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giovedì 18 aprile 2024

Borges o dell'eccedenza dell'informazione



«Aveva imparato senza sforzo l’inglese, il francese, il portoghese e il latino, ma sospetto che non fosse molto capace di pensare».

Così scrive Borges a proposito del protagonista del suo racconto, "Funes, o della memoria", presente nella raccolta Finzioni.

Racconta la storia di Ireneo Funes, giovane di un paesino di campagna che, dopo esser stato travolto da un cavallo, si ritrova paralizzato e dotato di una capacità sovrumana: non la perdita della memoria e dell'identità, come in genere è comune nelle narrazioni tradizionali; ciò che, invece, Funes sviluppa in seguito al trauma è una memoria totale, infallibile e feroce. Da quel momento in poi non è più in grado di scordare nulla: ricorda ogni particolare di quello che vede, ogni singolo avvenimento di infanzia ed episodio si ripresenta nella sua mente con tutti i suoi infiniti dettagli. 

Ce lo siamo mai chiesto? Come sarebbe possibile il vedere, o qualunque percezione, se non focalizzato solo su pochi elementi, ma condannato a cogliere ogni dettaglio, ogni aspetto, ogni singolo punto, o linea, o forma?

Il problema di Funes, dicevamo, non è la perdita di informazioni, ma il loro eccesso. La sua prodigiosa memoria si rivela così una maledizione e una condanna: non potendo selezionare alcuni aspetti, non è più in grado di generalizzare. I cani che vede, ad esempio, sono percepiti tutti come animali diversi, non potendo ricondurli a un genere comune. 

E, senza filtrare e generalizzare, come si possono elaborare concetti, pensieri, senso?

L'eccedenza dell'informazione, che si mostra come il lato fantastico e folle di alcune pratiche umane, è un topos nella letteratura di Borges. La ritroviamo nella infinita Biblioteca di Babele, nella Mappa dell'Impero, nella classificazione degli animali contenuta in una "certa enciclopedia cinese", nella figura dello Specchio, che riflette e duplica, e del Labirinto, con la tortuosità dei suoi percorsi, così ricorrente nella raccolta L'Aleph.

In uno di questi racconti, "La casa di Astrione", troviamo il labirinto abitato dal Minotauro, figura solitaria e malinconica. A cui Borges mette in bocca queste parole:

"So che mi accusano di superbia, e forse di misantropia, o di pazzia. Tali accuse (che punirò al momento giusto) sono ridicole. È vero che non esco di casa, ma è anche vero che le porte (il cui numero è infinito) restano aperte giorno e notte agli uomini e agli animali. Entri chi vuole".

Un labirinto dalle infinite porte sempre aperte. Può valere come allegoria topologica di un universo costituito da una sovrabbondanza di informazioni. Attraverso cui si ha la necessità di trovare dei percorsi, per non smarrirsi e soccombere. Un'allegoria del nostro tempo forse, condannato all'eccesso della memoria, alla registrazione di ogni dettaglio che si trasforma in dato. Una memoria che rischia di travolgerci se, tra le infinite porte, non si approntano dei percorsi possibili e dotati di senso. 

Perché, per affrontare un labirinto dalle porte infinite, non basta più il filo di Arianna. Di gomitoli ne servono tanti. L'importante è che siano connessi tra di loro. Per orientarci nel Labirinto oggi serve non un filo, ma una maglia. Serve una rete.

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