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sabato 8 dicembre 2018
L'opera d'arte come evento
Le avanguardie del primo Novecento portano a compimento la rottura con la tradizione e ridefiniscono radicalmente il concetto di opera d’arte, di artista e di spettatore. I movimenti che si affermano in Europa a partire dai primi anni del Ventesimo secolo pongono le basi teoriche e definiscono alcuni tratti propri delle forme d’arte che si svilupperanno negli anni successivi: la liberazione dalle costrizioni della rappresentazione e della narrazione, la messa in discussione del confine tra arte e vita, il gusto per la provocazione e la trasgressione, l’ibridazione dei generi, il rifiuto della mercificazione dell’arte, il coinvolgimento attivo dello spettatore sia nella fruizione che nella realizzazione stessa dell’opera.
Tra i primi a sostenere la necessità di una viva partecipazione del pubblico all’azione vi sono i futuristi e i dadaisti, che ricorrono ad azioni performative, come campo di attuazione delle nuove idee sull’arte.
I futuristi sono portatori di una nuova idea di cultura totale, innovativa e dinamica, intenzionati a superare il confine che separa l’arte dalla vita, l’estetica dal mondo sensibile. Il movimento farà ricorso alla pratica teatrale per mettere in azione la definitiva rottura delle barriere, sia di quelle esistenti tra le singole arti che di quelle presenti tra artista e pubblico. Nelle cosiddette “serate futuriste” si alternano vere e proprie performance che consistono nell’unione di arte, provocazione e propaganda, in cui il pubblico è chiamato in causa, soprattutto tramite provocazioni. Al contrario del teatro di prosa, fondato sulla rigida separazione tra scena e platea, i futuristi affermano la necessità di creare una scena attiva nella quale lo spettatore sia coinvolto, eliminando il concetto di quarta parete.
Anche il movimento Dada è intrinsecamente legato all’idea di un nuovo teatro, che ha come scopo principale quello di instaurare nuovi rapporti tra la scena e la sala, di permettere un flusso costante di pensieri tra l’attore e lo spettatore, per far sì che quest’ultimo, da fruitore passivo, si trasformi in soggetto attivo. Il teatro dadaista opera una rottura della logica e della sintassi dei dialoghi oltre che del rapporto attore-scena e parola-gesto, per infrangere i meccanismi automatici di risposta nel pubblico e suscitare un diverso tipo di reazione, di tipo soprattutto fisico. Questo procedimento sarà poi sviluppato dal teatro espressionista tedesco del primo dopoguerra e più tardi da Artaud nel teatro della crudeltà.
È certamente l’esperienza teatrale, aperta dalla rivoluzione brechtiana, ad aprire la strada verso la ricerca artistica sullo spettatore, che si consoliderà soprattutto negli anni Sessanta con le sperimentazioni delle neo-avanguardie. Anche dal punto di vista teorico, in quella fase storica fioriscono importanti studi sul tema. Del 1962 è il testo “Opera Aperta” di Umberto Eco, in cui l’autore si dedica con particolare attenzione ad approfondire il ruolo del fruitore, insistendo sulla dialettica tra forma e apertura. Secondo Eco diventa necessario definire «i limiti entro i quali un’opera possa realizzare la massima ambiguità e dipendere dall’intervento attivo del consumatore, senza peraltro cessare di essere ‘opera’». L’autore cita in particolar modo l’esempio dell’arte Informale: l’opera viene definita aperta in quanto la relazione strutturale dei segni che la compongono non è determinata, in partenza, in modo univoco, ma stimola piuttosto «atti di libertà cosciente», innescando nel fruitore degli stimoli che aprono diverse possibilità interpretative e delle letture variabili. In tal modo l’opera non è una forma chiusa e univoca, ma si costituisce come possibilità di una metamorfosi continua, come un campo di possibilità.
Del 1967 è invece il saggio La Società dello Spettacolo di Guy Debord, il quale critica la pratica artistica che ruota attorno alla costruzione di oggetti che vengono consumati da uno spettatore passivo. Secondo l’autore, lo spettacolo determina una condizione di passività e di sottomissione che rende impossibile l’affermazione del proprio io. Proponendo il concetto di “situazione”, Debord propugna l’ideale di uno spettatore che ritorni ad essere soggetto di una creatività espressa e incessantemente reinventata, con un ritorno all’idea di comunità e di autorialità collettiva.
Nell’intenso fiorire di nuove esperienze artistiche degli anni Sessanta, un elemento comune è generalmente il coinvolgimento del corpo dell’autore, dello spettatore o di entrambe le parti. A questo proposito usiamo il termine generico di pratiche performative, anche se la storiografia ha distinto in modo piuttosto netto le manifestazioni di questo genere: Happening, Fluxus, Performance Art, Body art, Arte relazionale.
Il termine Performance Art, nella sua accezione storica, si riferisce a una forma d’arte che si è sviluppata negli Stati Uniti dove ha assunto, tra gli anni cinquanta e sessanta, un carattere definito attraverso il lavoro di artisti come Allan Kaprow, una delle figure più eversive e complesse dell’arte del Novecento, il quale nel 1959 conia il termine Happening.
Al di là delle singole accezioni storiche, consideriamo gli elementi in comune che hanno queste forme di pratica artistica performativa e partecipativa: si tratta innanzitutto di un tipo di pratica che porta l’opera d’arte ad allontanarsi dal modello di oggetto compiuto e univoco, prodotto esclusivo dell’artista. Quello che interessa non è più il risultato finito della creazione artistica, ma il suo svolgersi, la sua dimensione processuale e interattiva; l’opera trova la sua essenza non più nell’essere, ma nell’accadere e nel divenire, trasformandosi da oggetto in evento. Seguendo quel percorso iniziato dalle serate futuriste e dadaiste, la pratica performativa è arte che si smaterializza e si fa azione, abbandonando definitivamente la componente oggettuale. Essa si caratterizza come uso espressivo del corpo e come pratica comportamentale, nella quale si cerca di coinvolgere lo spettatore, invitandolo ad oltrepassare il confine che prima lo teneva a distanza dall’oggetto d’arte. Lo spettatore di fatto perde il ruolo definito dal termine “spettatore”, in quanto non ha nulla da contemplare. I suoi gesti e le sue azioni influenzano in modo irreversibile l’evento e davanti a lui ha solo due possibilità: agire o astenersi; in ogni caso è chiamato a essere attivo, e anche quando non è direttamente coinvolto nell’azione, è comunque presente all’hic et nunc dell’evento nel suo accadere.
Questa pratica, similmente all’atto teatrale, si presenta come un’azione effimera, intangibile, che rigetta l’oggettivazione e la mercificazione dell’oggetto d’arte per trasformare l’arte in spazio, tempo e azione, e che presuppone, come elemento determinante nella creazione del suo significato, la relazione con il pubblico, il che espone l’espressione artistica all’immediatezza e all’imprevedibilità, perché le reazioni degli spettatori cambiano di volta in volta. Il risultato finale dell’opera non può essere noto in partenza, perché si tratta appunto di una serie di eventi che si svolgono in un tempo e in uno spazio reale, attivati da un performer in relazione ad un pubblico sempre nuovo.
Non è raro poi che le performance vengano eseguite fuori dai luoghi ufficialmente deputati all’arte, come mostre o gallerie, e siano invece realizzate in spazi insoliti, come vecchi magazzini, oppure in luoghi pubblici come piazze, strade, giardini e nel corso di situazioni ordinarie. In questi casi l’evento performativo si svolge come messa in discussione delle routine quotidiane e come provocatoria violazione di alcune convenzioni sociali, creando spesso un senso di disagio nel pubblico coinvolto.
Il termine “environment” si diffonde intorno al 1960 e indica un’operazione artistica volta a creare uno spazio nel quale lo spettatore è chiamato a intervenire direttamente sui materiali. Uno molto famoso rimane “Yard”, realizzato da Kaprow, uno dei fondatori di Fluxus, a New York nel 1961, alla Martha Jackson Gallery. Kaprow riempì il cortile retrostante la galleria con centinaia di pneumatici usati. Lo spazio così trasformato ricordava una discarica più che una galleria d’arte, spiazzando i visitatori che erano invitati a camminare, sedersi, sdraiarsi sulle cataste di copertoni, spostarli a piacimento per poi rimetterli a posto. "Yard" costituì, in un certo senso, un punto di non ritorno per la sua azione dissacrante nei confronti del tradizionale spazio espositivo e la sua messa in discussione della separazione tra arte e vita.
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