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giovedì 27 aprile 2023

Welcome to the synthetic world


L'immagine è sempre stata, fin dai suoi albori, una delle modalità con cui abbiamo mediato il nostro rapporto con l'ambiente, con le cose e gli esseri che lo abitano. Una mediazione che non ha mai significato semplice rispecchiamento di un mondo già dato, ma processo di elaborazione e di costruzione di ciò che, di volta in volta, abbiamo negoziato come "mondo". 
L'immagine costituisce, cioè, una forma di vita. Che contribuisce largamente a delineare il nostro modo di pensare, di descrivere e di immaginare l'umano e l'universo che ci circonda. Un modo che non ha mai cessato di appassionare l'umanità, anche perché l'immagine, eccedendo il linguaggio del concetto, costringe quest'ultimo a forzare le stesse modalità del dire, e dunque del pensare.

Il rapporto mimetico con il mondo e l'illusione di verità
Ad un certo punto della storia sono comparse delle immagini che hanno avanzato la pretesa di avere con la realtà un rapporto particolare, di tipo mimetico-riproduttivo. A partire dalla leggenda classica di Zeusi e Parrasio - passando per la prospettiva rinascimentale, le tecniche di trompe-l'oeil, la retorica del ritratto fino all'esplosione della produzione visuale realistica per eccellenza, la fotografia - prendono forma delle immagini che pretendono di essere indistinguibili dalle cose che riproducono e di poter sostituirsi a esse, prendendone il posto o di descrivere accuratamente il soggetto inquadrato, informando su di esso con valenza testimoniale e probatoria. 
Come si può leggere nelle storie antiche, l'illusione di realtà dell'immagine rappresentava uno sfoggio di bravura dell'autore, indicava il vertice della capacità umana di imitare la natura e di ingannare i sensi dello spettatore. Bravura che fece vincere al pittore Parrasio e alla sua tela che appariva coperta da una tenda la competizione con Zeusi, il cui quadro di un grappolo d'uva era dipinto così realisticamente che gli uccellini vi si posavano tentando di beccarne i chicchi. Ma vinse Parrasio, perché nessuna tenda ricopriva la sua tela: si trattava di un'illusione dipinta. Ma il suo effetto illusionistico risultava più stupefacente di quello dell'opera di Zeusi, perché se i chicchi dipinti avevano tratto in inganno l'occhio di creature non umane, la tela di Parrasio, invece, aveva ingannato gli occhi di un artista esperto. Il criterio di valore, che traspare da questa leggenda, è dunque quello della capacità di ingannare i sensi, di provocare un'illusione di realtà.
La concezione mimetico-riproduttiva dell'immagine - che come scrive Vernant si impone piuttosto tardi, perché l'eídōlon arcaico non è la rappresentazione di un'assenza, ma una presenza viva che si dà come apparizione - produce tutte quelle riflessioni sullo statuto ontologico dell'immagine che sfociano nella contrapposizione dualistica (e instabile) che conosciamo, per cui, da una parte l'immagine costituisce un simulacro che pretende di essere vero, mentre è solo un'illusione ottica; dall'altra, l'immagine è una rappresentazione del reale, con rapporti più o meno stretti di verità con esso.
È la fotografia, in particolare, che determina una svolta epocale nel panorama visivo mondiale, in quanto si presenta come artefatto in grado, tramite un processo chimico-fisico, di rispecchiare automaticamente il mondo esterno producendo un'immagine visibile ripetibile con esattezza e liberando la pittura dal compito tradizionale di "raffigurare il vero". A partire dalla sua invenzione, la fotografia investe il sociale attraverso la comunicazione e si pone come nuovo contenitore di realtà e di verità, venendo coinvolta in varie attività che ne esplicano la presunta e accettata vocazione documentaria: l'informare, l'inventariare, il collezionare, il registrare, il diagnosticare. Milioni di immagini invadono il campo della rappresentazione e la realtà assume inediti tagli prospettici, configurazioni inusuali, nuove e sconvolgenti proporzioni (dall'infinitamente piccolo all'infinitamente grande) che ne ridefiniscono continuamente i confini fenomenici.
Fin dalla sua comparsa, la fotografia è stata sospesa in una condizione ibrida, una linea di confine tra due mondi, quello della natura e quello della cultura. Talbot la definiva infatti il pencil of nature e con questo circondava la fotografia di un'aura "selvatica", contingente e nello stesso tempo addomesticata dall'ingegno umano. Il riferimento alla "mano" della natura dotava questo strumento delle qualità della trasparenza, della precisione del calco come sigillo di una registrazione che si compie da sé, affiancata ai segni naturali come i riflessi, le ombre, le tracce o alle immagini "sovrannaturali", come quelle acheropite o le apparizioni. Nel mentre si rincorrevano altre registrazioni, quelle dei brevetti che prescrivevano dei protocolli altamente tecnici che, nello spirito del tempo, risultavano in continuità con tutta la nascente tecnologia al servizio della scienza positivista, orientata a carpire i segreti della natura in cornici oggettive. Da una parte la natura che si registra da sé tramite la luce, dall'altra la macchina dell'uomo che "strappa" la verità dalle cose con i ritrovati della tecnica e della scienza. Questo paradosso, o questo fraintendimento, ha caratterizzato da sempre la storia della fotografia, il dottor Jekyll e Mr. Hide del panorama mediatico, l'oggetto dalle due anime in rapporto sempre problematico e spesso conflittuale, alla base di tutti i doppi della fotografia, sempre in bilico tra arte e vita, tra estetica e scienza, tra astrazione e rappresentazione.
Nonostante le innumerevoli posizioni critiche, artistiche e teoriche, che hanno cercato di sconfessare l'autentica capacità dell'immagine tecnica di catturare il reale, certamente la fotografia è stata vissuta a lungo come il ritrovato umano più in grado di altri di ottenere un'immagine accurata del mondo che ci circonda, delle cose, dei volti, dei paesaggi. E con queste funzioni è stata utilizzata in diverse discipline, in diversi contesti, in diverse pratiche sociali. La sua funzione di mediazione e costruzione del mondo si è modellata soprattutto sulla sua presunta capacità di fornirci una testimonianza accurata di esso e dei suoi fenomeni, al di là delle capacità umane di visione e di memoria.

L'era di Synthography
Oggi ci siamo svegliati in quella che il filosofo Cosimo Accoto definisce "l'era generativo-inflattiva delle immagini sintetiche" (https://www.economyup.it/blog/e-cominciata-lera-dellimmagine-di-sintesi-come-funziona-quali-rischi-porta/), restando sconcertati per le foto fake del Papa in piumino bianco da trapper e di Donald Trump in carcere, per la beffa dell'artista tedesco Boris Eldagsen ai danni del Sony World Photography Awards, per il web inondato di immagini sintetiche prodotte attraverso varie piattaforme che fanno uso di intelligenza artificiale generativa (Midourney, DALL-E, Stable Diffusion, tra queste).  Abbiamo così scoperto che il Parrasio della nostra era non è un uomo come noi, ma è fatto di circuiti elettrici e reti neurali digitali. L'abile mago in grado di dare vita all'illusione suprema, alla simulazione 'pittorica' che imita sia l'opera della natura che quella della macchina, non appartiene alla nostra specie.
La fotografia aveva realizzato il sogno della riproduzione perfetta di spezzoni di realtà, di oggetti reali posti di fronte a un obiettivo, secondo la definizione di Barthes. Ora l'algoritmo ha realizzato l'antico sogno della finzione perfetta, dell'immagine di oggetti che 'sembrano' reali. E, per farlo, doveva raggiungere lo standard del protocollo realistico per eccellenza, quello fotografico, dando vita a una sorta di paradosso: il riferimento per valutare la resa iperrealistica di un'immagine costruita (non prelevata), e dunque l'abilità del suo "autore", consiste nella conformazione all'immagine meccanica per eccellenza, quella fotografica. L'immagine sintetica, dovuta a un processo di scomposizione e ricomposizione digitale, mira a 'sembrare' una fotografia. Ed è questo che effettivamente accade grazie alle nuove tecnologie. Le immagini ci ingannano perché sembrano fotografie, cioè prelievi di impronte di luce, ma non lo sono.

La fotografia è morta?
Così, come ad ogni innovazione tecnologica avvenuta nel settore negli ultimi anni, si ripropone il dibattito sull'ontologia del mezzo fotografico. Cos'è una fotografia? Un'immagine realizzata con una macchina fotografica o un'immagine che viene percepita come fotografia, a prescindere dalla tecnologia alla base della sua produzione? Cos'è che conta: il processo di produzione dell'immagine o il modo in cui viene "vissuta", entrando nel flusso comunicativo, nelle pratiche percettive, cognitive e funzionali? C'è una differenza ontologica tra la fotografia e l'immagine sintetica? Come le nuove tecnologie collocano ora la fotografia nel mondo del visuale?
Il legame con il referente (perché di questo si tratta) è ancora importante? E non si parla solo del valore di verità di una fotografia, ma del fatto che, nella definizione della sua ontologia, ha sempre pesato una serie di presupposti riguardanti il processo fotografico:
- una collocazione del corpo nello spazio
- una direzione dello sguardo
- una scelta di inquadratura
- una relazione con un "soggetto".
È ancora una fotografia un'immagine che sembra una fotografia, ma non ha comportato alcuna collocazione di un corpo, di un obiettivo e di un soggetto nello spazio fisico? Ha ancora senso voler distinguere? Ed è possibile farlo? Oppure dobbiamo assumere una nuova postura percettiva di fronte ad ogni immagine, uno scetticismo critico di base che rinunci al legame referenziale? Accettando che le immagini non vogliano più mostrarci tracce del mondo intorno a noi, ma che vogliano parlare soprattutto di noi, della nostra immaginazione, mediata dalla tecnologia generativa e dall'inconscio collettivo? 
La posizione di Andrew Dewdney è drastica: occorre dimenticare la fotografia. "La fotografia è ovunque, ma non come l'abbiamo conosciuta; da tempo è un non-morto, uno zombie, in cui il linguaggio, il pensiero, i significati e i valori consolidati della fotografia costituiscono un ostacolo alla comprensione della nuova condizione" (A. Dewdney, Dimenticare la fotografia, Postmedia Books, 2023). Per Dewdney questo processo di zombificazione della fotografia è cominciato con l'avvento del digitale, ben prima dell'esplosione delle immagini sintetiche. È stata la fine dell'era analogica a stravolgere le modalità di produzione e circolazione delle immagini e, con esse, il nostro modo di pensare il mondo. 
Riprendendo il pensiero di autori come Jonathan Beller, Allan Sekula, Joanna Zyliska, Trevor Paglen e molti altri, Dewdney scandaglia il paradosso della contemporaneità, costituito dal fatto che mentre la fotografia viene sostituita dall'immagine algoritmica, le culture fotografiche continuano a proliferare come mai prima d'ora. Non si tratta affatto di tracciare delle differenze ontologiche, di cui l'autore si disinteressa del tutto. Dimenticare la fotografia significa per Dewdney non consegnarla all'oblio, ma considerarla un discorso chiuso, collocarla all'interno dell'archivio storico, in modo da rivelare i limiti del pensare con la fotografia e di liberare l'immagine dalle catene forgiate dalla storia dell'arte e dalla teoria fotografica. "Ma, cosa forse più importante, dimenticare la fotografia significa anche rifiutare la cornice di realtà che essa ha prescritto e delineato". La fotografia è stata da sempre considerata una finestra trasparente, sinonimo del vedere naturale, eppure, continua Dewdney, "la fotografia è tutt'altro che naturale; è soprattutto un artificio grafico, un codice pittorico bidimensionale di comunicazione simbolica". 
Le immagini non sono solo un modo di rappresentare il mondo, ma anche di pensarlo, di produrlo, di costruirlo. Rafforzando l'oggettività e garantendo il principio di realtà, la fotografia non è stata una spettatrice innocente degli eventi storici che ha rappresentato; è stata anzi un agente attivo e complice nella creazione di scene storiche, uno strumento fondamentale del capitalismo industriale e del colonialismo, occupando una posizione di indiscutibile autorità (o tirannia?) nel definire il reale sociale e scientifico, contribuendo perciò a plasmare e reificare una realtà rappresentativa del XX secolo che deve essere messa in discussione: "l'immagine della realtà lasciata in eredità dalla fotografia del XX secolo non era solo ideologica e crudele, ma non corrisponde più alle condizioni della rappresentazione e nasconde le condizioni del XXI secolo". 
La fotografia come costrutto teorico non è più valido per la realtà del nostro tempo in quanto il mondo e gli apparati a cui apparteneva non esistono più, mentre, per quanto riguarda lo standard culturale della visualità, si è passati da un sistema rappresentativo a un sistema non rappresentativo, basato sulla simulazione computazionale: le network images non sono altro che flussi di dati, temporaneamente attualizzati su uno schermo, campi relazionali caratterizzati da ubiquità e operatività. Sono immagini che tracciano, identificano, profilano, attivano e controllano, strumentali all'esecuzione di compiti. Non hanno una natura rappresentazionale, ma operativa.
Ecco perché, secondo l'autore, c'è un urgente bisogno di andare oltre la fotografia e il pensiero fotografico, cominciando da un'altra parte, dallo studio delle nuove immagini non rappresentative e soprattutto delle nuove pratiche a cui danno accesso: "fuggire dalla fotografia per forzare una nuova visione dell'immagine".

Elaborare il lutto
La sintesi computazionale, i media sintetici e l'uncanny valley da essi generata sono l'oggetto dell'ultimo libro di Cosimo Accoto (C. Accoto, Il mondo in sintesi, Egea 2022), che si interroga sullo statuto filosofico del sintetico, dei "«surrogati» del mondo in alta dimensionalità simulati computazionalmente".
A proposito della produzione di immagini realistiche attraverso reti avversativo-generative (GAN), Accoto scrive:
"Più filosoficamente direi che, in realtà, le reti avversativo-generative non producono «immagini». Questa sarebbe la lettura più banalmente fenomenologica (cioè meramente descrittiva) del lavoro di queste reti neurali artificiali. La loro abilità sta piuttosto nella capacità di individuare e riprodurre effetti di realismo. Devono essere in grado di estrarre i tratti del «vero» per l’umano (da immagini reali) e di applicarli, per esempio, nella manipolazione simulativa o nella generazione sintetica di volti umani. In questo caso il processo mimetico non si limita dunque a copiare, duplicare, riprodurre o rappresentare semplicemente volti (o oggetti, scene, suoni, ambienti e via dicendo). Piuttosto, genera e ricrea simulativamente e sinteticamente l’effetto di «realtà» che il reale produce in chi lo guarda. Un effetto, questo è il punto chiave qui, che l’umano è stato educato, storicamente e culturalmente, a guardare e riconoscere nel mondo".

Anche Nelson Goodman, già diversi anni fa, scriveva che "il realismo è relativo, determinato dal sistema di rappresentazione corrente in una data cultura o persona, in un dato tempo" e che "il realismo è un fatto di abitudine".
Più avanti, riportando un brano tradotto da un saggio di Massimo Leone (Artificial_Faces), Accoto continua:
"non va dimenticato, “realtà” e “artificialità”, “naturalezza” e “simulacro” non sono valori assoluti ma valori di riferimento risultati contrari e contrastanti: ritratti fotorealistici di volti biologici inesistenti generati da reti neurali appaiono come estremamente realistici allo spettatore dei primi anni Venti del Duemila, ma lo saranno ancora tra dieci o vent’anni? La risposta dipende dalla storia della comunicazione facciale, che include la storia della tecnologia facciale, cioè la serie di dispositivi e tecniche attraverso cui i volti vengono “fatti”, dall’ingegneria genetica al trucco, dalla chirurgia plastica ai filtri digitali".

Il realismo di un'immagine non è un dato assoluto, ma sempre legato alle culture e alle tecnologie che in ogni epoca e in ogni civiltà danno vita a un loro modello di realtà visiva. In ogni caso, la manipolazione delle immagini fotografiche non è certo una novità. Cosa c'è di nuovo allora nelle immagini generate dalle reti neurali artificiali? Che cosa accade quando la macchina riesce a sintetizzare l'impressione di verità? Ecco la vera questione per Cosimo Accoto: la questione epistemica della «verità».
Ciò che succede è che il deep learning e le immagini sintetiche stanno mettendo in discussione i confini delle precedenti nozioni culturali di realtà, stanno ridefinendo i regimi di verità correnti, la presunta capacità delle immagini e dei video di veicolare conoscenza. Il dibattito su questo tema assume spesso toni apocalittici,  paventando la fine di ogni possibilità di produrre informazioni vere e di far circolare contenuti di verità.
L'esplosione delle nuove tecnologie di sintesi impatta e ridefinisce anche la natura e il significato che abbiamo finora dato alle tecnologie visive precedenti (disegno, pittura, fotografia). Questo significa mettere in discussione il presente e il futuro della rappresentazione del mondo e i regimi di verità e falsità che le civiltà hanno elaborato nel tempo, compreso il realismo fotografico. La prospettiva da cui guardare questo passaggio, secondo Accoto, è la seguente: fino a poco tempo fa, era la tecnica fotografica a rappresentare lo sforzo massimo, raggiunto dalla tecnologia, per cogliere la realtà nei suoi dettagli minimi. Ora, con le immagini sintetiche, si ha la possibilità di produrre effetti di realismo anche senza inquadrare fotograficamente il reale. Se le simulazioni computazionali diventano così foto-realistiche da essere indistinguibili dalle vere fotografie, allora le vere fotografie dovranno rinunciare al primato dell'effetto di verità. Si tratta, dunque, di ripensare radicalmente lo status epistemico della fotografia.
"la «fine dell’era della fotografia», come ha scritto Patrick Pan, derivante dall’arrivo delle reti neurali avversative apre a nuovi scenari (anche arrischiati) di civilizzazione. Come accaduto per l’arrivo della fotografia rispetto alla pittura, si avvieranno nuove prospettive interpretative e cognitive. In positivo, possiamo ricordare che dopo la fotografia la pittura, una volta liberata dalla necessità di rappresentare in maniera realistica il mondo, poté esplorare nuove visioni estetiche; nel mentre la fotografia guadagnava il palco di regina della strumentalità rappresentativa del vero. Le reti neurali artificiali generativo-avversative con questa nuova proliferazione delle facce scardinano culture tecno-visive e culture etico-giuridiche correnti. Non si tratta necessariamente di una crisi esclusivamente distruttiva del mondo. Certamente è la fine di un mondo. A questo passaggio dobbiamo prepararci elaborandone, collettivamente e individualmente, il lutto culturale."
Mettere da parte il paradigma mimetico e rinegoziare la realtà
Dimenticare ed elaborare il lutto, dunque. Per andare oltre, per non lasciarsi invischiare nel decennale dibattito che mira a definire i contorni del fotografico e andare dritti al cuore delle immagini algoritmiche.
Ancora Accoto, nell'articolo summenzionato, cita Jussi Parikka (Operational Images, 2023) che scrive “…ci sono immagini che principalmente operano; non sono necessariamente rappresentative o pittoriche. Le immagini operative mettono in crisi ciò che è un’immagine nella misura in cui passano dalla rappresentazione alla non-rappresentazione, dal primato della percezione umana di corpi, movimenti e cose alla misurazione, al modello, all’analisi, alla navigazione e altro ancora. Cambiano le scale e i termini di riferimento…”. 
Ma allora come si riconfigurerà il ruolo delle immagini nel nostro processo di mediazione con il mondo? È davvero venuto meno ogni legame referenziale e ogni istanza rappresentativa delle nostre produzioni visive? Io credo proprio di no. Il ruolo di mediatori percettivi e cognitivi delle immagini continua sotto molte altre forme. Basti pensare alla tecnologia della AR (Augmented Reality), in cui siamo immersi in un mondo fisico sovrapposto da strati informativi digitali che marcano e indicizzano il reale in modo diretto. Un ambiente mediale nuovo che propone "sconfinamenti ed erosioni" nella relazione sempre più sfumata tra realtà e sua rappresentazione. Scrive ancora Accoto in Il mondo in sintesi: "L’immagine (pittura, fotografia, film) è stata storicamente un medium che si è distaccato dall’oggetto rappresentato (una volta dipinto, fotografato, filmato). Ora si avvia a essere, in forma nuova, strettamente, connesso e linkato al suo referente reale. Un’operazione di «suturazione» che è, di fondo, una strategia di «saturazione» con grande impatto su esistenze, vite e abitudini."
Occorre anzi fare molta attenzione quando si afferma che il potere indessicale delle immagini è finito, perché si fonda proprio su questa capacità delle immagini fotografiche di indicare corpi fisici concreti e di individuare siti reali tutto l'apparato di potere e controllo costruito sulle tecnologie di riconoscimento (ad esempio quello facciale, ma anche il riconoscimento di merci, di luoghi, di oggetti di ogni tipo), attuato attraverso immagini.
Si tratta insomma di mettere da parte il paradigma mimetico e di esplicitare il nuovo modo di pensare il mondo implicito nelle nuove immagini e di dar vita a una cultura visiva in grado di esplorarne potenzialità e criticità. Indagare come si va delineando il nuovo "criterio di verità" delle immagini, cioè come negoziamo, attraverso di esse, la nostra realtà. Attraverso quali pratiche del visuale modelliamo e plasmiamo il mondo intorno a noi. Inutile dire che siamo immersi nella complessità anche dal punto di vista del visuale e che continuare a chiedersi se un'immagine è ancora una fotografia o meno vuol dire restare attaccati al famoso dito che indica la luna. 
Il Parrasio algoritmico oggi dipinge bene le sue tende che paiono vere, dando l'illusione di realtà. Ma cosa nascondono quelle cortine? Sarà l'occasione per dire addio, questa volta in modo definitivo, all'idea di immagine come calco di un reale già dato e a volgere l'attenzione verso altro: a tentare di sollevare le tende che coprono la superficie, ad esempio, e indagare la politica che quelle immagini perseguono e come si configura l'espansione del catalogo dell'esistente, strutturando nuove relazioni tra corpi, apparati, oggetti e ambienti. Esplorare l'ecologia che quelle immagini implementano affinché possiamo essere loro partner comunicativi consapevoli e non meri obiettivi della loro agency sempre più sofisticata.
Si tratta, come raccomanda Accoto, di fare vera innovazione culturale. La riflessione etica, la governance, l'elaborazione di strategie di contenimento e di sorveglianza non bastano. Attraversare e abitare l’uncanny valley dell’immagine sintetica - scrive ancora Accoto -  richiederà uno sforzo culturale, perché i rischi e le vulnerabilità sono molte e significative.
Tornando alla questione del rapporto delle immagini con la realtà, ancora Goodman scriveva che "la rappresentazione realistica, in breve, non dipende dall'imitazione, dall'illusione, o dall'informazione, ma dall'addottrinamento». L'immagine (di qualunque natura fosse) non ha mai, nella storia, "manifestato" la propria "verità" in modo autonomo, ma ha sempre avuto bisogno di un contesto autorevole (spesso autoritario) che se ne facesse promotore e garante. Inutile, pertanto, assumere toni apocalittici, paventando la fine di ogni possibilità di far circolare contenuti di verità perché sono arrivate le immagini sintetiche. L'obiettivo vero, in questo discorso di revisione epistemica delle immagini, si sposta dalle immagini in sé a quei contesti, in cui le immagini diventano agenti attivi di pratiche sociali. È in quei contesti, costituiti da soggetti, apparati, linguaggi e discorsi e che diventano cornici più o meno fluide di senso, che occorre lavorare per tornare a negoziare le "verità" che si mettono in gioco.

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