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domenica 9 dicembre 2018

"Rythm 0". Il corpo come opera d’arte



Se l’opera d’arte tradizionale era, ad ogni momento, interamente presente allo sguardo dello spettatore, l’arte performativa impone invece alla fruizione dell’opera un percorso diluito nel tempo e soprattutto aperto. Una relazione che l’artista predispone ma che deve essere progressivamente sviluppata da uno spettatore coinvolto attivamente. Il mondo della performance, degli happening, della body art e della video art esplora in tutte le direzioni la relazione dinamica tra l’opera e lo spettatore, proponendo forme diverse di interattività che in molti casi coinvolgono direttamente il corpo dell’artista.
Una performer ancora molto attiva è Marina Abramović, esponente di quella pratica definita Body Art, in quanto ha sempre fondato la propria arte sul proprio corpo e sul rapporto diretto tra questo e il pubblico, spesso mettendo entrambi a dura prova. Le azioni che L'Abramović presenta al proprio pubblico sono costruite sui limiti della resistenza fisica, psicologica ed emotiva; il corpo dell'artista viene sottoposto al dolore, allo sfinimento e al pericolo.


In Rhythm 0 (Galleria Morra, Napoli, 1974) ad esempio, la Abramović è in piedi, di fianco a un tavolo su cui sono posati degli oggetti, alcuni che possono procurare piacere, altri che possono ferire e addirittura uccidere. Tra questi vi è una rosa, del profumo, del miele, una piuma, forbici, coltelli e rasoi, un bisturi, dei chiodi, una barra di metallo e una pistola con un solo proiettile. Una scritta riporta questo messaggio:

– Ci sono 72 elementi sul tavolo e si possono usare liberamente su di me.
– Premessa: io sono un oggetto. Durante questo periodo, mi prendo la piena responsabilità di ciò che accade.
– Durata: 6 ore (20:00-02:00)


Capovolgendo i ruoli, l’artista si propone allo spettatore come materia prima della creazione. Se all'inizio il pubblico mostra perplessità e moderazione, a poco a poco le sue inibizioni cadono e dà sfogo agli istinti più violenti. Con le lamette le lacerano gli abiti, le incidono la pelle e le succhiano il sangue dalla ferita, poi, in un’escalation di violenza, la donna viene dipinta, decorata, bagnata con l’acqua, palpata nelle parti intime, legata, incatenata, infilzata con le spine della rosa; le viene messa in mano la pistola carica e puntata contro il suo collo con il dito sul grilletto. C’è anche chi prova a fare un cordone di protezione intorno a quel corpo abbandonato a se stesso, che non opponeva la minima resistenza.

“Inizialmente erano pacifici e timidi, ma rapidamente si è iniziata un’escalation di violenza. Quello che ho imparato è che se lasci la decisione al pubblico, possono ucciderti. Mi sono sentita davvero violentata, mi hanno tagliato i vestiti, mi hanno piantato spine di rosa nello stomaco, uno mi ha messo la pistola alla testa, un altro l’ha portata via. Hanno creato un’atmosfera di aggressività. Dopo 6 ore mi sono alzata e ho iniziato a camminare tra il pubblico. La gente se ne andava, non riuscivano a guardarmi in faccia. Scappavano al confronto”.


Le dimensioni di una performance sono il corpo e l’hic et nunc spazio-temporale, dove il tempo è inteso come durata delimitata, ben diverso dal tempo dell’oggetto d’arte, caratterizzato da stabilità e permanenza. La performance, inoltre, si espande e decontestualizza lo spazio entro cui si svolge. Con questa performance, Martina Abramovič annulla ogni distanza tra sé e la propria creazione, che diventano tutt’uno, e abbatte qualunque barriera che separa l’opera dal pubblico. L’opera d’arte, tuttavia, si costituisce sì come evento, ma alla fine riesce ad oggettivarsi, a incarnare l’azione in una sorta di “manufatto”: si tratta del corpo dell’artista, plasmato e trasformato dall’azione collettiva.



Così le parole dell’artista spiegano il senso della performance:

“questo lavoro ha svelato qualcosa di terribile riguardo l’umanità. Ha dimostrato che in circostanze favorevoli, le persone non esitano a farti del male. Ha mostrato quanto sia facile disumanizzare una persona che non si difende e quanto sia alta la probabilità che anche le persone più normali possano diventare tremendamente violente”.

Queste parole mi hanno fatto venire in mente (e ciò non stupisca, perché spesso l’arte performativa di quegli anni sconfinava in problematiche di tipo sociologico e antropologico) sia lo Stanford Prison Experiment di Philip Zimbardo che l’esperimento di Stanley Milgram, uno studio quest’ultimo di psicologia sociale, avvenuto negli Stati Uniti nel 1961 (a questo link, i dettagli: https://it.wikipedia.org/wiki/Esperimento_di_Milgram).


Seppure i contesti sono radicalmente diversi, si può dire che entrambe le operazioni hanno un carattere sperimentale che mette alla prova i comportamenti dei soggetti coinvolti. Ciò che alla fine li accomuna sono anche certe condizioni di base e i risultati cui pervengono. In entrambi i casi i soggetti “esaminati” sono liberati dalla responsabilità individuale, per “obbedire” al dettato espresso da un’autorità, nel caso dell’esperimento Milgram, e per conformarsi a delle istruzioni e a un comportamento collettivo, nel caso della performance (sono giustificato in quello che faccio perché lo fanno anche gli altri). Nello studio di Milgram, il soggetto che agisce si vede come “agente” della volontà di qualcun altro, e quindi non percepisce come propria la responsabilità delle sue azioni. Nel caso di “Rythm 0”, gli elementi che instaurano il contesto deresponsabilizzante sono la scritta con le istruzioni, in cui la Abramovic si prende la piena responsabilità di ciò che sarebbe accaduto, e la sua passività; ma non bastano. Infatti durante le prime ore non succede nulla. L’escalation viene innescata quando il primo del pubblico comincia ad osare e ciò non dà luogo ad alcuna reazione, né da parte della “vittima”, né da parte degli altri presenti. In questo caso, è il contesto collettivo a funzionare come agente di deresponsabilizzazione, anche se mai totalizzante, perché c’era comunque sempre qualcuno che conservava un senso di responsabilità e impediva che l’azione degenerasse.


Si confermava in ogni caso la tesi espressa dalla Arendt ne “La banalità del male”: è molto facile disumanizzare una persona che non lotta e non si difende; e basta un contesto facilitante per far crollare miseramente il nostro senso morale. Infatti, nel momento in cui, alla fine della performance, l’artista recupera la propria volontà e comincia a camminare per la sala, nessuno ha più il coraggio di guardarla: l’oggetto è ridiventato persona.
Questa performance mirava chiaramente alla provocazione e alla destabilizzazione del pubblico; a questi era di fatto negato ogni atteggiamento di estetico distacco, ma anzi gli si chiedeva implicitamente di farsi carico di un’esperienza etica oltre che estetica, interpellando la libertà e la responsabilità dei partecipanti. Tuttavia, se il fine era soprattutto quello, da parte dell’artista, di mettere alla prova la propria resistenza e di saggiare l’esperienza del limite a partire dal corpo, se nulla fosse successo la performance sarebbe stata un fallimento. Quella esperienza artistica, in un certo senso, aveva in se stessa la propria vocazione al rito sacrificale. La performance ha acquisito significato perché ha avuto quell’evoluzione violenta; in un altro contesto, in cui non si fosse innescata alcuna escalation collettiva, probabilmente si sarebbe ascritto l’esito al potere di autocontrollo dell’ipocrisia borghese.
Concludendo, mi sento di ipotizzare che, dopo tutto, quell’evoluzione era l’unica in grado di dare senso a un evento artistico che aveva quelle premesse e quelle finalità.

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