alla propria sopravvivenza.


Dal punto di vista teorico, l’accostamento della fotografia alla morte è sempre stato un tema molto praticato e suggestivo, e questo ben prima che Barthes ne facesse argomento di celebri brani del suo La camera chiara. I fotografi sono degli “agenti di morte”, scriveva il semiologo francese, e “per quanto viva ci si sforzi di immaginarla (e questa smania di “rendere vivo” non può essere che la negazione mitica di un’ansia di morte), la Foto è come un teatro primitivo, come un Quadro Vivente: la raffigurazione della faccia immobile e truccata sotto la quale noi vediamo i morti”.
Philippe Dubois paragona l’atto fotografico allo sguardo pietrificante di Medusa: la fotografia blocca il tempo, immobilizzando un frammento sottratto alla continuità del flusso vitale, e trasforma ciò che è vivo in statue inerti ed eterne. Non è infatti la messa in posa di un soggetto la prefigurazione dell'immobilità assoluta, cioè della morte? E per quanto convincente possa sembrare la presenza fotografica del soggetto, rimarrà sempre la traccia di un'assenza. Quello fotografico, pertanto, è un atto che racchiude anche il gesto di dare la morte (“fotografare qualcuno è un omicidio sublimato, un omicidio in sordina”, scrive Sontag).



Ma cosa succede se il soggetto fotografato è già morto?

Se ci pensiamo bene, c’è molta analogia tra il guardare una fotografia e il guardare un cadavere. Quando osserviamo una fotografia, infatti, non vediamo il rettangolo bidimensionale che abbiamo di fronte ma, attraverso di esso, il soggetto raffigurato. La nostra visione della fotografia di nostra madre o della nostra casa, cioè, va oltre la spoglia di carta (o digitale), fino a un’attestazione di realtà, che è la presentificazione di un’assenza (“è mia madre”, “è la mia casa”). Nello stesso modo, guardare un cadavere implica il vedere al di là del corpo: le spoglie di un nostro amico o di un nostro parente diventano trasparenti, facendoci vedere colui che non vi è più presente. Come la fotografia, anche un cadavere è una presenza che rinvia a un’assenza. Il medium fotografico è assimilabile a un corpo esanime: entrambi rinviano ad altro da sé, entrambi presentificano qualcosa che non c’è più. Nella fotografia il corpo diviene fantasma, cioè puro segno grafico e tuttavia, in essa, il fantasma prende corpo e si fa immagine.


E’ questo il paradosso: il presente della fotografia è strettamente legato all'assenza che evoca. Anzi, quella presenza del soggetto si fonda proprio sulla sua assenza materiale, sulla sua irriducibile mancanza. Così come paradossale è il corpo del cadavere: presente, reale, dotato di consistenza, eppure ridotto ormai a simulacro, involucro vuoto, segno che rimanda a una irrimediabile assenza.
Ecco che la fotografia che mostra un cadavere raddoppia i paradossi, li pone en abyme: la presenza/assenza del soggetto fotografato rimanda alla presenza/assenza del cadavere. La fotografia di un cadavere è il raddoppiamento del supporto rappresentativo: dal momento che guardare una fotografia è guardare il suo soggetto, guardare la fotografia di un cadavere vuol dire cercare l’individuo oltre le sue spoglie inerti, renderlo un’altra volta soggetto. E questo perché la fotografia è caratterizzata da un’altra ambivalenza: quella di essere non solo indice, cioè traccia di un corpo impressa dalla luce, ma anche icona, connotazione, immagine in grado di impregnarsi di significati simbolici, fantasma che diviene oggetto delle proiezioni, delle interpretazioni, degli immaginari di coloro che la guardano.



Questa pratica del ritratto post mortem consente alle famiglie di raccogliersi intorno a queste immagini per ricordare, per commemorare i loro morti. Appesi alle pareti, conservati negli album di famiglia o inviati ai parenti, i ritratti trovano una funzione e un significato nell'attività congiunta che riunisce i sopravvissuti, proteggendo il gruppo familiare e impedendo che il suo equilibrio risulti sconvolto dalla perdita di uno dei suoi membri. Ciò che questi ritratti mostrano in aggiunta al volto dei morti è l'esperienza della morte vissuta e interpretata dai vivi. La messa in scena dei morti diventa quindi un modo per i sopravvissuti di prendere una posizione di fronte alla morte stessa.
Come mette in evidenza Serge Tisseron, a questi ritratti non viene richiesto di riportare fedelmente le caratteristiche del defunto. Infatti, se l'atto di commemorazione si basa sul riconoscimento del soggetto, non è necessario che il soggetto sia più che "simile". La funzione della rappresentazione è soprattutto quella di evocare il soggetto scomparso, non di darne un ritratto fedele. D’altra parte, un volto che mostri le sofferenze patite della malattia o l'angoscia per la morte imminente priverebbe l'osservatore di una delle consolazioni maggiori che vengono chieste a queste rappresentazioni: la certezza di una bella morte, in beatitudine. L'efficacia simbolica del ritratto post mortem si situa dunque al confine tra la rassomiglianza con la persona scomparsa e il riconoscimento di codici stilistici che consentono di situare il defunto in un luogo comune e rassicurante.

Nobuyoshi Araki, (Sentimental Journey, 1990). Araky riprese sua moglie Ioko dal loro incontro avvenuto nel 1968 fino al 1990, anno della morte di lei.

La fotografia del defunto traccia i limiti di uno spazio sicuro dove avvicinarsi alla morte. Dove la morte si presenta abbastanza tollerabile e presentabile da essere accettata. E’ la vita che dimostra di essere più forte della morte, scolpendole il volto secondo i suoi desideri. In una società secolare come quella della seconda metà dell’Ottocento, le fotografie sono le sole icone domestiche, spiriti tutelari di carta che esercitano la funzione religiosa di creare il legame tra i vivi e i morti e che permettono di localizzare la propria identità nel tempo. In quel mondo, dominato dalla cultura positivista, in cui la promessa religiosa dell’immortalità veniva messa in discussione da molti, i ritratti fotografici promettevano una sopravvivenza simbolica, una sorta di laica eternità.
Trasfigurata all’interno della cornice fotografica, la presenza assente del cadavere diventa presenza presente, tangibile, rassicurante. Se la fotografia produce "fantasmi di carta", il fantasma fotografico, tuttavia, non è terrificante per chi sopravvive, ma gli dà l'opportunità di mantenere un "dialogo" con il defunto, per perseguire in altri modi il rapporto che esisteva prima della morte, di situarsi in una continuità spaziale e temporale.
La morte, ci dice Philippe Ariès, è iconofila, ama e cerca le immagini affinché fungano da supporto visivo del processo di elaborazione del lutto e per garantire una continuità temporale. Di fronte a questo evento, l'uomo cerca di colmare il vuoto, di riempire il silenzio attraverso un discorso, gestuale e rappresentativo, che viene costruito intorno al cadavere muto. Queste fotografie testimoniano il desiderio umano di rifiutare la morte come fine ultimo dell'esistenza, di scongiurare il nulla che minaccia l'individuo. Di allontanare da sé il pericolo più estremo, la morte più violenta, quella data dall’oblio.

Molte sono le fotografie post mortem, o presunte tali, rinvenibili nella rete. Tuttavia, spesso si tratta di immagini che solo erroneamente vengono ascritte a questa tipologia di ritratto e l'elemento perturbante è la difficoltà di distinguerle con sicurezza, di capire se la persona ritratta possa essere o meno stata in vita al momento dello scatto. Barthes aveva ragione solo a metà: la fotografia è un agente di morte, ma può essere anche un agente di vita. Può far sembrare morti i vivi e vivi i morti.

A questo link una scena del film The Others (2001), di Alejandro Amenábar, in cui la protagonista scopre una fotografia eseguita post mortem:





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