Il film si apre con un corteo di pensionati che protestano per le pensioni troppo basse, fino all’irruzione delle camionette della polizia che disperde i manifestanti, ed è a questo punto che conosciamo Umberto D. e cominciamo a seguire i suoi passi e le sue vicissitudini.
Umberto D. è film simbolo del neorealismo e uno dei più belli di quelli nati dal connubio creativo De Sica – Zavattini. E’ interpretato da Carlo Battisti, attore non professionista, come esige la poetica neorealista (è infatti un professore di glottologia all’Università di Firenze). Fotogramma dopo fotogramma veniamo introdotti nella storia dell’anziano protagonista; veniamo a sapere che vive in ristrettezze economiche; mangia alla mensa dei poveri e vende l’orologio e alcuni libri per racimolare denaro, perché la fredda e inflessibile padrona di casa vuole sfrattarlo per morosità. La sua dimora è una stanza in affitto, dove vive
in compagnia del suo cagnolino Flaik (scritto Flike nella edizione inglese) e ogni tanto scambia due parole con la servetta Maria, l’unica persona capace di un po’ di calore umano, personaggio anche lei appartenente alla schiera dei vinti, abbandonata dai suoi due fidanzati quando rivelerà di essere incinta.
Per raccontare questa solitudine De Sica non adopera molte parole; lascia che sia la cinepresa a farlo, chiamando a essere protagonisti di questo ruolo narrativo l’intenso commento musicale e le strade di Roma, i suoi spaccati di vita reale e i suoi rumori di fondo. De Sica e Zavattini non ci raccontano molto della vita passata del loro antieroe (sappiamo soltanto che è stato per trent’anni funzionario al Ministero dei lavori pubblici); il loro interesse si limita alla sfera temporale del presente, da indagare con crudo realismo e senza indulgere in sentimentalismi e ricordi lontani.
Tra varie vicissitudini (Umberto D. si fa anche ricoverare in ospedale dove cerca di protrarre la permanenza per poter mangiare e risparmiare sulla pigione), ci rendiamo conto di quanto l’anziano uomo sia legato al suo unico affetto, il cagnolino Flaik, un anonimo bastardino che riempie il vuoto delle sue giornate. Quando il cane si smarrisce perché la padrona di casa ha lasciato volutamente la porta di casa aperta, Umberto D. vaga disperato per le strade di Roma in un crescendo drammatico, raggiunge il canile e infine ritrova il suo Flaik che abbraccia tra le lacrime (scena della foto).
Umberto prova a farsi aiutare da vecchi colleghi, ma nessuno lo ascolta, tenta di chiedere la carità, ma orgoglio e dignità non glielo consentono. Mentre è in piedi, vicino al colonnato del Pantheon, con il braccio proteso e la mano aperta, quando un passante cercherà in tasca una monetina, fingerà di sondare il tempo atmosferico.
Umberto medita il suicidio: “Sono stanco, stanco di tutto”. Carezza il suo cane, prende la valigia e decide di andarsene. Inizia la parte più drammatica del film: è mattino presto, un tram si ferma, il protagonista sale e con sguardo triste osserva una città semideserta che si sta risvegliando. Umberto vorrebbe affidare il cane a qualcuno, ma non ci riesce. Allora decide di morire insieme al suo piccolo amico. De Sica immortala la sua espressione intensa in un drammatico primissimo piano (foto nei commenti) mentre vicino ai binari, dopo aver superato la sbarra del passaggio a livello, attende di farsi travolgere dal treno in corsa. Questo finale è uno dei più belli e commoventi della cinematografia italiana. Il cane salva Umberto D. perché scappa via terrorizzato e il padrone lo rincorre desistendo dal disperato proposito. L’uomo, giocando con il suo cane, sembra ritrovare una nuova ragione di vita. Le ultime immagini in campo lungo sono anche un segnale di speranza: il pensionato si allontana correndo insieme al suo piccolo amico mentre un gruppo di bambini avanza vociando verso l’obiettivo.
Umberto D. è una tragedia della vecchiaia, della solitudine e dell’incomunicabilità nella metropoli. Non c’è empatia, non c’è solidarietà nelle relazioni umane; solo disgregazione sociale, indifferenza ed egoismo. Questo sguardo pessimista e poco edificante della società italiana del dopoguerra non verrà compreso dal pubblico e farà innervosire più di qualcuno, convinto che “i panni sporchi si lavano in famiglia”, che accuserà De Sica di mostrare soltanto il lato peggiore della realtà. Un trentenne Giulio Andreotti, all’epoca sottosegretario per lo spettacolo, scriverà su un periodico della Democrazia Cristiana: “Se è vero che il male si può combattere anche mettendone a nudo gli aspetti più crudi, è pur vero che se nel mondo si sarà indotti – erroneamente – a ritenere che quella di Umberto D. è l’Italia della metà del XX secolo, De Sica avrà reso un pessimo servizio alla sua patria, che è anche la patria di Don Bosco, del Forlanini e di una progredita legislazione sociale”.
La novità del neorealismo italiano, che si sviluppò in Italia con De Sica, Visconti e Rossellini, sta essenzialmente, oltre alla scelta dei soggetti (la vita della povera gente e l'umanità sopravvissuta del dopoguerra), nella maniera di filmare. I codici del cinema classico vengono abbandonati come il montaggio tradizionale, l’inquadratura ordinata e pulita, la recitazione chiara e precisa; come dirà Bazin l’unità-base del neorealismo non è né l’inquadratura, né il montaggio, ma il fatto, l’evento bruto davanti al quale la cinepresa rimane attenta ad osservare (la macchina da presa segue da vicino i gesti dei personaggi, scomponendoli in una serie di momenti autonomi: si veda a questo proposito la celebre scena del risveglio di Maria
Questo cinema mira a rappresentare non una realtà già decifrata, analizzata e dotata di senso (quanto meno un senso narrativo), ma una realtà integra, con tutta la sua ambiguità; il cinema pertanto deve produrre delle rappresentazioni dotate della medesima ambiguità del reale. Per questo il piano-sequenza (costituito da una sola lunga inquadratura, senza stacchi di montaggio, dove il movimento è unico e continuo, in modo da rispettare rigorosamente l’unità di tempo e di luogo e dove il fatto non viene scomposto e dotato di un senso a priori) tende a sostituire il montaggio classico della “immagine movimento”.
Il mondo rappresentato dal cinema neorealista aspira ad essere il mondo reale, lo stesso in cui vive lo spettatore. Al racconto neorealista non basta che questi possa riconoscere figure, oggetti e paesaggi, o immedesimarsi simpateticamente in una situazione o in un'azione: deve riconoscere tutto questo come parti della sua stessa vita, come ciò che lui stesso ha visto, in cui lui stesso ha vissuto e vive e che è stato trasferito sullo schermo. E tuttavia, la narrazione neorealista, pur essendo una reinvenzione del rapporto cinema-realtà-spettatore, non è asettica e immediata riproduzione della realtà (nessuna narrazione in fondo potrà mai esserlo). Basta guardare il finale di Umberto D. per rendersi conto di quanto la narrazione, e quindi le inquadrature e il montaggio, più che assistere a un evento, si sforzino di costruirne la drammaticità.
D’altra parte questo è vero per tutto il cinema neorealista; la sua rilevanza morale e didattica, infatti, pone l’aspetto linguistico-cinematografico in secondo piano. In De Sica anche la più cruda realtà acquista una valenza simbolica, nel momento in cui viene assunta a materiale narrativo, perché ciò che conta, nella sua opera, è la capacità di esaltare le figure umane, il loro carattere, il loro sforzo quotidiano di mantenere la dignità. Il neorealismo, insomma, ha sempre più di un'anima e la sua grandezza sta proprio nelle sue contraddizioni, che significano capacità di riconoscere le infinite possibilità del racconto cinematografico.
Proprio per questo, dopo oltre sessanta anni, sentiamo Umberto D. ancora drammaticamente attuale, perché basta visitare a fine giornata il mercato rionale di una grande città per incontrare i suoi occhi, lucidi di pudore e di solitudine.
Umberto D., regia di Vittorio De Sica, 1952.
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