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domenica 16 novembre 2025

Rêverie, flânerie: Rousseau, Baudelaire e la sospensione del tempo moderno

 


L’atto del camminare, apparentemente semplice e quotidiano, diventa nelle opere di Rousseau e Baudelaire uno strumento critico capace di sospendere il tempo dominante delle rispettive epoche. Il promeneur roussoiano e il flâneur baudelairiano si muovono in spazi opposti - la natura solitaria e la metropoli moderna - e tuttavia entrambi scoprono, nel movimento non finalizzato, una forma di resistenza. In due contesti radicalmente diversi, la promenade e la flânerie diventano così pratiche che interrompono, deviano o almeno incrinano il ritmo imposto dalla modernità. Una modernità che si definisce proprio attraverso il duplice dominio dell’ordine razionale dello spazio e della misura rigorosa del tempo, e che nel camminare trova un inatteso punto di frizione, una piccola ma significativa sospensione della sua potenza regolatrice.


Rousseau: la natura come spazio della rêverie

Nel contesto della filosofia moderna, Jean-Jacques Rousseau rappresenta una figura liminale, capace di coniugare le istanze dell'illuminismo con sensibilità preromantiche. La sua opera Les Rêveries du promeneur solitaire (1776-1778) costituisce un documento esemplare di questa tensione. Per il filosofo francese, la passeggiata nella natura costituisce una forma di distacco dal mondo sociale e dalle sue imposizioni, divenendo il presupposto di una condizione mentale particolare: la rêverie, la fantasticheria. 
La rêverie rousseauiana si configura come uno stato mentale di sospensione, in cui il soggetto si abbandona a un flusso di pensieri spontanei, non finalizzati né orientati da scopi pratici. Essa non è assimilabile al sogno né alla meditazione razionale, ma rappresenta una forma di coscienza fluttuante, libera dalle costrizioni della logica e del tempo cronologico. Rousseau descrive questo stato come un “sentimento dell’esistenza” puro, in cui l’individuo si percepisce come parte del mondo naturale, senza mediazioni né ruoli sociali.
La rêverie è, innanzitutto, uno stato mentale libero e spontaneo, in cui il pensiero si dispiega senza direzione razionale, senza vincoli logici o finalità pratiche. Rousseau descrive questo stato come una sorta di flusso interiore, in cui l’individuo si lascia trasportare dalle associazioni emotive e dalle impressioni sensoriali, senza cercare di dominarle o ordinarle. È una forma di pensiero che si sottrae alla struttura argomentativa e alla linearità del discorso filosofico tradizionale, per abbracciare una modalità più fluida, intima e poetica.
In secondo luogo, la rêverie è un’esperienza emotiva e sensoriale, nella quale l’individuo si percepisce in profonda armonia con la natura e con se stesso. Il passeggiatore solitario di Rousseau non è un osservatore distaccato, ma un essere immerso nel paesaggio, capace di cogliere la bellezza del mondo attraverso il sentimento e la contemplazione. Il passo lento favorisce un movimento armonico tra corpo e pensiero e la natura, non più oggetto di studio, diventa spazio di risonanza affettiva, luogo in cui l’io si riflette e si espande.
Infine, la rêverie rappresenta una forma di felicità pura, non mediata dal possesso, dal successo o dal giudizio altrui. In questo senso, la rêverie si oppone radicalmente al tempo dominante della modernità: il tempo lineare, produttivo, scandito dalla misura e dalla finalità. Mentre la società moderna impone un regime temporale orientato all’efficienza, alla competizione e al progresso, la rêverie sospende tale regime, aprendo uno spazio di temporalità interiore. Il passeggiatore solitario non cammina per arrivare, ma per perdersi; non cerca di conoscere, ma di sentire. La sua esperienza è immersiva, contemplativa, e profondamente anti-utilitaristica. È un’esperienza di abbandono e di apertura, in cui il soggetto non cerca nulla, non persegue obiettivi, non misura il proprio tempo. 
La rêverie sospende la temporalità sociale: sottrae il soggetto alla logica dell’efficienza, dell’utilità, del compito da svolgere. Nel camminare senza scopo nella natura, Rousseau scopre un tempo interiorizzato, disteso, che non procede verso un fine ma si lascia abitare. La natura diventa così lo spazio di un’altra temporalità, un luogo in cui il soggetto ritrova sé stesso.


Baudelaire: il flâneur, la metropoli come città-misura e la solitudine nella folla

Con Baudelaire, soprattutto nel saggio Le Peintre de la vie moderne, la pratica del camminare cambia radicalmente significato. Se in Rousseau la passeggiata è un gesto di sottrazione alla società e un ritorno alla natura, per Baudelaire diventa invece una forma di immersione nel cuore pulsante della modernità. La città, con i suoi boulevard, le vetrine illuminate, i passanti anonimi, le merci e le mode, non è per il flâneur un semplice sfondo, ma il suo elemento vitale: un teatro incessante in cui la vita moderna si manifesta nella sua immediatezza e nella sua incessante metamorfosi. In questo spazio urbano, lo sguardo del flâneur assume un ruolo centrale. Egli non è un camminatore distratto, ma un osservatore acuto, talvolta quasi un investigatore dell’effimero. Attraversa la città per vedere, raccogliere indizi, registrare i dettagli che sfuggono alla percezione comune. La flânerie è così un esercizio estetico fondato sulla percezione: la città offre al flâneur un repertorio inesauribile di stimoli visivi e sensoriali, una specie di laboratorio in cui la modernità si compone e si scompone davanti ai suoi occhi.
Con Baudelaire la scena è cambiata radicalmente rispetto a quella del passeggiatore rousseauiano: il luogo del camminare non è la natura, ma la metropoli. Il termine, etimologicamente “città-madre”, assume nell’Ottocento il valore di città-misura: spazio regolato da un ordine razionale, organizzato da nuove infrastrutture, da vie tracciate geometricamente e soprattutto dal dominio del tempo degli orologi. La metropoli moderna è una macchina temporale: treni, fabbriche, uffici, comunicazioni, tutto scandisce e impone un ritmo calcolato, accelerato, necessario al funzionamento dell’economia industriale.
All’interno di questo spazio misurato e cronometrato, la figura del flâneur introduce una dissonanza. Il suo vagare senza meta non è semplice ozio: è una forma di resistenza. Il flâneur non corre, non produce, non ottimizza il suo tempo; anzi, lo disperde volutamente. Nel suo lento attraversare i boulevard, compie un gesto di sospensione rispetto alla tirannia dell’orario che domina la vita della metropoli. In un contesto che pretende di sincronizzare ogni individuo, egli si muove fuori tempo, “fuori fase”, esercitando un contro-ritmo che incrina la temporalità dominante.
La relazione del flâneur con la modernità è ambivalente. La città lo affascina e insieme lo inquieta: la sua vitalità è fonte di ebbrezza, ma anche di disorientamento; la libertà che offre è inseparabile da un senso di perdita e di instabilità. La flânerie è dunque un’esperienza duplice, fatta di attrazione e repulsione, entusiasmo e malinconia. Nel camminare Baudelaire identifica un dispositivo estetico ma anche critico: il flâneur abita la modernità per comprenderla, ma al tempo stesso la mette in questione attraverso il suo sguardo rallentato e non funzionale. In definitiva, il flâneur baudeleriano cerca la città, la folla, la novità. Il suo camminare non è un ritorno all’interiorità, ma un movimento verso l’esteriorità, verso il mondo fenomenico nella sua immediatezza più fugace. È nella superficie stessa della città che egli trova la materia della sua riflessione estetica e la misura del suo rapporto complesso con la modernità.
Pur muovendosi nella folla, anche il flâneur, come il passeggiatore di Rousseau, rimane tuttavia una figura solitaria. La sua solitudine, tuttavia, è una forma di estraneità vissuta dall’interno; essa nasce da un paradosso: egli non fugge dalla città, ma la attraversa; non rifiuta la presenza degli altri, anzi la ricerca come condizione necessaria alla sua esperienza. Il flâneur si immerge nella folla senza, tuttavia, mai appartenervi, senza confondersi nel flusso umano che lo avvolge. La folla per lui non è una comunità, ma una superficie da osservare, un teatro in cui egli è al tempo stesso presente e irrimediabilmente altrove. In mezzo alla densità della metropoli, la flânerie conserva una distanza sottile ma decisiva, la distanza dell’osservatore che partecipa solo in apparenza. La folla diventa così un medium della sua solitudine, lo spazio attraverso cui intensificare la propria differenza. Questa dimensione contemplativa e distaccata avvicina questa esperienza alla passeggiata roussoiana pur inscrivendosi in uno scenario opposto.


Le avanguardie del Novecento e il camminare come pratica sovversiva

Nonostante l’opposizione degli scenari - la natura solitaria e la metropoli affollata - Rousseau e Baudelaire individuano nel camminare una analoga facoltà di sospensione. Per Rousseau, la natura apre un tempo interiore che sottrae il soggetto alle sovrastrutture sociali; per Baudelaire, il vagare urbano spezza, anche solo momentaneamente, la meccanizzazione del tempo imposto dalla metropoli moderna e allo stesso tempo preserva una forma di solitudine individuale. In entrambi i casi il camminare diventa un atto di libertà, una formale disobbedienza alle pressioni della modernità. Il passo lento e non finalizzato rappresenta una micro-utopia temporale, una piccola insurrezione contro il regime del tempo dominante. Nel ritmo libero della deambulazione si apre una zona di sospensione, uno spazio liminare in cui l’individuo può percepirsi nuovamente padrone del proprio tempo e del proprio sguardo.
La pratica del camminare senza scopo immediatamente utile, sospendendo finalità produttive e logiche di efficienza, attraversa la modernità fino ai nostri giorni, come un filo sotterraneo di resistenza. Dall’età romantica alla contemporaneità, diversi autori hanno visto nel passo lento e non finalizzato una micro-politica dell’esistenza, una forma di sottrazione alla razionalizzazione dei tempi e degli spazi imposta dalla società moderna. 
A partire dai primi decenni del Novecento, anche le avanguardie artistiche fanno del camminare uno dei propri temi privilegiati, trasformandolo in pratica estetica vera e propria. Con il Dadaismo si afferma per la prima volta l’idea del camminare come gesto artistico in sé, come azione capace di mettere in crisi la logica utilitaristica della città moderna. Compaiono i primi ready-made urbani: luoghi ordinari della città vengono elevati al rango di opere d’arte semplicemente attraverso il gesto del movimento, dell’attraversamento, dell’azione improvvisata. Camminare diventa un modo per attivare lo spazio urbano, alterarne la percezione, trasformare strade, piazze o angoli anonimi in dispositivi estetici mediante letture, racconti e interventi estemporanei. Il Surrealismo radicalizza tale intuizione, ridefinendo la passeggiata come deambulazione: un’erranza in stato di lieve spaesamento che, allentando il controllo vigile, permette all’inconscio di affiorare nella percezione del reale. La città e i suoi interstizi vengono esplorati come luoghi dove l’inatteso può emergere, dove l’automatismo percettivo si incrina e il mondo rivela i suoi strati nascosti.
Negli anni Cinquanta, l’Internazionale Situazionista porta questa tradizione a un punto di svolta decisivo. Ritenendo la deambulazione surrealista ancora troppo passiva, i Situazionisti - Debord, Jorn, Constant, Gallizio - elaborano il concetto di dérive, una deriva urbana volontaria che mira a “smarrirsi” nella città per comprenderne gli effetti psicogeografici. La dérive diventa uno strumento conoscitivo e politico: un modo per leggere e al tempo stesso sabotare l’urbanistica tecnocratica della modernità, sostituendo agli usi prescritti dello spazio una pratica libera, ludica, creativa, nel tentativo di costruire una città diversa, fuori dalle griglie del controllo e del profitto. 
Accanto a queste pratiche urbane, alcuni protagonisti della Land Art esplorano il camminare come gesto che mette in relazione arte e paesaggio. In questi percorsi - come nelle opere di Richard Long o Hamish Fulton - camminare non è semplice movimento nello spazio, ma un atto che trasforma il territorio e la percezione del sé, una forma di resistenza poetica alle logiche della monumentalità e del mercato artistico.
Per Michel de Certeau (L'invenzione del quotidiano), la pratica quotidiana che meglio rivela il potenziale sovversivo dell’esperienza urbana è il camminare. Egli definisce il passo del pedone come una vera e propria “enunciazione pedonale”, un atto linguistico che produce significato nello spazio. Le grandi strutture della città - urbanistiche, economiche, politiche - impongono strategie rigide, percorsi prescritti, funzioni prestabilite. Ma i pedoni vi rispondono con tattiche minute, deviazioni impercettibili, scarti improvvisi che sfuggono alla sorveglianza della città pianificata. In questo senso, ogni passo non è solo spostamento, ma un gesto che riscrive lo spazio, lo altera, lo commenta dall’interno. Camminare senza scopo utilitaristico diventa così una forma di micro-politica creativa: un modo discreto, quotidiano e diffuso di sottrarsi al controllo, restituendo alla città una dimensione di libertà, gioco e possibilità.
In tutte queste forme di esperienza del camminare resta centrale una diversa relazione con il tempo. Camminare significa ancorarsi al momento presente, rallentare, sottrarsi al ritmo accelerato imposto dalla società industriale e, oggi, da quella tecnologica. È un gesto che sospende il flusso produttivo, che interrompe la continuità del tempo misurato e restituisce all’individuo una temporalità qualitativa, espansa, capace di riaprire la percezione e l’immaginazione. Il passo lento diventa così una forma di resistenza temporale: un modo per riappropriarsi del proprio tempo e, con esso, di una porzione di libertà.

Bibliografia

Benjamin W., Opere complete, I “passages” di Parigi, vol. IX ,Einaudi, Torino 2000.
Careri F., Walkscapes. Camminare come pratica estetica, Einaudi, Torino 2006.
De Certeau M., L’invenzione del quotidiano, Edizioni Lavoro, Roma, 2010.
Gros, F., A philosophy of walking, Verso, London – New York 2014.
Jacobs, J., Vita e morte delle grandi città. Saggio sulle metropoli americane, Edizioni Comunità, Roma 1969.
Jimenez J., Critica del mondo immagine, Aesthetica, Milano 2025.
Lefebvre, H., Critique de la vie quotidienne, L’Arche, Paris 1947.
Sabbion P., Camminare nel paesaggio: un atto rivoluzionario, Ri-Vista, 01/2022, pp. 78-87.
Solnit, R., Storia del camminare, Ponte alle Grazie, Milano 2018.


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