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domenica 7 maggio 2017

Alda Merini. Un'anima indocile


“Ho conosciuto Gerico,
ho avuto anch’io la mia Palestina,
le mura del manicomio
erano le mura di Gerico
e una pozza di acqua infettata
ci ha battezzati tutti…”

Questi versi fanno parte della raccolta di poesie “Terra Santa” della poetessa milanese Alda Merini, che visse molti anni in manicomio, subendo 46 elettroshock.
La poetessa, afflitta da un grave disturbo bipolare, già a 16 anni era stata internata per un mese nella clinica Villa Turro di Milano. Nel 1962, date le leggi allora vigenti, il marito Ettore Carniti, con il quale si era sposata all’età di ventidue anni e con il quale aveva avuto due figlie, la fece internare, a sua insaputa, nel manicomio “Paolo Pini” di Milano, dove trascorse dieci lunghi anni. La realtà degli istituti psichiatrici in quegli anni era terribile e desolante e l'impatto di Alda con quel mondo fu devastante: “Quando mi ci trovai nel mezzo credo che impazzii sul momento stesso in quanto mi resi conto di essere entrata in un labirinto dal quale avrei fatto fatica ad uscire.” Dappertutto nelle corsie e nelle camere dell'ospedale sovrastava un odore acre di malattia, urina e altri fluidi organici, poiché i pazienti defecavano e urinavano a terra. Altri ancora erano legati a letti di contenzione e non facevano altro che urlare fino a perdere conoscenza. Alda Merini denominerà questa visione infernale col nome di “Girone dei Dannati”.

Come accade negli universi concentrazionari, l'identità e la dignità dell'individuo vi erano quotidianamente calpestate e cancellate. Eppure Alda riuscì a trarre dal dolore della propria anima ferita e dalla poesia la forza per conservare umanità, dignità e sentimenti di amore. E farà della sua vita da reclusa uno dei temi più forti e struggenti dei suoi componimenti. Nel 1979, dopo qualche anno dall'uscita dal Paolo Pini, Alda Merini ritorna a scrivere, dando il via ai suoi testi più intensi sulla drammatica e sconvolgente esperienza dell'ospedale psichiatrico, testi contenuti in quello che la scrittrice Maria Corti definisce "il suo capolavoro": La Terra Santa. Parlando di quel suo internamento, Alda ci fa conoscere le condizioni dei malati mentali prima della legge Basaglia, le umiliazioni, le violenze, i maltrattamenti loro inferti da quel sistema che aveva come primo obiettivo la reclusione dei pazienti piuttosto che la loro guarigione, dove i malati, privi di cure, erano abbandonati in un limbo fatto di psicofarmaci, sedativi ed elettroshock, che costituivano allora la profilassi standard per ogni patologia mentale, annullando le coscienze e riducendo la persona in uno stato semi vegetativo.
Alda Merini aveva cominciato a scrivere e pubblicare poesie fin da quando era giovanissima, facendosi notare dai più grandi dell'epoca, da Giacinto Spagnoletti a Giorgio Manganelli, da Montale a Quasimodo. Ha continuato a scrivere per tutta la vita, tranne nei periodi di internamento e oggi il suo nome è accostato ai maggiori poeti italiani del Novecento.
Ma ora vi lascio alle sue parole:

“Ho cominciato
a piangere per gioco,
e poi ho creduto
che fosse il mio destino.”

“Nelle malattie mentali la parte primitiva del nostro essere, la parte strisciante, preistorica, viene a galla e così ci troviamo a essere rettili, mammiferi, pesci, ma non più esseri umani. Così la mia bellezza si era inghirlandata di follia, ed ora ero Ofelia, perennemente innamorata del vuoto e del silenzio, Ofelia bella che amava e rifiutava Amleto”.

“Sento a volte delle mani che rovistano nella carne, che cercano l’anima. I grandi poeti parlano come venissero dall’aldilà e per parlare da uno stato di morte bisogna prima morire. Da un’esperienza di morte come quella del manicomio bisogna uscire per parlarne poi da vivi”.

”Chi decide cosa è normale?
La normalità è un’invenzione di chi è privo di fantasia.”
“Ho la sensazione di durare troppo, di non riuscire a spegnermi: come tutti i vecchi le mie radici stentano a mollare la terra. Ma del resto dico spesso a tutti che quella croce senza giustizia che è stato il mio manicomio non ha fatto che rivelarmi la grande potenza della vita.”
“Io il male l’ho accettato ed è diventato un vestito incandescente. È diventato poesia. È diventato fuoco d’amore per gli altri”.

Alda Merini si è spenta il 1° novembre 2009, lasciandoci un patrimonio letterario immenso, scaturito da un'anima che ha riconosciuto la follia come sua compagna di vita, trasformandola in carne e in respiro.
Della fotografia ha scritto: “Niente è più deleterio dell’immagine e niente è più resistente. Il fotografo consegnerà ai posteri una sua interiorizzazione, una realtà che spesso sfugge alla persona stessa. È questo il mistero della fotografia”. (“Colpe d’immagini”, 2007). Giuliano Grittini è stato per vent’anni fotografo ufficiale della Merini oltre che amico personale. La poetessa diceva di Grittini: “Il mio vecchio che mi ha celebrato come Venere e mi ha messo su tutti i giornali”.
A questo link, il video di Alda Merini con l'interpretazione di Milva de "L'Albatros"


Un'altra storia in cui la poesia permette di salvarsi dal manicomio è quella della poetessa e scrittrice neozelandese Janet Frame, raccontata in un film della regista premio Oscar Jane Campion, dal titolo “Un angelo alla mia tavola” (1990).
Riuscita pur tra stenti e lutti a divenire una maestra, a causa di una crisi di panico viene internata in un manicomio con un'affrettata diagnosi di schizofrenia e sottoposta a circa duecento elettroshock in otto anni.


Si salva dalla lobotomia grazie alla vittoria di un premio letterario e sarà proprio la scrittura a permetterle di riacquistare la dignità e di raggiungere un equilibrio interiore.
Qui si parla di Janet Frame con scene del film:


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