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lunedì 10 aprile 2017

Follia - Il "grande internamento"

A partire dalla seconda metà del Seicento, la follia fu, secondo Foucault, oggetto di una pervicace opera di occultamento, di netta separazione dalla società. Non le venne più riconosciuto alcun fascino o alcuna dignità: la follia è solo follia, simile alla lebbra, a fronte di una ragione che la irride e la ripudia. Nel momento in cui Cartesio fondava l'intera conoscenza sulla verità del cogito ergo sum, allora l'io che pensa non poteva più essere un folle, a meno di privare l'intero sapere delle sue fondamenta. Nell'ottica cartesiana, la follia viene assolutamente esclusa dal pensiero: il pensiero è esercizio di sovranità da parte della ragione e non può essere insensato. Cominciava un'epoca che concepiva la follia come estranea alla cultura ufficiale – dominata dal razionalismo – e che quindi la allontanava dalla società, sia fisicamente che teoricamente.

William Hogarth, Il manicomio di Bedlam, 1733, John Soane's Museum, Londra.

Iniziò la segregazione del malato mentale, il suo internamento in luoghi separati, simili ai lebbrosari ormai scomparsi; ben presto i privilegi culturali ed il potere di suggestione del folle lasceranno spazio alla sua visione come minaccia, o semplicemente come individuo superfluo, da allontanare e rimuovere dalla coscienza sociale.
La follia non era ancora oggetto di studio e cura; veniva solo allontanata, ridotta al silenzio e confusa con tutti i comportamenti considerati asociali, non ragionevoli, manifestazione di una natura inumana contrapposta all’ordine determinato dalla ragione. Imprigionati indistintamente assieme erano i criminali, i miserabili, i malati di malattie veneree, gli omosessuali.

Emblema delle nuove strutture dedicate all’isolamento è l’Hôpital Général de Paris, fondato nel 1656. Si tratta appunto di uno dei primi ospedali destinati ad accogliere e «correggere» i folli e gli alienati, ma è in realtà l’emanazione di un’autorità assoluta, che il re affida agli apparati giudiziari e di polizia. Fin dall’inizio è evidente che non si tratta di un’istituzione medica, ma di una sorta di entità amministrativa dotata di poteri autonomi, che ha diritto di giudicare senza appello e di applicare le sue leggi all’interno dei propri confini, più simile a un carcere che a un istituto sanitario.

The Rake in Bedlam, William Hogarth, 1733

La condizione dei malati spesso è terribile, come descrive Esquirol dopo aver ispezionato alcune carceri francesi:
«Io li ho visti nudi, coperti di stracci, senz’altro che un po’ di paglia per proteggersi dalla fredda umidità del selciato sul quale sono distesi. Li ho visti grossolanamente nutriti, privati d’aria per respirare, d’acqua per spegnere la loro sete, e delle cose più necessarie alla vita. Li ho visti in balia di veri carcerieri, abbandonati alla loro brutale sorveglianza. Li ho visti in stambugi stretti, sporchi, infetti, senz’aria, senza luce, rinchiusi in antri dove si temerebbe di rinchiudere le bestie feroci…».

Francisco Goya, Casa de locos, 1812-19, Real Academia de Bellas Artes de San Fernando, Madrid.

E’ qui che nasce davvero l’esperienza dell’internamento, destinata ad essere emblema di tutto il modo di pensare e di reagire alla follia durante l’Età Classica. Ben presto le case di correzione cominceranno a diffondersi dappertutto, in Francia e in Europa, e a diventare strumento del potere, che non esiterà a ricorrere ad arbitrarie misure d’internamento: nell’arco di breve tempo un parigino su cento vi si troverà rinchiuso.
Per quasi due secoli la follia sarà quasi esclusa anche dalle immagini. La follia sembra rimossa, irrappresentabile nell’ambito di una concezione dell’immagine dominata dal modello classicista, che persegue la rappresentazione del bello, di ciò che è razionale, ordinato, dotato di equilibrio e proporzione.
La follia tornerà come tema prediletto nella cultura romantica. Agli occhi degli artisti essa costituirà una metafora del genio, dell’inquietante, della passione stessa, di cui rappresenta l’eccesso.


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